Alea iacta est, il dado è stato lanciato, diceva Giulio Cesare. E con lui potrebbero dirlo milioni di italiani, dal momento che oggi il gioco d’azzardo è la terza industria del paese.
Gioco sì, ma per alcuni vizio, malattia, inferno da cui è impossibile uscire.
Il Teatro delle Albe di Ravenna, dopo aver riempito quest’estate il Castello Sforzesco con decine di ragazzi di giallo vestiti che urlano e saltano, torna ora a Milano con un monologo disperato sulla solitudine, un delirio sul desiderio di autodistruggersi.
Dal fondo di un fossato di campagna, colpito a morte dai suoi strozzini, il protagonista racconta la propria caduta vertiginosa e tutte le umiliazioni e le conseguenze economiche, umane e famigliari che ne derivano.
Scrive Martinelli: «Il gioco è una sfinge. Come una sfinge, ci interroga sulla nostra natura. E se siamo noi a interrogarlo (…) come un oracolo antico ci fornisce risposte ambigue: il gioco può manifestarsi come la voragine dell’autodistruzione solitaria, oppure, al contrario, come il senso più alto e bello dello stare insieme, del miracolo della convivenza. Il gioco può rivelarsi strumento demonico o danza angelica, inferno o paradiso, perché va al fondo della nostra enigmatica natura umana».