Per favore smettete di definirli slowcore. Sarebbe come definire Uluru solo una grande roccia nel bel mezzo del deserto australiano. In quasi trent’anni di carriera, Mimi Parker, Alan Sparhawk e i loro collaboratori – ossia i Low – hanno raccontato in musica i misteri della fede, le contraddizioni dell’America contemporanea e le fragilità della vita di coppia. Fin dagli esordi hanno optato per un’estetica minimalista ma ad altissimo tasso emotivo e, disco dopo disco, l’hanno arricchita con tutto ciò che hanno scoperto e imparato vivendo.
“Double Negative” (2018), dodicesimo album in studio di una discografia pressoché immacolata e invidiata dal 90% del mondo indie, è probabilmente il lavoro più avventuroso e coraggioso in carriera. Un disco importante, intimo e politico, ricercatissimo ma melodico, che non a caso ha fatto impazzire in egual misura pubblico e critica. Una deflagrante destrutturazione sonora ed emotiva – con il prezioso aiuto di BJ Burton – nella quale elettronica, rock e puro lirismo vengono infranti in mille pezzi per essere ricomposti in qualcosa di nuovo, unico, sublime. Come dire, mettersi in discussione, sezionarsi per poi ritrovarsi.
Essere credibili e dilanianti (in senso positivo) anche quando si esegue una cover dei Bee Gees, di Rihanna – è successo nell’ultimo passaggio romano nel 2013 con “Stay” – o una carola natalizia. Questione di integrità morale e sensibilità artistica, aspetti che non sono mai mancati ai Low. A ragion veduta, ma soprattutto sentita, possono essere considerati un alto esempio di cultura popolare americana. Da affiancare, senza timori reverenziali, a un romanzo di Cormac McCarthy o a un film dei fratelli Coen.
Scritto da Matteo Quinzi