Nell’ultimo libro di Michele Turazzi, Prima della Rivolta, una Milano del 2045 è la grande quinta in cui si svolgono le storie del romanzo. Una città torrida e scottata, con una predilezione per i monopattini elettrici e un esercito di condizionatori, resa crudele dal sentore di fine che s’accompagna all’odore acre dell’asfalto cotto al sole. Mentre la pianura brucia, inabitabile, le Alpi in lontananza sono divenute micro-città di ripiego, dove chi s’è l’è potuto permettere ha trasferito bagagli e famiglia per sopravvivere a una città che minaccia fallimenti, crolli e rivolte. In quelle montagne che portano sul groppo i nomi di Cortina, Cervinia, Madonna di Campiglio e compagnia bella, dice schietto il protagonista, «erano stronzi prima, figurati ora».
L’immagine che Turazzi offre della Milano tra vent’anni, della pianura e – soprattutto – della montagna, è efficace perché la si vede già oggi, e senza nemmeno sforzarsi troppo. Se quelle città sfrontatamente turistiche possono già ora essere pensate come colonie vacanziere e paesi di hotel e seconde case, chiunque negli ultimi anni ha assistito le montagne diventare mete predilette. Complice la forte popolarizzazione dello sport montano, tra escursionismo (hiking e trekking) e arrampicata, tant’è che da diverso tempo il gropcore è in pratica lo stile prediletto di chi abita in città. Tutti paiono pronti, dall’oggi al domani se non da un momento all’altro, a precipitarsi sulle ferrate del Brenta. Immagini ricorrenti come le code di turisti sulla cima dell’Everest parlano più chiaramente di qualunque discorso.
Se quelle città sfrontatamente turistiche possono già ora essere pensate come colonie vacanziere e paesi di hotel e seconde case, chiunque negli ultimi anni ha assistito le montagne diventare mete predilette.
Così, da un lato le montagne sono i soggetti di una nuova turistificazione: luoghi che diventano attrattivi per il pubblico urbano, con campagne di comunicazione e “cosmetiche” mirate, vale a dire strumenti stilistici sfruttati a tavolino per mercificare un luogo e un territorio. Dall’altro è invece indubbio che, quando accade qualcosa di simile, ovvero quando territori e luoghi esterni alle città, e perciò periferie e province e campagne, assumono questi connotati pubblici, comuni e ricorrenti, assistiamo non soltanto a un trend o a una moda (pur passeggera che sia), ma piuttosto a un bisogno che emerge.
Ora, la questione si può osservare da almeno due angolature, le più semplici: ci sono i city users che migrano dai centri urbani e riportano in tali luoghi gli stilemi della città, producendo dunque le Cortina montane, le Noto siciliane o le Ceglie Messapica pugliesi, e i city users che scappano dai centri urbani sperando di poter vivere altrove. Nel primo caso ci sono case, ville, strutture ricettive e servizi turistici mediatizzati – assieme al brodo degli status sociali stilizzati. Nel secondo, sono perlopiù attività estemporanee, vale a dire principalmente festival. La qual cosa non significa che sia sempre buona, dal momento che le lunghe durate, le reti attivate, le dinamiche, i successi, le dimensioni e soprattutto gli intenti spostano fortemente l’asticella degli impatti sul territorio.
Parliamo dunque di festival che dell’abitare e della cultura locale han fatto non soltanto “bandiera” ma anche e soprattutto metodo. Parliamo di Campo Base, che quest’anno, tra l’altro, si sposta dalla Val d’Ossola lasciandosi alle spalle Tones Teatro Natura e andando da sé in Val Camonica, precisamente in Val Saviore, alle pendici dell’Adamello. Essendo il quarto anno che Campo Base esiste, possiamo dire con una certa sicurezza di come il festival abbia tutto sommato una formula inconsueta – che è sempre cosa buona –, con un piede nel localismo “territorialista” – “scuola” di architettura sempre valida, fondata dal compianto Magnaghi – e uno nell’intrattenimento sportivo e artistico che tiene in scacco le città, Milano su tutte. Tant’è che sarebbe quasi fuorviante dire “festival”, che tutti pensano a palinsesti musicali sfrenati e notti d’alba interminabili. Di fatto ci prendiamo una licenza cattedratica: Campo Base sembra innanzitutto una specie di residenza collettiva e comunitaria, fatta dunque di momenti di apprendimento e di restituzione e ovviamente di musica, e che fa delle reti territoriali montane la sua forza (specialmente in quest’edizione).
