Maurice Louca è un mistero. Un mistero come possa non essere chiacchierato al pari di colleghi meno creativi del jazz-indie contemporaneo, visto che la sua cifra musicale ha tutto per esaltare quella fetta di pubblico. Elettronica, free jazz, rielaborazione della musica folklorica nordafricana, groove e momenti eterei che si alternano. Su di lui non si trovano profili firmati Pitchfork o The Guardian, non è inserito in playlist sul jazz di tendenza: la stringata biografia su Discogs ci dice solo che “Maurice Louca is an wgyptian composer and performer of experimental music”.

Un minimalismo che mal si sposa con la sua musica che è, al contrario, una cornucopia di meraviglie. Un continuo gioco di specchi che si mettono in mostra e si nascondono, appaiono per poi fuggire lasciando una coda luminosa che inebria fino all’ultimo e pianta subito il seme per la prossima evoluzione, pronta a sbocciare attimi dopo. Un mistero è anche la sua capacità innata di elaborazione e rielaborazione continua, che rende l’esperienza di ogni ascoltatore tutto fuorché uno sforzo faticoso, eccessivamente intellettualizzato e razionale. Ogni nota scorre fluida e la fatica (se pure ci fosse) non traspare, A noi il privilegio del perdersi in un flusso di coscienza, che è il risultato evidente di una padronanza totale di codici musicali e artistici. Pronti a farlo all’ombra del Gazometro (gratuitamente!) in questo scampolo di fine estate prolungata, agrodolce e ipnotizzante.