Altro giro, altra corsa, senza preamboli. Ecco le storie meravigliose degli ospiti in programma per la seconda giornata di Set Up.
SABATO 8 FEBBRAIO
Sama’
Sama’ Abdulhadi è originaria di Ramallah, in Palestina, suona la techno dal 2006. La passione per questo genere deriva dall’esperienza vissuta con il primo rave party in Libano: «Mi sono sentita libera» racconta «lontana dalla guerra, estraniata dal presente». Era la prima volta che usciva dalla Palestina e da allora Sama’ si è fatta guidare dalla musica. Ha frequentato a Londra un corso di laurea in ingegneria del suono e produzione musicale, ha iniziato a lavorare al Cairo nel campo delle colonne sonore cinematografiche, ha avviato un proprio studio, è stata protagonista di una residenza alla Cité internationale des arts di Parigi nel 2017 e la sua musica ha conquistato platee sempre più grandi. Arriverà a Venezia direttamente da Varsavia, dove sarà alla consolle il 7 febbraio, poi il fine settimana successivo sarà a Bres in Francia e al Fabrik di Madrid assieme a Richie Hatwin. Quest’anno è attesa anche sul palco del Sonar di Barcellona. Ma quando si parla di Sama’ non ci si può fermare qui: la sua provenienza da un territorio legato da decenni alla narrazione del conflitto, dei divieti, delle limitazioni, della sofferenza, rappresenta un significato profondo e tutt’altro che scontato. «Non parlo di politica» dice lei «io sono già un messaggio: sono una donna palestinese che fa la dj». C’è anche un documentario che racconta la sua storia: per la prima volta con Sama’ il format occidentale di Boiler Room con il suo apparente effimero contorno di giovani che ondeggiano spensierati, fumano, brandiscono cocktail, ha conquistato uno spazio di intrattenimento in un luogo dove nulla è scontato. Per Sama’, la cassa dritta e il secco contorno di melodie, se non l’avete capito, è un modo per costruire ponti, dove si innalzano muri.
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Omar Souleyman
Suoni per anni ai matrimoni e poi “improvvisamente” mentre, il tuo paese d’origine viene devastato da una terribile guerra civile, inizi a calcare i palchi techno occidentali come fossero un caravanserraglio del terzo millennio. In estrema sintesi questa è la storia di Omar Souleyman che arriva a Venezia sull’onda del suo quarto album “ufficiale” intitolato “Shlon”. Classe 1966, nato a Tell Tamer, nel nord-est della Siria, ha iniziato la sua carriera attorno al 1994 suonando soprattutto ai matrimoni, registrando in tali contesti le sue performance e arrivando a pubblicare circa 500 cassette autoprodotte. La sua musica che fonde suoni di tastiera, beat elettronici e voce ha iniziato a diffondersi così. Ed è follemente irresistibile. Nel 2011 Souleyman è costretto a rifugiarsi in Turchia per fuggire al conflitto. Nello stesso anno, per quelle ancora parzialmente inspiegabili magiche germinazioni del music business, calcherà i palchi di importanti festival come Glastonbury in Uk, Chaos in Tejas negli Usa, Paredes de Coura in Portogallo e inciderà tre remix per Bjork. Nel 2013 esce, prodotto da Four Tet, l’album d’esordio “Wenu Wenu”; segue nel 2015 “Bahdeni Nami”, per l’etichetta dei Modeselektor, nel 2017 è la volta di “To Syria, With Love” e nel 2019 arriva “Shlon”. La formula rimane rigorosamente uguale a se stessa, imperturbabile, come questo baffuto uomo con la keffiah e gli occhiali da sole. Omar Souleyman su forsennati ritmi dabke-techno canta l’amore, con un romanticismo d’antan: la bellezza di una donna con gli occhi verdi e i capelli biondi, la storia di un amante pronto a dare tutto sotto il sole del deserto, il desiderio di un bacio. Alle tastiere non c’è più il virtuoso delle melodie arabe Rizan Said, ma troviamo un collaboratore di vecchia data come Hasan Alo e il giovane Azad Salih al saz (liuto turco). Dall’iniziale hype ad oggi l’artista siriano si è imposto come icona della dancefloor globale e tanto è stato scritto su di lui. Perchè la sua musica world “tamarra” ha spopolato tra gli hipster di mezzo mondo? Forse, mentre i telegiornali e il “tubo” diffondevano le immagini terribili del conflitto siriano, le orrende scene degli attentati e delle esecuzioni rivendicate dallo stato islamico, proponendoli con un’agghiacciante estetica hollywoodiana, in occidente c’era il bisogno di rispondere esorcizzandone la paura, nell’ambito di quella che per molti stava diventando una guerra tra culture e religioni. C’era la necessità di riannodare i fili del dialogo, di inglobare parte di quel mondo che generava divisioni: quel bisogno c’è ancora e ci sarà sempre. È un fatto che in molti abbiano scelto di ballarci sopra. Un’unica avvertenza: per favore evitiamo l’effetto elephant man, altrimenti siamo punto e a capo.
