“Sembra sempre allegra”. Questa frase risuona quasi da subito nella mia testa quando incontro per la prima volta Saulė Bliuvaitė – giovane regista di Toxic, Pardo d’oro all’ultimo Locarno Film Festival – per una tavola rotonda sul suo cinema e su quello dei fratelli Zürcher, anche loro al festival con The sparrow in the chimney. Saulė atterra a Milano dopo un volo di diverse ore da Vilnius e dovrà ripartire due giorni dopo per il Canada. All’arrivo in aeroporto però il suo viso non sembra minimamente oscurato dalla stanchezza, e la sera prima della ripartenza rimane volentieri alzata fino a tarda sera per bere qualcosa con noi.
“Sembra sempre allegra”, questa frase continua a rigirarmi nella testa. Mi chiedo come mai sia una cosa così strana da pensare di una persona. L’allegria come atteggiamento di per sé è piuttosto comune. Poi, riflettendoci un attimo, realizzo che questo scetticismo nasce proprio dalla visione di Toxic, un film che di fatto mostra una devastazione a ogni livello: ambientale, sociale, morale, estetico.
Siamo in Lituania, messa in scena come una landa industriale completamente lasciata all’abbandono e, di fatto, a un’autogestione forzosa, con uno Stato assente, sostituito spesso da multinazionali che depredano il territorio da ogni punto di vista. Le protagoniste, Marija e Kristina, due ragazze di quattordici anni, creano una sorta di alleanza nel tentativo di diventare modelle professioniste, ma per fare questo dovranno soddisfare le aspettative che una vampiresca agenzia di moda ha nei loro confronti.
Tutto diventa tossico, il veleno esonda dall’ambiente fisico fino a invadere i rapporti sociali e personali, un avvelenamento che non può altro che rimanermi dentro, da spettatore il più possibile consapevole, prima ancora che da critico. Sì perché il neoliberismo più spietato è in ogni frame in Toxic, ogni causa ed effetto sono guidati da questo osceno bio-potere che consuma Marija e Kristina, e l’immagine cinematografica risponde raffigurando una tenerezza di rimando che si gonfia di malinconia dall’inizio alla fine.
Proiettare il proprio dolore, la propria rabbia, il proprio disincanto, dentro uno schermo gigante, diventa un modo per staccare una delle nostre estensioni, donarle alla collettività, e così anche, forse, alleggerirci un po’.
“Sembra sempre allegra”, questa frase suona ancora più improbabile se si pensa al film di Saulė. Ma se fosse proprio questo il motivo della sua allegria, paradossalmente? Se fosse in questo grado di separazione che si trova la risposta alla mia perplessità? Mi viene in mente che il cinema, per chi lo fa e per chi lo guarda, è sempre stato un esorcismo. Proiettare il proprio dolore, la propria rabbia, il proprio disincanto, dentro uno schermo gigante, diventa un modo per staccare una delle nostre estensioni, donarle alla collettività, e così anche, forse, alleggerirci un po’.
Prendendo spunto da film passati e presenti, come Carrie di Brian De Palma, ma anche Sick of myself di Kristoffer Borgli, questa giovane regista rivelatrice e rivelazione, nata in un panorama cinematografico, quello lituano, ancora in formazione, mi ha mostrato che l’estetica è prima di tutto politica, e che i nostri corpi sono la scena in cui questa lotta costante tra essenza e corpo si sviluppa.
Se le fisicità di Marija e Kristina, oggettificandosi, prendono percorsi paralleli rispetto all’animo di chi le dovrebbe possedere (“il corpo è mio e me lo gestisco io”, recitava un vecchio adagio), l’esorcismo del cinema di cui scrivevo prima, forse ha permesso a Saulė di raggiungere una tranquillità e una serenità che nascono dal tormento. Forse è proprio questo il processo di un lavoro artistico, e forse è proprio per questo che “sembra sempre allegra”. Perché lo è. Grazie al cinema.
Dopo la proiezione di Toxic, torna l’imperdibile appuntamento con la regista: una conversazione tra Saulė Bliuvaitė e Daniela Persico, per vivere la sua allegria e comprenderne le radici.
Scritto da Mario Blaconà