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Dalla Silicon Valley al Bloom di Mezzago, David Moretti è pronto a tornare sul palco coi suoi KARMA

Carlo Antonelli intervista il frontman della band rock alternativa per scoprire cosa è successo nel viaggio che ha dato vita a K3

Scritto da Carlo Antonelli il 10 novembre 2023
Aggiornato il 15 novembre 2023

Foto di Barbara Oizmud

Chi avrà la fortuna – perché è sold out – di assistere stasera al Bloom di Mezzago al concerto di ritorno (dopo eoni, mica anni) degli eroi del rock n’roll italoindiano – cultura eh!, non origini etniche reali – chiamati KARMA, beh si troverà di fronte a un tronco di gnocco cinquantenne chiamato David Moretti, senza eguali sulla scena nazionale e forse non solo. Già felicemente propenso alla nudità negli anni Novanta che videro la band “a parte” rispetto al giro di quella partita lì (anche indie/major), Moretti si è pazientemente ricoperto per tre decenni – come Di Caprio in Revenantdi una coperta di muschio grafico e digitale. È stato il leggendario art director della primissima edizione di Rolling Stone Italia, per poi disegnare da capo a fondo il complessissimo lancio sul mercato nazionale di Wired.

Un lasso di tempo schiacciato in un disco dove passato, presente e futuro sono insieme.

Lavoro flamboyante e qualitativamente hollywoodiano che lo ha portato non a caso – unico tra tutti i professionisti italiani – a essere chiamato in questo ruolo a Wired Usa per poi venir attratto dentro il Circle magico di Apple, come uno dei principali creative director della Mela. Lavora su cose che non può raccontare. Ma a noi non interessa. Perché, come i coetanei Viggo Mortensen o Daniel Craig o Jeff Bridges o Keanu, è la neopotenza erotica che scaturisce dagli anfratti speleologici della sua voce a trascinarci verso quel desiderio massiccio, roccioso e penetrante(ci) che il nuovo album K3 fa esplodere come non succedeva da parecchio.
Il viaggione inizia stasera, e prosegue per tutto il mese.
David, eccomi.

Carlo Antonelli: Quando hai iniziato a interessarti non tanto alla musica ma al design sonoro? Il modo in cui i suoni si organizzano nello spazio si intende.
David Moretti: Fin da quando ero bambino. Forse perché ho avuto la fortuna di assistere a numerosi concerti live, erano gli anni Settanta e c’era tanta musica suonata in giro. Questa forte frequentazione degli ambienti musicali già da quando ero piccolo mi ha esposto a questo apparato non solo sonoro ma anche visivo: mi piaceva molto questa cosa del gruppo sul palco, degli strumenti, gli amplificatori, i cavi… Esiste un’estetica non solo sonora che diventa fortemente emotiva e che poi richiede anche l’emotività del pubblico. Tutta questa cosa per me ha avuto una fascinazione incredibile. Ho iniziato il mio percorso cercando di avvicinarmi a qualche strumento senza fissarmi con uno specifico, infatti suonicchio un po’ tutto. Questo approccio fu analogo relativamente a tutto quello che riguardava la musica, quindi la grafica, lo stage design, il light design e i video.

CA: Una cosa che caratterizza anche quest’album è che si compone di strutture architettoniche sonore molto fitte, arboree.
DM: Arboree, bravissimo! Sono dei tessuti fitti e intricati per quanto riguarda i layers, quindi tutti i timbri e tutte le strumentazioni. Dal punto di vista invece delle ritmiche e dei tempi sono estremamente dilatati: ad esempio chiunque ha in qualche modo recensito questo album ha sempre tirato in ballo il post rock, citando gruppi come Godspeed You! Black Emperor piuttosto che altri. Tessuti molto molto ampi, fitti ed ampissimi. È anche un album fatto di momenti: non esiste una scrittura ripetitiva di strofa-ritornello, esiste semplicemente un racconto che ha dei suoi momenti ondulatori.

CA: Riprendendo il design sonoro, quando concepisci la musica hai in testa la forma tridimensionale della canzone?
DM: Nonostante ho studiato teoria della musica, la scrittura stessa rimane molto visiva. In questo album sono andato a scegliere timbri e strumenti e li ho visualizzati: ci sono molti strumenti processati, o piani preparati processati da software; c’è molta elettronica anche se suona molto analogico, con queste chitarre che fanno sentire la loro presenza. C’è un lavoro di tessuto che ho proprio immaginato e scritto pensando all’emotività di ogni brano. Considera che molti di questi pezzi sono stati scritti tra il ‘96 e il 2000. Sono un po’ un bigino, un Bignami di tutto quello che mi è accaduto, è un percorso molto autobiografico. Ma nel momento in cui ho deciso di farlo diventare un prodotto, queste canzoni non dovevano più vivere da sole, e ho quindi cercato di inserirle in un discorso molto più ampio. Ed è a quel punto che bisognava andare a toccare con precisione l’emotività che quel pezzo rappresentava e necessitava.

