Per chiunque abbia una cultura artistica poco più che elementare è impossibile entrare in un mercato e non pensare al più celebre quadro di Renato Guttuso, “Vucciria”. Certo, Palermo è così bella perché resta uno degli ultimi avamposti, almeno in Italia, dove poter godere di un po’ di sanguigna essenzialità, e il mercato della Vucciria è una delle sue roccaforti da questo punto di vista. Per quanto riguarda il resto dell’Italia, c’è da ammettere che le cose sono molto cambiate – sicuramente nel tempo sarà cambiata anche la Vucciria stessa.
Entrare in un mercato non sempre equivale a ritrovarsi davanti a persone che portano i propri prodotti dopo averli coltivati o allevati. Al contrario, spesso significa trovarsi davanti a merci che sono in qualsiasi supermercato – a volte anche a prezzi più bassi. Purtroppo il mondo cambia a grande velocità e travolge chiunque vi si trovi dentro. La Vucciria è un esempio particolarmente perfetto di decadenza urbana e architettonica, il cui valore è da rintracciare in tutto e per tutto in un caotico e intricato groviglio di serrande e banchi che sembrano sorgere dalla terra in maniera quasi spontanea, come fossero coralli o vegetazioni primitive, nate, cresciute e rimaste lì da sempre. Il tutto contornato da personaggi che sembrano aver vissuto tutte le generazioni che li hanno preceduti, pur avendo magari un’età che ha superato di poco le tre decadi. Come detto però, la Vucciria è un caso raro, anzi rarissimo, forse unico al mondo. In altri posti non è proprio così piacevolmente pittoresca la situazione, specie se si prendono in considerazioni alcuni luoghi della profonda provincia, particolarmente abbandonati dalle amministrazioni locali, le cui abitudini, tradizioni e costumi locali non hanno avuto quell’impatto culturale che ha contribuito a modellare l’immaginario di un’intera città.
Non solo la Vucciria è un posto particolare, ma nel frattempo il concetto di mercato è profondamente cambiato. Tanto per cominciare, i suoni che potevano sentirsi un tempo, ovvero le urla tipiche della compravendita, sono quasi scomparse, o quantomeno i decibel si sono notevolmente abbassati. Sono cambiati i prodotti, per via del mutamento radicale che in una manciata di anni ha investito il modo di produrre, scambiare e vendere le merci. Tutto questo per dire che entrare al Mercato Nomentano è un’esperienza abbastanza diversa da quella del girovagare per i banchi siciliani. Posto esattamente al centro di piazza Alessandria – che aderisce perfettamente all’odonimia di piazza Fiume, tutta incentrata sul Risorgimento italiano – sembra essere letteralmente incastonato all’interno di essa.
Si tratta infatti di un imponente edificio in stile umbertino costruito nel 1926 da Augusto D’Arcangeli, imprenditore edile ricordato soprattutto per il fatto di essere stato per tre mesi, nella primavera del 1962, presidente della AS Roma. Tuttavia è da escludere che questo sia il motivo per cui all’esterno del palazzo sono presenti dei frontoni decorativi che rappresentano la celebre lupa capitolina che sfamò Romolo e Remo. Secondo la signora Elena Martin Brini, venditrice di cappelli di qualità da tantissimi anni nel suo negozio di via Ancona, a pochi metri da questa piazza, il Nomentano è stato il primo mercato coperto di Roma. Di certo, è stato il primo ad aderire, nella primavera del 2016, a un progetto di grande rinnovamento strutturale e stilistico chiamato Mercati d’Autore, iniziativa nata nel giugno 2015 dall’incontro tra la società di servizi alle imprese APRE ROMA e l’agenzia SuLLeali – Comunicazione Responsabile, con l’intento di riscoprire e valorizzare l’identità culturale e sociale delle realtà mercatali romane.
Sarebbe bello vedere qui all’opera i grandi della sociologia del Novecento, gente che rifletteva sul concetto di denaro, sulla società di massa, sulla perdita dell’aura e cose di questo tipo.
Riflettendoci un po’, le parole “d’autore” sembrano particolarmente appropriate. Si respira un’aria di profondo ordine all’interno del Nomentano, concetto che stride un po’ con quello ordinario di mercato. I banchi sono tutti riconoscibili, ognuno con la sua insegna e la gran parte di questi offre prodotti che hanno una particolarità locale. Ma il vero tratto autoriale è senza dubbio il punto di raccolta libri. L’unico altro mercato in cui ho visto una cosa simile è quello del Rione Monti. Neanche in quello della multiculturale e multietnica Esquilino – quartiere da pochi anni nel ciclone di un poderoso piano di riqualificazione urbana e anch’esso parte del progetto Mercati d’Autore – erano riusciti a fare tanto! Un paio di volte sono passato davanti al mercato Trionfale: mi sono reso conto di non trovarmi davanti a un’ambasciata o alla sede dell’Unione Europea solo quando un mio amico me lo ha confermato. Chissà se anche lì hanno i libri… Scherzi a parte, il mercato funziona alla perfezione e offre servizi aggiuntivi, tali da renderlo un piccolo punto di aggregazione e ricreazione.
Al suo interno sono presenti tavoli e appoggi, dove poter mangiare o sostare per una pausa. Incredibile come a volte a casa mia non funzioni il wi-fi, mentre qui è a disposizione dei clienti. Credo che visitare il Mercato Nomentano possa offrire diversi punti di interesse. Intanto, banalmente, è ricco di prodotti ottimi, come ad esempio le carni di Bruno Quinzi, storico macellaio del mercato che iniziò la sua carriera negli anni Settanta lavorando insieme a un importatore chiamato Romeo D’Arcangeli, cugino nientemeno che del già citato Augusto D’Arcangeli. Tifoso romanista puro, si narra che fu lui a dare il soprannome “Kawasaki” a Rocca, perché era “veloce come una moto e aveva uno scatto tremendo”, e che fu lui ad andare a prendere Falcão a Roma, nonché il primo a toccarlo. Bruno ha da poco (nel 2020) festeggiato i cinquant’anni di attività.
Al di là di come uno possa pensarla al riguardo, mi sembra davvero interessante osservare con quanta facilità mutino certi posti, rimasti invece intatti per tanto, tanto tempo. Cambiano modificando le loro funzioni, estendendo i loro uffici ad altri incarichi. Evitando di sfociare verso discorsi troppo “massimi sistemi”, è anche in posti come questi che si può intuire come sia radicalmente cambiato il mondo in neanche due decenni. Non mi riferisco soltanto al discorso sulla globalizzazione, quanto piuttosto alla questione sul senso e il significato che riguarda luoghi e istituzioni, fino a un certo punto della storia preposte unicamente a delle funzioni e a degli scopi ben precisi. Non è una critica, ma semplicemente una piccola riflessione. Sarebbe bello vedere qui all’opera i grandi della sociologia del Novecento, gente che rifletteva sul concetto di denaro, sulla società di massa, sulla perdita dell’aura e cose di questo tipo. Probabilmente avrebbero trovato interessante passeggiare all’interno di piazza Alessandria, da veri flâneurs quali erano.