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20 anni di Campi Aperti: storia di una rivoluzione contadina per la sovranità alimentare

Scritto da Salvatore Papa il 27 ottobre 2022
Aggiornato il 28 ottobre 2022

Dopo 20 anni per tante e tanti che vivono a Bologna i mercati contadini di Campi Aperti potrebbero sembrare un fatto quasi scontato. E invece non è affatto così. A parte la quantità enorme di ostacoli amministrativi e politici che l’Associazione deve affrontare ogni giorno, te ne rendi conto quando arrivano in città degli occhi esterni, meravigliati da quello che si trovano davanti, facendoti capire che i mercati di Campi Aperti sono un caso unico in Italia e probabilmente anche in Europa. Perché di mercati contadini ce ne sono tanti, ma nessuno ha le caratteristiche del loro sistema di garanzia basato totalmente sul biologico (non necessariamente certificato), la produzione propria al 100% e la dignità del lavoro. Con un collante fondamentale: la fiducia. Chi frequenta i mercati di Campi Aperti deve prima di tutto fidarsi.

Il processo di costruzione di tutto questo è stato lento e graduale ed è il racconto di una rivoluzione ecologica e sociale ancora in corso che ci siamo fatti raccontare passo passo da Elena Hogan, coordinatrice dell’associazione in occasione della festa per il ventesimo anniversario che si svolgerà domenica 30 ottobre sotto la Tettoia Nervi di via Fioravanti.

foto di Asia Giannelli

Com’è iniziata la storia di Campi Aperti?

È iniziata qui a Bologna nel 2001 con alcune persone laureate in agronomia che volevano sperimentare una coltivazione agricola diversa, biologica, in piccola scala. Un’idea che all’epoca tutti, compresi i loro professori dell’Università, pensavano – sbagliando – fosse impossibile. Il nucleo originario era composto da un gruppo di produttori e co-produttori di quattro aziende agricole diverse: Carlo Farneti, Germana Fratello, Michele Caravita, Domenico Isola, Lucrezia Marsala, Paola Berselli, Stefano Pasquini e Claudio Mieli. Assieme a due collettivi della facoltà di agraria, Capscicum e Kontroverso, crearono un nuovo collettivo che è poi diventato l’attuale Campi Aperti.

Qual era il contesto?

Erano gli anni del G8 di Genova, dove c’era stato un tavolo di lavoro sulla sovranità alimentare, al quale anche loro avevano partecipato. La questione posta era se in questa parte considerata “Primo Mondo” avessimo ancora il diritto di scegliere da dove prendere il cibo, come coltivarlo e distribuirlo. E la risposta era no, quel diritto non ce l’avevamo più. Non succedeva quindi solo nel terzo mondo, la minaccia delle multinazionali ci aveva raggiunto, quindi la lotta andava estesa e portata a casa.
Quello è stato il nostro big bang.

Poi cosa successe?

Insieme ad alcuni altri cittadini che erano molto interessati a rivendicare il diritto alla sovranità alimentare, è nata Campi Aperti, con un primo mercato all’interno di XM24 che aveva un solo un banco condiviso tra quattro produttori e co-produttori, che decidevano i prezzi al di fuori delle logiche speculative. E tutto ciò all’epoca era illegale, perché l’aggregazione di diversi contadini che si mettevano insieme per vendere il loro prodotto non era consentita dalla legge.

E com’è avvenuto il passaggio dall’illegalità alla legalità e all’accettazione amministrativa?