CA: Per me, nel vostro caso la questione centrale avviene in quell’ambiente dello stage che diventa uno spazio sonico, che si cerca di riprodurre in studio. Qual è la struttura e qual è la dinamicità dello spazio che ti interessa? Sono il basso e la batteria che stanno sotto e il classico muro di chitarre? E dove sta la voce?
DM: La struttura classica è quella di una rock band: hai un discorso percussivo, diciamo roboante e portante che sta dietro, che supporta e spinge; dall’altra parte hai tutti quegli strumenti che hanno quel tipo di frequenze medie o medio-alte che vanno, escono e raccontano. Per quanto riguarda invece il discorso di quello che vado a ricercare in questa alchimia elettrica, è sempre legato al nostro bisogno di alienazione. La mia è una generazione che ha trovato nella musica quello che magari i miei figli hanno trovato ad esempio nell’immersività dei videogiochi. Per di più parliamo di vibrazioni e (senza entrare in elementi più fricchettoni) credo che ci sia veramente un certo potere delle vibrazioni, delle frequenze, che poi sono la parte fondamentale della musica.

CA: Questa è una cosa che tu hai studiato? O che sei stato in grado di sperimentare molto? Il modo in cui il suono vibra all’orecchio e sul corpo.
DM: Sì perché faceva parte in qualche modo del viaggio iniziatico dei musicisti di quegli anni. Tieni conto inoltre che io ho una voce atipica per il genere che faccio, di solito le voci rock sono voci tenorili. Per me riuscire a rendere la mia voce comprensibile e farla staccare da tutto quel apparato di frequenze sonore è stato un lavoro molto importante. Inoltre non essendo un interprete, il lavoro è stato fatto anche per scrivere canzoni dove la mia voce può essere rappresentata nel modo migliore. Questo mi ha portato a capire che tipo di frequenze uso, qual è il modo della mia voce di essere molto più comunicativa e come arrangiare e come utilizzare anche i suoni e le frequenze degli altri strumenti, chitarra in primis.
Il mio è stato un percorso evolutivo sempre basato sull’imperfezione: non ero un cantante adeguato per fare metal, ho allenato la mia voce. Si è sempre trattato di superare i limiti, superare ogni cosa che ho fatto nella musica ma anche altrove, e cercare di sopperire. Prima in un modo disarmonico, quando vedevo il mio limite come il nemico, finché non ho capito che la mia imperfezione era la cosa che mi rendeva unico. È stato un percorso di accettazione dei miei limiti, o di tutti i limiti: fisici, performativi o anche conoscitivi; come dicevo prima con me c’è gente che ha studiato musica e quando pensa alla musica scrive note: sia la sezione ritmica che il basso. Andrea Bitti è un mostro da quel punto di vista.

CA: Scrive ancora su spartito?
DM: Tutto, infatti è stato co-produttore di questo disco. È una persona che non solo ha l’orecchio assoluto, e quindi riesce andare a scandagliare, soprattutto in un tessuto ritmico così complesso, tutte quelle cose che si sovrappongono in una maniera sbagliata, ma nel momento stesso in cui bisogna arrangiare le cose è anche capace di prendere lo spartito e scrive note. Ecco io non ho questo tipo di capacità. Pur avendo composto tutto e arrangiato gran parte del mio lavoro ho dovuto sopperire questa mancanza anche culturale e ho trovato la mia strada.

CA: Ma il fatto di viaggiare molto coincideva in qualche modo con la costruzione della band iniziale?
DM: Sicuramente, una cosa che non hanno i KARMA è che non sono legati alla tradizione italiana, per niente. Una delle cose che hanno sempre detto è che noi avevamo un suono internazionale.

CA: Il mio viaggio voleva arrivare alla bruttezza del nome, perché bisogna dire le cose come stanno: questa infinita bruttezza del nome “KARMA” da dove arriva?
DM: [Ride, NdR] Arriva dalla mia grande passione per le filosofie orientali! Anche qui è un percorso di ricerca altra e di ribellione rispetto alla mia famiglia, che invece sono fortemente cattolici, neocatecumenali. Il territorio di battaglia coi miei genitori è sempre stata la religione, che mi ha portato ad andare a rompergli i coglioni su l’origine delle cose, delle scritture, e per farlo mi dovevo preparare; di conseguenza questa cosa mi ha portato a legarmi tanto alle filosofie orientali con dei momenti di cadute, di devotismo e di viaggio, viaggi continui in india e in oriente per approfondimenti.

