È curioso come da sempre l’uomo abbia mostrato l’istinto, mascherato da razionalità, di dover definire ciò che lo circonda. Fin dalla notte dei tempi è corso al riparo dall’ignoto, iniziando la più grande opera di catalogazione mai vista: lo scibile umano. Come per debellare qualsiasi possibilità di incontrare qualcosa che non fosse sotto il suo controllo, che risultasse ambiguo. Ma perché non liberarci dalla paura dell’ambiguità? In fondo l’opportunità di avere una duplice interpretazione delle cose potrebbe rappresentare una ricchezza. Il senso ulteriore.
Jean Apollinaire, in arte conosciuto come Pascale Marthine Tayou, fa di questa operazione la sua cifra artistica e identitaria. Con le sue opere ci rende testimoni di un’arte fatta di incontri di diverse culture, di sovrapposizioni di tecniche e di significato. Tramite infiniti stimoli geografici, ci conduce nella sua esplorazione sui temi della globalizzazione, della sostenibilità e dell’immigrazione. Un viaggio vissuto come un esodo, che si trasforma in vero e proprio nomadismo per il mondo: il nostro villaggio globale.
Scritto da Giulia Berardi