Dove c’è acqua c’è vita. Uno statement finora indubbiamente vero. Fauna e flora, variegatamente distribuiti, anche in città. E visto che i Navigli ne sono pieni, anzi strabordano, noi di Zero abbiamo pensato bene di farvi un sunto, una tassonomia svelta e più o meno sincera delle bestie del Naviglio.
Cominciamo, in evidenza: i piccioni. Specie prettamente urbana, si sa. Se dovessimo dire della loro attrazione per gli spazi urbani, a naso punteremmo su una questione di cibo, perciò d’incidenze d’abitanti, d’indici demografici, ma ci piace anche pensare che in fondo la specie dei piccioni sia irruenta, cinica e aggressiva, una volgarità massificata che gode nel cacare svogliatamente sui monumenti storici. Il phylum è di quelli che odiano la storia, anzi, la storicizzazione, e reagiscono con dripping di merda biancastra. È inevitabile quindi, vista l’avversità alla storia, che ai piccioni piacciano tanto i Navigli. Continuiamo con ciò che vi aspettereste da un ecosistema lombardo: corvi, cornacchie, merli, gazze ladre, stormi di passerotti a cinguettare in massa su antenne e fili della corrente inermi, quelle scene che, da giovane marmotta, sai bene che significano “pioggia”, un po’ come i menischi doloranti dei nostri nonni. Non dimentichiamo poi i recenti pappagallini verdi, che hanno occupato a frotte le fronde di Parco Segantini, superando in caciara cipcioppante i compagni passeri.
Passiamo ora dalle sfere celesti, dagli orizzonti e i cieli aperti, al basso, imitando i nostri compagni bolognesi, che si dice non guardino mai il cielo per colpa dei portici. Sulla superficie dell’acqua abbiamo quelle specie che solitamente sono le preferite tra i più piccoli, quelle bestie che solo apparentemente sono innocue, tipo i cigni o i germani reali. Ecco, i germani, per esempio sono quei teneri animaletti a cui si lanciano le briciole di pane, che quando sei bambino li vedi piantare la testa nell’acqua come se fossero struzzi spaesati, goffi. C’è una particolarità che distingue i germani dei Navigli, ovvero che ci svernano, ci stanziano, snobbando la migrazione. Saprete bene poi che a un primo sguardo sembrano tutti uguali, indistinti, e infatti sono animali dimorfici, che adorano per istinto cambiare la loro livrea almeno due volte l’anno. Sono animali dal piumaggio effimero, a cui piace cambiare in fretta e farsi notare nella massa, proprio come la moda, una moda germana, per cui i maschi cambiano abito solo per l’occasione riproduttiva per poi tornare a confondersi con le femmine. Che dire, il germano è gender fluid, specie particolarmente adatta ai Navigli. Forse per questo si fermano. Sono animaletti carucci, almeno finché non si conosce quell’orrore che è il cavatappi rosato dei maschi e il conseguente rituale d’accoppiamento, di una violenza indicibile. E con questo chiudiamo la questione germani reali, ma teniamo aperta la finestra sull’irruenza dell’animalità urbana con quelle bestie fiabesche che sono i cigni: bianchi come la neve e incazzati come il cucu, come diceva nonna. Basta lanciare il solito pezzo di pane per scatenare una rissa tra bande di cigni – sì, perché è giusto chiamarle bande.
Passiamo ora alla fauna ambigua, quella che a un primo sguardo non c’entra un cazzo, perché ha a che fare con il mare. Gabbiani. Che ci fanno i gabbiani, direte voi, sui Navigli? Ok l’acqua, ma poi? Bene, possiamo solo azzardare. Parliamo di volatili rinomatamente aggressivi, certo, ma che rappresentano anche quel miraggio di salvezza che bypassa la tecnologia di navigazione, dal cannocchiale al sestante fino al radar e allo scandaglio a infrarossi, perché insomma, quando si vedono i gabbiani, pirati e naufraghi di tutto il mondo possono finalmente gridare TERRA, ben sapendo che il gabbiano è un animale d’appetito. Sorvola luoghi in cui il cibo non manca, sono volatili spazzini, e spazzano tutto quello che trovano, un po’ come il siluro, e qui passiamo allora nel regno subsolare delle basse profondità del Naviglio.