CA: E qual’è il tuo karma?
DM: Secondo me il mio karma è quello di non essere in sincro con il tempo che sto vivendo. Anche lì, parlando di accettazione questo è un disco che può essere perfettamente collocato in quello che sta succedendo adesso negli USA per quanto riguarda il rock. Mi spiego: quando mi sono spostato negli Stati Uniti pensavo che il rock avesse detto tutto, invece mi sono trovato in un paese in cui in quel periodo, nel 2014, tutta la scena giovane pro metal stava esplodendo, ed era per me una cosa assolutamente nuova; vedevo lo stesso entusiasmo che io avevo vissuto negli anni Novanta all’interno di una scena super viva e propositiva. Se andiamo a vedere cosa sta succedendo adesso con i gruppi di Chicago, che nascono all’interno delle università, tra gruppi garage e indie, è una cosa estremamente interessante, con band femminili stratosferiche di giovanissimi, gruppi di ventenni. Questa cosa non succede qui perché noi ovviamente ci siamo chiusi sulla nostra tradizione, e io penso anche che la musica alternativa italiana abbia contribuito a legarci con quel passato ma l’abbia in qualche modo chiuso in maniera asfittica, in una scatola, questo legame giustissimo con il cantautorato italiano.

CA: Tu sai che in teoria di fisica si parla da sempre di wormholes, cioè di buchi spazio-temporali dove il tempo scorre in maniera diversa e rallentata; al contempo con l’avvento del digitale è divenuto di comune utilizzo anche il termine rabbit hole, col quale si fa riferimento a questa specie di landa nella quale le piattaforme consentivano di infilarsi in tutti i buchi che uno potesse trovare, e da lì procedere con esplorazioni di ogni genere, sia personali che dettate dall’algoritmo. Uno dei vantaggi dell’avventura digitale, dal punto di vista musicale, è che ci siamo trovati un’eternità che ha preso vita sul serio. Ecco se ci pensi, in una visione del tempo che ha uno scorrimento molto meno lineare rispetto a quello che percepiamo, non è vero che è passato tutto questo tempo e in qualche modo non è vero che i KARMA ritornano: i KARMA non se ne sono mai andati, sono semplicemente un’entità che si ripresenta. Penso che siete andati a fare delle cose nel mondo e a un certo punto siete riemersi, e nel riemergere non trovo nessun elemento, sentendo l’album, che faccia minimamente sentire la differenza di tempo. L’unica cosa che sento è un irrobustimento delle radici, cioè è un po’ come succede per gli alberi: trovo degli alberi in buona salute che hanno semplicemente dei cerchi in più o delle nodosità in più; nodosità molto interessanti, una forma di ispessimento nel senso buono, con una voce che include molte esperienze di vita senza che da questa si deduca o traspaia della sofferenza.
DM: In realtà i KARMA non hanno mai raggiunto la digitalità, noi abbiamo smesso prima che arrivasse MTV, prima che ci fosse internet, siamo arrivati l’anno scorso a riproporre la nostra musica nel digitale. Questo non significa che il digitale in qualche modo non ci abbia toccato, perché la cosa che è successa è che noi eravamo comunque vivi all’interno dei social, che però non abbiamo aperto noi, erano social aperti da gente che ci seguiva e ha cominciato a raccogliere materiale: io ho trovato pagine wikipedia, gruppi facebook che raccoglievano ogni piccolo elemento di memoria e lo mettevano lì. È stata una cosa interessante perché eravamo in qualche modo resi eterni non per nostra volontà. Esiste un altro elemento invece legato alla concezione del tempo che secondo me è quello che percepiamo noi come persone: nel concetto proprio di tempo, concepito e teorizzato nella fisica quantistica, esiste la possibilità di poter uscire dalla nostra dimensione in qualche modo materiale; spazio, tempo e tutto quello è passato presente e futuro in realtà possono essere visti accadere nello stesso istante. Questa è una cosa che in qualche modo abbiamo provato, perché per noi interiormente i KARMA non sono mai morti, questa sospensione non è mai esistita. Non percepiamo il fatto che ce ne siamo andati, e l’aver composto questo disco come l’abbiamo composto è un segno di questo tipo. Non è un lavoro nostalgico, è un lavoro che è andato a irrobustire un certo tipo di radici: c’è una parte che è fortemente radicata in quei KARMA, però c’è stata anche un’evoluzione per aver inserito all’interno di questo disco anche cose che poi sono successe col tempo, e questo lasso di tempo in realtà è stato schiacciato in un disco dove passato, presente e futuro si trovano insieme.

