Ad could not be loaded.

Una palla, due racchette e il vicinato intorno

Lo svago di quartiere trasformato da a un tavolo da Ping Pong

quartiere NoLo

Scritto da Piergiorgio Caserini il 26 aprile 2021

Foto di Nathan Boisdur

Quando penso al pingpong mi vengono in mente due video. All’inizio penso a Bruce Lee. Mi auguro che tutti abbiate visto almeno una volta nella vita quel video dove il nostro fa il campione aggredendo la pallina con un nunchaku. La prima reazione, lì, è bocca aperta e muto. Rispetto. Detto questo è bene che sappiate che quel video è un falso. Bruce non ha mai giocato a pingpong come si fanno i combattimenti di arti marziali. Bruce non è quel tipo che è Bruce. È un sosia. Anche la palletta è stata aggiunta in postproduzione, e per almeno due ovvi motivi, di cui il meno plausibile è pensare come una pallina di celluloide possa sopravvivere a quelle condizioni di gioco. Ovviamente anche l’audio è un montaggio. Se mai siete arrivati alla fine di quel video saprete anche perché. L’altro è invece un video noiosissimo di due tizi che per un anno giocano al nostro tennis da tavolo e finiscono per essere campioncini, si fanno un sacco di amici e così via. Vi basta sapere questo. Il video lo potete evitare, davvero.

Insomma, prima di arrivare al soggetto, il pingpong dell’Arcobalena, facciamo un viaggetto. Dovreste sapere intanto che “ping pong” e “table tennis” non è che siano l’uno il nome e l’altro un termine tecnico, ma erano i brand delle prime versioni di questo gioco. Dove si giocava pure con regole diverse. Ecco, io ho sempre avuto l’impressione che simili nomi facessero sembrare questo gioco un “giochetto”. Tipo un vezzeggiativo del tennis, che sarebbe una cosa impossibile. Tennisetto. E invece è puro furore, lo saprete anche voi. La gente si scalda. L’avrete vista. L’avrete provato. Non è raro trovare in giornate di sole, proprio in piazzetta Arcobalena, omacci a petto nudo in stati di trance agonistica. Sfide multiple, in gruppi che aspettano impazienti e per ammazzare il tempo fanno festa ai tavoli della piazza. Gente che balla, bambini che giocano appena usciti dalla scuola. Abbiamo quindi uno spettro di giocabilità differenti, e bisogna ringraziare le proprietà necessariamente popolari di una piazza. Nel senso: andiamo dai bocia delle elementari, agli adolescenti testosteronici a sfide in situazioni limite. Pensate al tramonto o alla sera, dopo qualche ora a fare la spola tra il tavolo e il bancone del Rondò da Luigi, ogni volta con un bicchiere pieno all’andata e vuoto al ritorno, ricevere una sfida al tavolo. «Ti sfondo», glielo leggi negli occhi che sorridono. E magari ve la lanciano doppia. O peggio ancora, vi propongono quella variante che non ha nome se non a giro, quella dove si danza in banda attorno al tavolo, che in quel momento è stereotipato in focolare. Eppure.

Eppure i campioni li trovate. Gente che a intuito vi fa dei corkspin da maestri e lob da atleti. E voi muti, vi beccate le tighe che meritate. Non vedete niente. Ma neppure l’avversario dovrebbe. Per entrambi la pallina si dovrebbe smaterializzare nell’atmosfera di un sole metallizzato dalla ferrovia in lontananza, con l’incombere di una sera tinta dai toni pastello. Qualcosa non quadra, tutto questo sembra contraddite la logica della fisica del gioco. Coordinazione, rapidità, riflessi, insomma quelle qualità psicofisiche che dovrebbero sostenere una tale abilità, non dovrebbero esserci lì, dove una delle regole è giocare dopo aver fatto tre giri da Luigi. Eppure. Le prendete. Vi battono una, due, tre volte, quest’ultima è un cappotto. E seppure una tale regola, che chiuda la partita su un sentitissimo 6-0, non sia ufficiale, l’accettate. Riconoscete che le auree regole forgiatesi negli oratori di qualche posto di cui nessuno ricorda più il nome vanno rispettate. Sono leggi tacite, universalmente rispettate perché sono state in grado di diffondersi e sopravvivere. Hanno senso. Un po’ come il punto di Re Bello a Scopa, ma questa è un’altra storia.

Qui il pingpong è il presupposto, il pretesto e l’attuazione per le buone amicizie.

Quando parliamo del pingpong e all’Arcobalena dobbiamo partire da un semplice assunto. Qui il pingpong è il presupposto, il pretesto e l’attuazione per le buone amicizie. Non per i tavoli o il gioco in sé, ma perché tutto questo si svolge in una piazza. Non in un locale o in un cortile. All’aperto, dove i confini che si vedono sono quelli ampi del quartiere. Cioè, la probabilità di conoscere locals non è che alta. È certa. Così come quella di perdere qualche partita, a meno che non siate locals anche voi.

