Ammazzare il tempo non è mai stata un’espressione che consideravo felice. Del tempo bisogna farne tesoro, cavalcarlo semmai, volgerlo al proprio favore, di certo non strapparlo e lacerarlo in attimi privi di prospettiva. A un anno da questa Pandemia devo dire che sulla nozione di tempo, senza sentirmi Proust, ho dei dubbi nati dal fatto che forse, il mio tempo, non so bene in cosa investirlo. Prima scandito dal ritmo incessante della città, delle sue notifiche per ricordarmi come e quanto vivere, degli altri che organizzavano il mio tempo libero; ora lento, vuoto, fatto di pause e grandi silenzi. Mi trovo in uno spazio conciso e tiranno, mi scrollo di dosso la polvere delle giornate e dell’ipocrisia retorica – la mia in primis – per cui ci sarà una normalità, basta attendere.
Il quartiere, da spazio dormitorio, a tratti di passaggio, quel lembo di terra che pensavo fosse ormai privilegio di una vita di provincia e anacronistica, diventa estensione delle nostre vite
In questo mio vagabondare interiore, vengo a contatto con un libro. Giorni come stanze è una piccola opera su cui mi cade l’occhio in uno di quei lunghi pomeriggi sempre identici a sé stessi, dove per accarezzare con il fendente il tempo mi trovo a passarlo nella libreria che ho di fronte casa. Un libro intimo, in prima persona, che raccoglie alcune riflessioni dopo la fine del primo lockdown. Emilia Giorgi, l’autrice, mette insieme alcune testimonianze visive di un gruppo di fotografi tra Roma, Milano e Genova, e alcuni pensieri che corrono sul filo comune del concetto di spazio privato e pubblico. Lo trovo vivo e scalpitante, ancora che brucia parola dopo parola nonostante il tempo – da quei mesi primaverili del 2020 – si sia sgretolato e, lentamente, ci abbia insegnato ad abbandonare le certezze di sempre. E io cosa ho a che fare con tutto questo? Mi rendo conto che gli occhi che guardavano fuori la propria stanza sono occhi più stanchi, ingordi di orizzonti e prospettive che non arrivano, bloccati nel loro slancio verso l’infinito da un’antenna, un palazzo in costruzione, un condominio fitto di balconi. Ma allo stesso tempo sono anche occhi più attenti, ora come mai in vita loro capaci di parlare con gli altri sensi, connessi forse per la prima vera volta con i rumori e le immagini della città. Una città che prende connotati ristretti, angoli nascosti, ci offre punti di vista microscopici ma non per questo insignificanti. Anzi. Ho avuto il tempo di riconsiderare lo spazio attorno a me e sentirmi – forse per la prima volta – veramente immersa nel luogo in cui vivo.
Il quartiere, da spazio dormitorio, a tratti di passaggio, quel lembo di terra che pensavo fosse ormai privilegio di una vita di provincia e anacronistica, diventa estensione delle nostre vite. Torna a essere presente perché in effetti non era mai scomparso del tutto. Ho iniziato a guardare la città non più come altezzosa figura che si staglia in verticale, ma dal basso, nel suo grigio, mattone, con la sua immondizia agli angoli, l’inquinamento, e le ferite in strada. Ho riconquistato quello spazio intorno in me, lo abbiamo fatto tutti, gongolandoci nei limiti semantici delle famose “prossimità di casa”. E così, da prigione a cielo aperto, il quartiere ha acquisito nuovi concetti, si è vestito di nuovi punti di vista e significati. Riparo e sostegno, un mosaico di piccoli luoghi e mondi, nei cortili sempre aperti, dentro le finestre spalancate che sono diventate porte per connettere mondi privati con l’esterno. Mi piace considerare la finestra della mia camera come un’estensione di me stessa: da qui ho il punto privilegiato e pudico sul mio quartiere. Ho imparato tante cose, ho visto come le persone si sono riappropriate degli spazi urbani, fondendoli con quelli privati. Tornano i rumori delle cucine che si mischiano alle voci ormai note dei TG nazionali, le stoviglie che sbattono insieme, i discorsi triviali come quelli più impegnati. I bambini tornano in strada, in un quadro che sembra più una strada di Caracas che di Milano nord. “Passa sta palla” tuonano dal basso in mille accenti diversi, e magicamente ricompaiono quei giochi che avevo sentito solo da mia nonna e che un bambino del nuovo millennio pensavo avesse dimenticato.
La strada torna ad essere parte della nostra vita. Il quartiere vince sulla fruizione veloce, capitalista, disumana della vita della metropoli
Divento stranamente ricettiva allo spazio intorno a me, uno spazio che mi vedeva sempre come figurante e non figura, come passiva protagonista di uno spettacolo urbano non degno di nota perché in fondo “le cose importanti sono sempre altrove”. Studio le vie che circondano casa, ricordo i civici dei condomini, noto con stupore la gradazione dei ciclamini della signora di fronte, capisco che c’è un piccolo negozio di tessuti sotto il mio naso, c’è perfino una libreria islamica. Il mio quartiere è pieno zeppo di piccoli artigiani, figure semi trasparenti per cui nulla sembra essere cambiato. Continuano a parlarsi dalla soglia dei loro negozi polverosi, le mani unte di grasso, e ci scambio per la prima volta quattro chiacchiere. Ora ci salutiamo tutti i giorni. Piazza Morbegno, tagliata dal tram n 1 che circola semi vuoto e deserto come in un Truman Show, diventa il salotto delle nostre vite. La piazza torna ad essere l’ἀγορά: centro nevralgico di un piccolo luogo abitato, simbolo vitale dei suoi cittadini che qui tornano a sedersi sulle panchine, sui marciapiedi, riappropriandosi del suo valoro culturale e sociale. Qui ci raccontiamo la giornata, parliamo di politica, ci lamentiamo, ridiamo.
La strada torna ad essere parte della nostra vita. Il quartiere vince sulla fruizione veloce, capitalista, disumana della vita della metropoli. Gli spazi più inutili, dimenticati, tornano a imporsi per necessità. Come gli spazi verdi, di cui si brama anche il più piccolo centimetro per respirare in una zona morta. Il Parco Trotter, come immagino qualsiasi parco di Milano piccolo o grande che sia, diventa valore assoluto nella fisionomia del quartiere. E una volta che la gente torna in strada difficilmente il processo può essere invertito o bloccato. Mai avrei pensato di giocare a ping pong in una piazzetta abbracciata dal cavalcante ferroviario, e ritrovare ogni giorno le stesse persone. Persone prima invisibili, lontane, ora vicine, familiari: c’è lo strambo del villaggio, che ogni giorno tira baci alla vetrina del Ghe Pensi Mi, la sciura che legge il Corriere, i ragazzi nord africani che sono bravissimi con la racchetta in piazza Arcobalena, la famiglia gay che ha appena adottato due gemelli biondissimi. Fornai, tabaccai, pizzaioli, cassiere, professionisti ed artisti, disoccupati, io, tutti più consapevoli del nostro nuovo ruolo in una città che torna a essere meno crudele e più intima.