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Mescolarsi nei colori di Habesha: la cucina di Germana da Etiopia ed Eritrea

quartiere Bolognina

Scritto da Francesco Pattacini il 1 marzo 2024
Aggiornato il 4 marzo 2024

Foto di Francesco Pattacini

Bisogna attraversare il ponte e guadare dall’alto il reticolo di rotaie per immergersi nella Bologna che vive e respira, resiste e accoglie. Lasciarsi alle spalle le porte del centro storico, spingersi sempre un po’ più in là, oltre i Carracci orfani di XM, oltre le Nonne – Rosa e Aurora – sempre indaffarate. La Bolognina è tante cose ma, soprattutto, un luogo fatto di relazioni a volte complicate, certo, e altre quasi irraggiungibili per chi non ne fa parte. Ma è in questo quartiere immenso in cui storie ed esperienze da tutto il mondo trovano una casa e, in molti casi, una cucina per esprimersi.

Solcando queste strade, scegliendo Via Ferrarese al numero 113/a, ci si incontra con Germana e i suoi piatti provenienti da Eritrea ed Etiopia. Habesha, il termine che indica il crogiolo antico fra questi paesi, prima delle guerre, prima della diaspora, è il salotto dove si viene accolti e invitati a vivere un’esperienza ricca di rituali tradizionali e, anche, di comunità. Il primo passo è dimenticarsi delle posate, potete chiederle, ci sono, ma la verità è che le avete già, sono attaccate ai vostri polsi, e sono l’unico strumento utile per brandire l’injera, il tradizionale pane etiope fatto in casa dalla consistenza morbida ed estremamente poroso, e farcirlo con tutto quello che si trova sul piatto.

Si tratta, probabilmente, di contraddire le regole che istituiscono la solita coordinazione fra portate e ruoli delle pietanze. Solo dal mescolamento capirete – qui, come in tutto – che quello che avete in tavola non è un piatto ma sono in realtà quattro, cinque, sei, forse di più. Che si parli del Kai Wet-Zighni, in cui morbidezza della carne di agnello si muove insieme ai sapori delle verdure stufate (santa trilogia di legumi, delicatezza di erbette in umido); o dei Shimbra Asa che abbiamo cucinato insieme su Grūmi (https://grumi.substack.com/), questi piccoli quadrati di farina di ceci rinvigoriti da questa finta salsa rossissima in cui non c’è pomodoro ma polvere di berberé, la spezia che regna in queste preparazioni; o, per finire, dell’Agelgil, il mastodontico piatto misto, si tratta di una cucina di colori e di ritmi, in cui la condivisione è un elemento fondamentale. Lasciate, quindi, da parte l’imbarazzo nello spalancare la bocca davanti a tutti, accogliete le macchie sui vestiti, quelle ai lati delle labbra, e accettate, se capita, che sia proprio Germana a porgervi il boccone.

– scorri sulle foto per sfogliare la gallery –

Habesha apre le sue porte nel 2016 da una sfida e una ricerca personale di Germana, arrivata nel 2007 da Tigrai in Etiopia, grazie al decreto flussi lavorativo. A Bologna, dopo aver seguito un corso serale di automeccanica, fatto la babysitter per sette anni e gestito un bar, capisce che non è quella la sua strada. Non è il bancone ma la cucina il luogo in cui vuole ritrovarsi. L’incenso sprigiona tutto il suo profumo, mentre parliamo e beviamo il caffè secondo il rituale etiope: “In Etiopia”, mi dice Germana, “il caffè viene prima cotto su una piastra e poi viene portato a bollore. Si lascia riposare per qualche minuto, perché la polvere si depositi sul fondo. Si beve al massimo tre volte per il giorno – quattro per le principesse – e ogni occasione ha il suo nome: Abol, la prima, poi Tona, e l’ultima di benedizione è Baraka”.