Perché ci giocano tutti in questa piazza, e benché qualcuno dica che sì, l’eventualità di schiacciare una palla dentro una macchina o di finirci sopra sia plausibilmente presente, i pingpong dell’Arcobalena non è solo il gioco da tavolo che ci fa sudare, smaltire e divertire, ma rimarca l’attitudine da piazza di questo quartiere fino in fondo, e probabilmente, ci viene da pensare, anche dei prossimi. Detta in altre parole, confidiamo che le piazze siano i nodi attorno al quale si dipanino le reti locali dei quartieri. Si sarà capito insomma, che senza spazi pubblici vivibili, che siano pingpong e panchine, che siano spot dedicati alla convivialità, un quartiere smette di essere un quartiere. Stiamo facendo un discorso piuttosto serio che si dipana tra le campiture di questo spiazzo che non poteva che essere a forma di Balena (sì, ancora e ancora e ancora), ovvero quello di un quartiere che possa sentirsi ed essere “centro”. Non come emanazione del centro della città, ma come luogo capace di distinguersi. Chiamatelo un po’ come volete, i nomi che solitamente danno a queste idee di città è 15 minutes city e “città policentrica”. Che è LETTERALMENTE un’altra cosa rispetto alle Hypercities che fanno dell’estetica e della cultura l’ennesimo spazio di consumo e spettacolarizzazione. Io magari mi sbaglio, e certo detta così andrebbe approfondita, ma ve la lancio comunque: mi è capitato spesso di pensare a Yona Friedman, la sua Ville Spatial e l’architettura della sopravvivenza. Uno spazio pubblico gassoso, per certi versi autodeterminato, che possa essere organizzato su principi di minimi spostamenti. Altro termine ambiguo, ma parliamo di “villaggi urbani”, che funzionano quindi per compensazione rispetto alla prossimità. Ok, ora vi portiamo al dunque. Ancora un attimo. Allora, quel “15” in quella frase da marketing vi indica una cosa molto semplice: l’arco di tempo massimo all’interno del quale si colloca la raggiungibilità dei servizi essenziali. È un paese, finalmente. Ma per certi versi, la 15 minutes cities, per come viene presentata oggi, rischia di essere l’ennesimo sciacallaggio degli urbanesimi libertari del secolo scorso, presentandosi come soluzione a un’espansione che non può più permettersi di essere omogenea. E qui il “villaggio” sarebbe solo un’altra forma del distretto, solo privo di buchi e deserti vari. Ma pure quando è ex novo, come la The Line, la città futuristica di Mohamed bin Salman, strutturata per segmenti lungo una linea. Cioè, qualcuno di voi veramente pensa di andarci ad abitare? Il succo è che, piuttosto che inventarsi l’architettura nella città è la città che deve ripensarsi nelle sue architetture. Un principio semplice, che misura la qualità di vita non in termini di vetrine, marchi e spettacoli di vetrocemento ma di abitabilità.

Si può osservare la pallina sfrecciare, si può cercare di seguirla con l’occhio guercio di chi ha bevuto un cocktail in più e ancora si ostina a lanciare pallette nei bicchieri di birra, oppure si può anche scegliere la prospettiva degli amici e dell’attività in piazza.

Ok, partire dal pingpong e arrivare qua per qualcuno magari è un salto azzardato, per altri eccessivo, per altri è un: «cazzo dici?». Però se vi guardate intorno, quello che sta succedendo a NoLo con questa faccenda delle piazze – e che non ci tratteniamo dal chiamare col suo nome: gentrificazione – prospetta delle linee apparentemente divergenti rispetto a quanto accaduto da altre parti. E il pingpong con l’Arcobalena ne è un esempio chiarissimo. Si vive il quartiere a partire dallo spazio pubblico, e più spazio pubblico c’è più un quartiere diventa a sua volta centro. Non solo per i servizi, ma perché è davvero vissuto. Per dirvene una, più di una persona ci ha fatto notare come sia «strano che la gente esca fuori dal quartiere, cioè, c’è tutto. Pure il dentista». Capite?

Insomma il pingpong si può guardare in tanti modi. Si può osservare la pallina sfrecciare, si può cercare di seguirla con l’occhio guercio di chi ha bevuto un cocktail in più e ancora si ostina a lanciare pallette nei bicchieri di birra, oppure si può anche scegliere la prospettiva degli amici e dell’attività in piazza. E anche se la guercitudine ve le fa vedere tutte insieme, vi sarà chiaro che il quartiere si fa e parte dalle piazzette.