CA: È un disco molto compresso, nel senso che contiene molta compressione del tempo e quindi è molto potente.
DM: È potente perché per quanto riguarda ad esempio i testi ci sono pezzi che ho scritto in quel periodo: stavo scrivendo della musica nuova e poi improvvisamente sono andato a riscoprire dei vecchi pezzi, per vedere e capire che stavo provando esattamente quello che sto provando adesso. Ho dunque deciso di riarrangiare tutto per ridargli forza e compattezza. È così che tra i pezzi trovi un David ventenne, un David trentenne e un David quarantenne; paradossalmente non è un disco che racconta un me presente, è quasi un viaggio temporale.

CA: Torno a insistere sull’idea del design perché naturalmente tu sei tuttora questa cosa qua: per te disegnare suono o disegnare elementi visivi, non è poi alla fine la stessa cosa? Perché io sento molto plasmamento di materia e artigianato in questo disco.
DM: Assolutamente sì: è guidare l’ascoltatore, il fruitore, l’utente, il lettore. Il plasmare deriva dal mio modo di scrivere musica. Se io dovessi fare un’installazione visiva, utilizzerei altri timbri e altre tecniche, mentre quando parlo di musica ovviamente è tutto molto tangibile; anche se utilizzo tantissima digitalità, tantissimi filtri, la radice è quella suonata, vera, fisica. Mentre poi io faccio un lavoro che è puramente etereo-digitale.

CA: È un disco speleologico, a partire dalla copertina che rappresenta una pietra, che io ho visto più come una sezione tridimensionale di una punta dolomitica piuttosto che un meteorite spaziale, passando per un punto di vista sonoro, il modo in cui lavori la voce viene scavata fuori. Ecco, scavando, quali sentimenti e laghi sotterranei hai trovato? Dove vuoi portare l’ascoltatore?
DM: È un viaggio molto intimo, e rispetto ai primi due dischi è un album che tocca anche elementi molto più quieti e introspettivi. Ci sono zone molto dilatate, parti strumentali molto ampie, toni, strumenti che noi non abbiamo utilizzato molto nei primi due dischi e che qui sono invece quelli portanti, quali sintetizzatori, piani preparati e sintesi granulari che creano questi disegni. C’è un pezzo che si chiama “Goliath”, ispirato dal giardino di Derek Jarman: gioca sul fatto che io mi chiamo David e in qualche modo la mia nemesi è Golia. In questo viaggio in cui racconto il mio bisogno di aver fatto pace con le mie ombre, cosa molto junghiana, ho scritto questo pezzo che parte in maniera molto introspettiva:

«C’è un’ombra che accarezza la mia banalità, mi chiedo qual è il prezzo per quello che mi dà». Poi dico «Ti ho cresciuto mia gramigna tra i fiori, adesso che sei splendido giardino, sei diventato un giardino dentro me»

Ho preso ispirazione da Derek Jarman, quando sa di essere ormai condannato a morire e si rifugia nel suo cottage, attorno al quale crea, anche simbolicamente, questo giardino fatto di fiori. Tra i fiori, però, lui cresce la gramigna come se fosse una cosa bella; è il suo modo per accettare l’AIDS, come parte della sua esperienza e della sua vita. Parlando di luce e ombre, questo è quello che può essere identificato come un brano molto rappresentativo di questo album qua. Non ho immaginato un mondo popolato, ma un cammino solitario, introspettivo e mentale, è un viaggio nel mio mondo interiore, in una natura che esiste ma che è anche astratta.

CA: C’è una parola che non è stata utilizzata, che secondo me c’entra molto col corpo attuale, che per fortuna tua o per lavoro tuo non è così malmesso, insieme a quello degli altri, che ho visto parzialmente invece toccati dall’esperienza del tempo, ma è anche questo, il fatto di andare fuori tranquillamente, uscire dalla caverna, se vogliamo usare un’espressione montagnola, granitica, e dire quello che si è. Come si chiama? Coraggio?
DM: Sì, ma è anche l’accettazione. Quando parlo di imperfezione, l’accettazione parte da lì: è anche accettare quello che sei. Noi non siamo un gruppo mainstream e fortunatamente non abbiamo nessun tipo di tentazione di dover dire che dobbiamo mantenere una certa qualità del nostro apparire perché è funzionale nell’essere eterni. Anche se l’ultimo pezzo dell’album si chiama Eterna, io rivendico il fatto che noi abbiamo un altro tipo di eterno. Che questo uscire così come siamo, senza nessun tipo di apparato legato all’apparire (una cosa fondamentale nella musica italiana), non ha niente a che fare con lo spettacolo ma con la spettacolarizzazione del corpo. Questo uscire dalla caverna è rivendicazione dell’imperfezione in un moto inclusivo non imposto: siamo quello che siamo.