Forse perché il cibo è la forma più immediata di conoscenza, e la tavola il luogo in cui avvengono continue confidenze e scoperte, Germana mi racconta del bar, della conoscenza con Barakat che diventerà suo marito, della volontà di aprire un ristorante anche se nessuno era sicuro andasse a buon fine. Della perseveranza, e del sacrificio, per raggiungere un obiettivo, della felicità quando avviene: “In Etiopia mio zio ha un ristorante e, quando ho finito la scuola, ho lavorato con lui per tre mesi. Lì con lui, e a casa insieme a mia madre e mia nonna, ho imparato quello che poi ho portato qui al ristorante. Mi piace cucinare e l’ho sempre fatto a casa mia per le feste, i matrimoni, i battesimi. Così ho pensato che avrei potuto provare ad aprire un ristorante con la cucina che conoscevo. Eravamo tutti un po’ impauriti ma mi sono detta che avrei trovato una soluzione. Non so bene la lingua, ma posso scrivere, non siamo ricchi, ma ce la faccio. Se va bene, va bene, se non va ci voglio provare lo stesso”.

Me ne parla sorridendo Germana, ora che sono passati anni da quell’apertura e il locale è diventato un luogo di continui scambi. Si avvicina l’ora del pranzo e Mavatu, l’aiuto cuoco, inizia ad apparecchiare. Germana mi parla dei primi tempi, del fatto che tutto comincia e prosegue con gli incontri che le hanno dato fiducia e l’hanno fatta sentire in un luogo pronto per questa sua idea: “Non ho mai avuto la volontà di lasciare Bologna, o di aprire da un’altra parte, volevo farlo qui, dove è partito tutto. Un giorno, prima che aprissimo, una ragazza che era la mia vicina di casa e sentiva probabilmente gli odori, è venuta da me e chiedermi se poteva assaggiare quello che stavo cucinando. Ha voluto poi che cucinassi per lei e i suoi amici, abbiamo preso una sala per fare una festa ed erano tutti felici. Lì mi sono convinta definitivamente, ho creduto che fosse il momento e che questa città potesse avere lo spazio giusto per le mie preparazioni. In poco tempo abbiamo trovato questo locale, in cui siamo ancora oggi, l’abbiamo decorato e siamo partiti”. L’interno del ristorante è quella festa che si riproduce nei piatti. Colorato e vivo, rispecchia Germana e la sua forza di volontà ma, anche, la precisa ostinazione nel fare ciò che è necessario per ottenerlo.

Per i primi otto mesi Germana, infatti, è tutto al ristorante. Barista, cuoca, cameriera. Accoglie i clienti e poi cucina, parte dalla tradizione e cerca di trasmettere le sue emozioni: “Lavoro con il cuore, non lo sento come un obbligo, arrivo la mattina e, magari in base al giorno, cambia qualche ingrediente secondo come mi sento. È questo che è fondamentale per me. Cambiano i colori e i gusti, parto dalle ricette tradizionali che mi hanno insegnato ma poi ogni giorno c’è una piccola novità. Volevo far sentire il gusto delle mie origini, con un pochino di peperoncino in meno [ride], perché credo sia importante dare la possibilità alle persone di scoprire e cimentarsi in un approccio diverso alla cucina”.

Germana fa riferimento alla scelta di non portare posate a tavola per trasmettere, oltre ai piatti e la tradizione, un senso di ospitalità che si fonda sui rituali come quello del caffè. È un ridurre le distanze tra chi mangia e il cibo in quanto sostanza. Sentire le consistenze a partire dalle mani e, solo dopo, con la testa e il palato: “Il sapore è importante ma non è l’unica cosa. Mi piace cucinare per le persone e farle sentire bene è una responsabilità. Questo quando lo faccio a casa con i miei amici e qui al ristorante. Mi piace che le persone assaggino queste pietanze, la nostra storia e magari sperimentino qualcosa di nuovo ma, soprattutto, che si sentano a casa loro e a casa mia. Consigliare di usare le mani, al posto delle forchette, ci permette di dare un ritmo diverso, di entrare in una confidenza differente, più spontanea. È così che i clienti si sono affezionati e, poco a poco, sono diventati una famiglia”.

Insieme a Germana abbiamo cucinato i Shimbra Asa alla salsa di berberé, la ricetta e la giornata di preparazione li trovi su Grūmi (https://grumi.substack.com/), la mia newsletter gratuita in cui parlo di cibo, preparazioni e le piccole storie che li circondano.