«Non è propriamente un festival» mi dice Nicola Giuliani: «quello che abbiamo sempre cercato è stato creare piccole comunità, contesti di condivisione che son capaci di creare rapporti di amicizia e collaborazione che si mantengono nel tempo». «Una rete di persone innamorate», dice sorridendo. E d’altronde, guardando agli invitati delle scorse edizioni e della presente, è evidente come la maggior parte delle figure invitate – soprattutto nei laboratori, nei workshop, nelle conversazioni, ma anche nei progetti artistici e nei live – siano legate da un comune interesse per il territorio, specialmente montano. Cosicché, questa “comunità” estemporanea che è il festival ruota annualmente e puntualmente attorno a un paesaggio, a una valle. Campo Base ha come sua vocazione l’aperto, l’outdoor. D’altronde qui il campeggio è una faccenda seria, se non primaria: considerate che i tre giorni di programma si sviluppano su un territorio ampio che è una valle intera, con sentieri, boschi, fiumi e torrenti, snodata tra i paesi della zona e vivificata dalla folta rete di associazioni e realtà coinvolte.
Campo Base mette sul piatto tutta una serie di attività deputate a vivere un luogo, vale a dire imparando le storie, i metodi, appuntandosi nomi di piante, crinali e sentieri, imparando i nomi e i volti delle persone che ci abitano.
Quello che insomma Campo Base fa è condensare in pochi giorni tutta una serie di attività deputate a vivere un luogo, vale a dire imparando le storie, i metodi, appuntandosi nomi di piante, crinali e sentieri, imparando i nomi e i volti delle persone che ci abitano. Dall’escursionismo al canyoning, dalla raccolta di piante commestibili selvatiche alla cucina, dalla lettura delle stratificazioni geologiche alla meditazione e, ovviamente, i progetti artistici e sonori, tutto è messo sul piatto per poter comprendere un paesaggio, meglio: un luogo. Così le associazioni sono tante: molte della Valle (come i rifugi-avamposti della Casa nel Parco, C’Mon, il Cardo), altre dalla limitrofa Brescia (tra cui Spettro), ancora Futura Research e alcune storiche collaborazioni da Milano, come Rayon Vert e Slipmode.
In questo senso, è giusto dire che se c’è una finalità in Campo Base è quella di fornire un piano di partenza per imparare a orientarsi, ovvero: saper intuire da che parte si è girati, saper leggere quello che ci si trova davanti, conoscere la differenza tra quel che accade qui e quel che accade là. Sapere di un dove, che mai è rose e fiori: «Molti vogliono i paradisi terrestri. Li immaginano, e forse li fraintendono. La verità è poi che questi luoghi devono stare in piedi: è complicato sostenere un’economia che funziona due o tre mesi all’anno col turismo, con industrie estrattive che vengono, prendono e spariscono». Sono terre senza figli, gli dico, ricordando una conversazione avuta qualche tempo fa con C’Mon, associazione culturale e artistica di Monno, in Val Camonica, che per altro è all’interno della rete coinvolta da Campo Base. Terre che hanno subito esodi costanti verso il lucore delle città, e che si ritrovano ora appezzate per ville e attività turistiche, e di quelle vivono. «Ogni volta che accade ci portiamo dietro delle disabilità cognitive: non sappiamo nulla dei posti in cui ci troviamo, tantomeno dei loro ecosistemi, e non ce ne preoccupiamo. Idealizziamo la natura, trasformiamo luoghi in location, e riproduciamo così e ovunque i modelli di profitto e di concorrenza che governano le attività urbane».c
«La montagna non perdona, ma nemmeno i montanari.»