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Moor Mother
Arriva dall’underground di Philadelphia e il suo disco d’esordio “Fetish Bones” è stato uno dei dischi più significativi del 2016. Camae Ayewa è cresciuta nelle case popolari dell’East Coast, ad Aberdeen, in Maryland, città a netta maggioranza bianca. Prima ancora di trasferirsi a Philly per studiare fotografia, inizia a pubblicare incessantemente registrazioni home made a metà strada tra sperimentazione e reading, ispirate alle opere di Maya Angelou e June Jordan. Poeta, attivista, performer, vocalist e bassista, membro del collettivo artistico Black Quantum Futurism, si esibisce ovunque, anche da solista. Datele un microfono e sconvolgerà il mondo. Ispirata a Death Grips e Sun Ra, è artefice di un nuovo movimento afro-futurista. I suoi dischi, compreso l’ultimo “Analog Fluids Of Sonic Black Holes” pubblicato pochi mesi fa, rappresentano un vivido manifesto distopico che affronta temi come la storia della comunità afroamericana, lo schiavismo federale alla segregazione fino ad arrivare ai nostri giorni, all’america di Trump, alla sua retorica sovranista, anti immigrazione. Tra fragori post-industriali, noise, afrobeat destrutturato e hardcore rap, Moor Mother cerca di infrangere il silenzio sulle degradanti condizioni delle carceri e dei ghetti. E anche dal vivo prova a modo suo a rompere ogni barriera con il pubblico, attraverso performance forti e scioccanti, rabbiosa. Quello di Moor Mother è un linguaggio complesso, stratificato, basta guardare i generi che si attribuisce su bandcampo: Low fi/dark rap/chill step/ blk girl blues/witch rap/coffee shop riot gurl songs/southern girl dittys/black ghost songs. Non sono più nemmeno canzoni, come dice lei, sono più che altro «incantesimi». Neri.
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MK
Premio Danza&Danza come miglior produzione italiana 2018, finalista Premio Ubu 2018 come miglior spettacolo di danza, selezionato alla New Italian Dance (NID) Platform 2019: stiamo parlando di Bermudas di Mk. Il gruppo, attivo dal 1999, trova il proprio baricentro nella figura del coreografo Michele di Stefano (Leone d’argento per l’innovazione nella danza alla Biennale di Venezia 2014, premio Nico Garrone 2018) e ruota intorno ad un nucleo originario di artisti costantemente in dialogo con altri performer e progettualità trasversali. Bermudas è un lavoro sul moto perpetuo e il movimento puro costruito per un folto numero intercambiabile di performer (da tre a tredici). Il lavoro è ispirato dalle teorie del caos, dalla generazione di insiemi complessi a partire da condizioni semplici, dai sistemi evolutivi della fisica e della meteorologia. Il nome Bermudas fa riferimento all’intensità oceanica del campo energetico che l’impianto coreografico vuole evocare, dando vita ad un sistema di movimento basato su regole semplici e rigorose. Bermudas è una lavoro che ragiona anche attorno al tema dell’inclusività, un progetto di incontro e mediazione tra individui, di organizzazione gestuale e del malinteso.
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Marco Scipione è primo solista al sax nella band di Mario Biondi e, tra le tante collaborazioni, vanno ricordate quelle con il bassista Federico Malaman e il cantante Giuliano Palma. Oltre il mainstream con il progetto Toy Tokyo il musicista pavese, in coppia con Simone Giorgi, dà libero sfogo alla sua creatività. Astro nascente della scena italiana è in grado di far convivere il minimalismo onirico e sofisticato di Yorke, ai flussi di coscienza vorticosi del fraseggio di Coltrane, fino all’urgenza comunicativa e ferocia delle distorsioni di Cobain. Ovvero: partiamo in quarta.