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Carnevalizzare la cultura: il primo numero di Coriandoli

Coriandoli è il magazine in formato quotidiano che si dà negli intenti di fare comunità, collettivo, attorno ai temi queer e lo fa queerizzando e carnevalizzando le tradizioni festaiole

Scritto da Piergiorgio Caserini il 26 aprile 2022

I coriandoli, si sa, si lanciano alle feste. Hanno quel qualcosa di bambinesco che piace a tutti, che anche a cinquant’anni ti vien voglia di lanciarli sulla faccia di qualcuno, sulle teste degli altri, che è pure bello vedere un prato tappezzato di brandellini di carta quasi che fossero fiori. Insomma, coi coriandoli si fa festa, coi coriandoli si fa massa, ci si nasconde in una nebbia di colori. Oltretutto, parlando di coriandoli, si ha sempre l’idea che sia un qualcosa di specificatamente nostrano, che poi è anche vero. Il Carnevale di Venezia, le feste dei santi con i fuochi d’artificio di carta sparati sui merletti delle basiliche con mortai e polvere da sparo, stelle filanti lunghe svariati metri, giornali ridotti in pezzi e rovesciati sulle teste degli astanti. C’è poi da dire che tutto questo lascia un certo sapore di “italianità” nei coriandoli, un qualcosa di riconoscibile, ed è da qui che partiamo per parlare di Coriandoli”, il nuovo magazine fondato da Alessandro Merlo, presentato per la prima volta durante Biennale giusto qualche giorno fa e pronto per sfondare a Milano con una festa al Caffè degli Artisti e al Plastic.

La storia di Coriandoli è recentissima e da subito condivisibile. Nasce da quella disillusa contrarietà che si scopre da subito appena arrivati Milano, magari dopo un bagno d’anni nella nostalgia verace del “Bel” Paese, che consiste nel realizzare la polvere sotto i tappeti all’apparenza pulitissimi del mileu creativo meneghino. Parliamo di quella frammentazione della scena culturale, quella realtà in fondo cruda e – purtroppo – normalizzata, per cui ciò che potrebbe rientrare nell’etichetta vaporosa di “controcultura” viene relegato ai margini della poca rilevanza. Manca di potenza, di festa, di improvvisazione e allora di sperimentazione – classici sintomi di chi non si diverte facendo – e si ritrova a preferire, ad ambire, a lavorare per; che d’altronde si sa: a Milano la vince il canale istituzionale. È il territorio dove le media agencies e i brand vogliono supremazia, dove la comunicazione finisce per essere sinonimo di attività culturale. Va da sé che quest’inclinazione milanesissima ha come contraltare una certa scarsità di piattaforme e magazine indipendenti capaci di produrre una scena, di fare da imbuto per alcune produzioni creative e intellettuali.

Un portare quel carattere sornione e da commensali, quella provincialità che in fondo è croce e delizia dell’Italia, a travestirsi e scoprirsi altra: cittadina, festaiola, magica, improbabile, queer.

È questo il dramma, ed è qui che si posiziona Coriandoli: aprendo le danze con un titolo che è da subito statement: Chi ti credi di essere? Esclamazione per antonomasia del “questi chi cazzo sono”, “questi che ci dicono cosa fare e come comportarci”, “questi che sono ingombranti ed esagerati”, “che vogliono essere oggi questo e domani quell’altro”. Insomma, Coriandoli si posiziona in quegli interstizi gonfiabili che vogliono fare da piedi di porco alla norma e alla normalità.

C’è la voglia di essere visti, di far emergere ciò che solitamente viene sommerso. Essere visti, proprio come se si indossasse un costume carnevalesco, proprio come quando ci si lancia nei fumi e negli eccessi delle feste. Dell’essere esagerati, di vivere per parossismi. «Pagliacci, pantomime, maschere e matriarche pagane, streghe eccentriche», si legge infatti nella lettera d’inizio del numero primo del Magazine. Si potrebbe dire che l’intento qui sia quello di “carnevalizzare” la cultura, riposizionando perciò non soltanto dei contenuti o dei “talent” in un racconto tematico e orientato alla “festa”, ma di portare quell’idea di travestimento – mutuata dalle esperienze queer – nella produzione culturale stessa. Travestire un contenuto, portarlo in festa, e lasciarlo a briglia sciolta per vedere cosa succede, ma sempre tenendo presente il portato politico di una “controcultura” – o di ciò che le controculture hanno insegnato – rispetto all’immaginario di massa. Basta sfogliarlo per trovare feste, castelli gonfiabili, maschere e trucchi, vestiti a rete e cammei e balli, nonché suore in Harley Davidson e in Kajak.

Insomma, l’intenzione politica è chiara da subito: portare la scena queer al confronto con quell’italianità e convincerla a divertirsi. Non per niente, in apertura, si legge una cosa bizzarra, che è interessante perché poco sentita: “decolonizzare l’italianità”. Un portare quel carattere sornione e da commensali, quella provincialità che in fondo è croce e delizia dell’Italia, a travestirsi e scoprirsi altra: cittadina, festaiola, magica, improbabile. Una specie di provincializzazione della cultura che attinge ai temi militanti di oggi e li mescola alle “tradizioni”, cercando di spogliarle da quel sapore “esotico” – gli “archeologi” creativi che ci siamo portati appresso per decenni – e dal conservatorismo retrò, il tutto “travestendo” questi temi e facendoli ballare tra gonfiabili, maschere e coriandoli.

Dare spazio alle “controculture” riportando le riviste di fashion e arte dove devono stare: nelle mani delle persone e realizzate da persone qualunque.

Si sarà capito che l’idea è quella di una piattaforma non istituzionale, che racconti dell’Italia e di dove la compagine estesissima di creativi dimenticati dal burnout dell’eventificio delle città, covi le proprie idee attraverso le loro storie. Di dare spazio alle “controculture” riportando le riviste di fashion e arte dove devono stare: nelle mani delle persone e realizzate da persone qualunque. Bisogna dire poi, che negli ultimi anni sono tante le riviste nazionali e internazionali che cercano di produrre altri spazi di confronto, di innescare dei collettivi e di prendere certe distanze dalle consuetudini con cui ci si approccia alla produzione culturale.

In questo senso, a farsi notare sempre di più, per esempio, sono quei posizionamenti che vogliono imparare a guardare le città da fuori, forse disincantate rispetto al fascino dell’urbanità e più interessate a ritrovare le immagini e le fascinazioni che da fuori guardano alle città, una specie di litorale della provincializzazione ma dove ciò che fa gruppo fuori, esternamente alle dinamiche “cardiopatiche” di Milano, sa rinvigorire e rinfrescare gli approcci. Basta pensare a Manaròt, rivista letteraria di letteratura atesina, ma anche agli ormai celebri CTRL Magazine – progenitori, per certi versi – o a Sali e Tabacchi e ora a Coriandoli: dove la carnevalizzazione dei temi porta la cultura in festa.