L’agiografia silureana racconta di assalti agli animali più disparati: bestiame, cani, sommozzatori, i vostri pargoli.
Chi è il siluro? Il Re, indubbiamente, il Re-Arma-Balistica, con quei baffetti minuti e certamente suggestivi che si chiamano barbigli, con cui sgama la preda nel buio torbido delle acque più sporche. Tozzo, aggressivo, brutto, predatore leggendario, gigantesco, alloctono. Coloniale, va detto. S’appropria d’ogni letto che trova e a ogni profondità, ed è un animale che ama nascondersi tra la fanghiglia, che sopporta la furia dei fiumi in piena, che mangia qualcosa come un chilo di pesce al giorno, e come se non bastasse l’agiografia silureana racconta di assalti agli animali più disparati: bestiame, cani, sommozzatori, i vostri pargoli. Insomma, è in cima alla catena alimentare, lo si pesca con carni sanguinolente, e come per gli squali basta un dito.
Al loro fianco, le Regine incontestabili delle acque padane: le nutrie. Per alcuni coccolose e addirittura domesticabili – non so voi, ma se cercate bene tra la discarica della rete incontrerete immagini di nutrie che si credono cani, del tipo che vi mettono le zampette rugose sulla coscia elemosinandovi del cibo – per altri rappresentano il mostruoso malaticcio dei ratti da fogna. Bagnate, mefitiche, untrici. Indubbiamente regali. Subterranee e subsolari assieme, le nutrie sono i batuffolosi cavalieri dell’apocalisse che scavano e scavano da tempo immemore nel parco agricolo – salutiamo gli amici della Martesana che ne vedono molte più rispetto al Grande e al Pavese –, sperando di far tornare la pianura come una volta, instillandoci il dubbio che le nutrie siano custodi di una memoria profonda, geologica, sicuramente millenaria e per certi versi millenarista, insomma, che sognino e operino per riportare il mare, il mare Padano, inseguendo il sogno che i loro fratelli capibara svolgono giornalmente: sguazzarci e grattarsi il musetto.
Ma torniamo sott’acqua, dove troviamo i classici dell’ittica: i pesci gatto che qualche nonna aveva nella fontana in giardino, le carpe dei tatuaggi sinozarri, le anguille che sgusciano come pericolose saponette, e poi i cavedani e le scardole, il pesce facile, quello che quando si “bacinizzava” il Naviglio – termine propriamente milanese che da questo momento in poi dovrete sapere, ovvero: si bacinizza quando si leva l’acqua – si facevano fritti, giusto perché sanno di poco, e li si condivideva con tutti. Si tratta del pescato maggiore, dei pesciolini che puntualmente abboccano, specie le scardole, che si lasciano attrarre da tutto, facendosi apprezzare da chi non sa pescare e rendendosi decisamente inopportune per chi invece vorrebbe pescare davvero, per i capitani Achab del Naviglio. È come l’amico che puntualmente si mette in mezzo, ecco, e magari no, capite, hanno ragione i pescatori Achab.
Insomma, non sappiamo bene come dirvi che tra i Navigli s’incunea una geografia faunistica e boschiva che affiora solo se ci si sta attenti, se ci si guarda intorno quando si cammina, o al limite quando per sbaglio qualcuno casca nel Naviglio Grande, dove fortunatamente è difficile trovare il Re Siluro con la sua Regina. Non sappiamo proprio dirvi dove siete, nel senso che non sappiamo farvi dei paragoni azzeccati. Lo zoo lo vorremmo evitare, la riserva funziona ma è un po’ troppo, Central Park ha gli scoiattoli come il Segantini – scoiattoli che veramente trovate anche tra i palazzi di Tortona, di Ticinese, e ti viene un po’ il dubbio siano decisamente più di quanto pensi, che ti abbiano accerchiato con quel fare isterico di chi mangia ghiande voracemente, ghiande che hanno la dimensione di un cranio scoiattolesco – e ci sono anche le scorribande dei ricci, i cani nella roggia, insomma: i Navigli sono evidentemente un altro posto.