Si capisce da questo, penso, la volontà di attivare per questa edizione una rete fitta e folta di associazioni: ci si obbliga a confrontarsi, a parlare, e quindi a frequentare i luoghi che, prima di tutto, sono di chi li abita e chi li conosce, e dunque ci si dispone a cambiare il progetto a seconda delle loro esigenze. «C’è sempre una buona ragione in più per fare qualcosa di diverso. Se all’inizio pensavamo di incentrare quest’edizione su tematiche ancestrali, dopo qualche incontro con le realtà della Val Camonica abbiamo capito che il tema migliore sarebbe stato quello del perdersi».
Perdersi è capitato a chiunque. Ritrovare la strada, alla maggior parte. Ma il punto del perdersi è quello di aver l’opportunità di vedere altrimenti l’ordinario, di vedere nuovamente qualcosa, e quel qualcosa è puntualmente una terra – fermo restando per i situazionisti, che tra le regole consigliate nelle loro derive suggerivano di guardare il cielo; ma era ugualmente per perdersi nelle città. Per insegnare a perdersi, Campo Base quest’anno ha invitato nomi di punta nel panorama poetico come Laura Pugno e maestri montani come Franco Michieli, artisti come Neunau (già presente in passato per chiare affinità) o Gaia Ginevra Giorgi, assieme a un fitto programma di laboratori di cucina, escursioni, spazi di meditazione, equitazione, canyoning e conversazioni in quota. Come ogni volta, ci sarà un’installazione assegnata a un artista: quest’anno è Vinicius Jayme Vallorani, che distribuirà nell’intera valle un corpo di opere pittoriche. Tutto è gratuito: si paga il campeggio due lire, e ognuno paga le attività a cui desidera partecipare.
Per ogni luogo, poi, ci sono poi anime che ne proseguono le narrazioni, spesso in maniera inedita, e volentieri superando l’immaginazione. Che dall’immaginazione partono per ripensare lo statuto di un luogo, laddove questo dipende innanzitutto dalle storie e dalle narrazioni che lo inquadrano. Per la Val Camonica è il caso di Italo Bigioli, figura davvero sopra le righe che aprirà simbolicamente il venerdì di Campo Base con una performance assieme a Neunau durante la quale suonerà corni di sua fabbricazione. Un personaggio unico, Bigioli, che Nicola e Clara mi raccontano come «uno sciamano della valle, profondo conoscitore delle erbe di montagne, ambientalista ed espero delle incisioni rupestri». La sua storia passa per il parlamento europeo, la conoscenza di Alexander Langer (militante ambientalista antelitteram, fondatore dei Verdi in Italia quando il movimento era ancora extraparlamentare, figura centrale e malauguratamente poco nota) e il legame diretto con i Lakota e gli Apache, con i quali formulò l’idea di un Parco Unico della Val Camonica. Tant’è che, mi raccontano, «Negli anni, moltissime volte, alcuni indiani Lakota hanno frequentato la valle per individuare dei “punti energetici”: luoghi in cui si possono ascoltare certe foglie e certi alberi, certi animali e certi fenomeni. Luoghi che rinvigoriscono la narrazione della Valle».
Perdersi, ritrovarsi, cambiare la prospettiva. Seguendo non un trend, ma un bisogno connaturato alla nostra epoca più recente che cerca un contatto e un senso con quanto la città ha escluso nei secoli, facendone nient’altro che un paesaggio estrattivo, un’esternalizzazione produttiva: la natura e la provincia. A questo servono figure come Italo, a questo servono Festival con un taglio comunitario e in fondo politico, pronti a cambiare in corso d’opera per le necessità del luogo. Anche perché, mi dice Nicola sorridendo da serio, «La montagna non perdona, ma nemmeno i montanari».