I topi ballano, noi siamo i topi: questa è una delle immagini che mi risuona come un mantra per ore dopo lo spettacolo e non riesco a discostarmi dalla sensazione di essere vittima e colpevole di una parte di Storia che pensavo di non aver vissuto.
Iniziamo dal principio, siamo a Campo Teatrale e in scena c’è Topi del collettivo Usine Baug, formato da Ermanno Pingitore, Stefano Rocco, Claudia Russo ed Emanuele Cavalcanti.
Sulle note de “I migliori anni della nostra vita”, due narrazioni, inizialmente difficilmente avvicinabili, cominciano a intrecciarsi: da una parte Genova, i fatti accaduti durante il G8, storia nera di un’Italia troppo spesso ritenuta più lontana nel tempo di quanto sia nel concreto, dall’altra le peripezie di Sandrone (Ermanno Pingitore), un “borghese piccolo piccolo” alle prese con una casa infestata dall’invisibile squittio dei ratti. Una drammaturgia che, nei meccanismi del montaggio parallelo, trova una sua espressività inattesa, creando un immaginario capace di attraversare puntualmente le crudeltà di vent’anni fa – buco nero e oscuro della nostra Storia. In scena si assiste all’idea di una violenza senza controllo, a partire dai racconti più brutali degli eventi di quell’estate del 2001 fino alla lotta senza riserve contro i roditori.
La storia di Sandrone si scandisce dai vari metodi per uccidere i topi: dal repellente, alle trappole, al gatto, solo per finire con la nube tossica che rimarrà nell’appartamento per avvelenarlo; non ci sono parole, non servono perché stanno tutte nell’altra storia che si intreccia a questa, quella sul G8. Claudia Russo e Stefano Rocco passano da servi di scena, a elementi strutturali (come se fossero dei mobili), fino a essere portavoci della Storia raccontandoci dei fatti di Genova, dei limoni, delle alternative proposte al G8 non considerate, del corteo de “Il popolo di Seattle”, dei Black Bloc, delle forze dell’ordine, della morte di Carlo Giuliani, di Genova in fiamme, del corteo del sabato e della scuola Diaz-Pertini dove avvenne la “macelleria messicana”. Le immagini di questi avvenimenti, semplicemente narrati, diventano vivide nella mente degli spettatori, indelebili punti di una cronaca di cui ancora non si riesce a tracciare la linea.
È quasi inutile dire quanto sia necessario oggi questo spettacolo, come è quasi inutile parlare dell’eclettismo di questo collettivo che, dalla drammaturgia, alla regia, alle luci, alle scene creano un equilibrio perfetto. Forse invece non lo si dice mai abbastanza: quando qualcosa vale davvero la pena bisognerebbe urlarlo a squarciagola perché è raro nella sua urgenza, allora lo urlo, andiamo a teatro, andiamo a vedere Topi perché come cantava un noto cantautore “anche se vi credete assolti siete lo stesso coinvolti” ed effettivamente lo siamo, indipendentemente dalla nostra età ed esperienza. Oserei dire che Brecht sarebbe stato fiero di un lascito tanto capace di far riflettere sul mondo in cui viviamo, Topi è un degno figlio di quel teatro che fa pensare, che ti cambia e fa tremare quella linea sottile sulla quale tanto cerchiamo di stare in bilico, perché è la scomodità della riflessione che ci portiamo a casa con la consapevolezza che per fortuna i topi ballano ancora.
Scritto da Francesca Rigato