È stato molto graduale e direi che è ancora in corso. Perché non è mai facile ed è sempre una lotta. Nel 2007 una legge nazionale ha finalmente riconosciuto la possibilità di fare mercati agricoli di vendita diretta. Poi nel 2009, quindi 7 anni dopo l’inizio del primo mercato, è stato approvato il primo regolamento per i mercati di vendita agricola a Bologna, che ha legalizzato in qualche modo la situazione, anche se con molte forzature.
Nel 2022, per la prima volta dopo il 2009, quel regolamento è stato rivisto e la nuova versione è stata approvata qualche giorno fa. Stiamo aspettando di vedere il testo per capire cos’è migliorato e cosa no. Molti sono i punti ancora critici e gli ostacoli, ma quello che dovrebbe quasi sicuramente cambiare è la durata delle concessioni, che fino ad oggi ci venivano rinnovate ogni due anni (quindi ogni due anni un bando). Col nuovo regolamento, al bando dovremmo comunque partecipare, ma la concessione dell’area si allungherebbe a 5 anni più 3. Speriamo che sia così.

Di che tipo di ostacoli parli?

Ce ne sono di diversi tipi, a partire da quelli logistici.
Per dire: non abbiamo ancora un’autorizzazione (che ci è stata tolta nel 2018) per entrare all’interno della ZTL nonostante alcuni mercati siano ubicati lì. Questo significa che dobbiamo ogni volta fare un tagliando, ma non si può più di tre volte al mese e i mercati sono almeno quattro volte al mese.
Altra cosa: gli attacchi all’elettricità non sono così scontati perché sono attacchi di cantiere che bisogna riallacciare ogni anno, così come non è scontato l’accesso ai bagni o l’accesso al punto acqua.
E ancora: sulle ordinanze del divieto di sosta c’è un’organizzazione assurda che ci obbliga a mettere e togliere da noi tutta la cartellonistica ogni settimana per ogni mercato fatto in un parcheggio. Ma non solo: ogni settimana dobbiamo mandare una mail ai vigili informandoli che abbiamo eseguito i compiti e che vadano a controllare più una mail di promemoria per mandarli a guardare che non ci siano macchine parcheggiate nell’area del mercato. Per fortuna alcuni quartieri hanno messo la segnaletica permanente ed è tutta un’altra vita, ma non è sempre così.

E a livello politico quali sono le problematiche del nuovo regolamento?

A livello politico la questione è quanto la città di Bologna voglia essere aperta ad accogliere nuovi mercati contadini e farli sviluppare. Noi stavamo spingendo per ottenere un avviso pubblico sempre aperto che potesse accogliere nuovi progetti di mercati dal basso piuttosto che rispondere semplicemente alle proposte del Comune che identifica delle piazze e poi fa un bando per farne un’area mercatale. Perché nella nostra storia siamo sempre stati noi a proporre i luoghi e i progetti e perché i nostri mercati funzionano se hanno una comunità dietro che può accoglierli. Il Comune in questo caso ha scelto per una via di mezzo. Ha accettato la nostra idea, ma stabilendo che ogni quartiere farà un elenco delle aree a disposizione. E questo è problematico, perché ci mette davanti al grado di apertura di un quartiere e di una giunta, lasciando quindi come margine addirittura la possibilità di chiudere i mercati contadini.

Certo, è vero che Bologna è invidiabile perché è stata la culla di Campi Aperti e per la quantità e qualità dei suoi mercati contadini. Ma dall’altro lato, le larghe concessioni alla grande distribuzione e la quantità di nuovi supermercati che spuntano in città racontano un’altra storia. Che ne pensi?

È il doppio gioco della politica, un atteggiamento ipocrita e paradossale. Quello che chiedevamo nel nuovo regolamento è proprio questo: dare ai mercati contadini le stesse possibilità della grande distribuzione e dei supermercati. Questo non è avvenuto. A parole sono tutti per i mercati contadini perché suonano bene, ma nella realtà dei fatti abbiamo tantissimi ostacoli che i supermercati non hanno e dei costi che sono sproporzionati per un’associazione no profit come la nostra.
Ma per noi è chiaro che l’amministrazione favorisce quell’altro modello, che è un modello suicida per l’umanità e per la produzione agricola, che devasta i terreni, sfrutta il lavoro della gente e alimenta un sistema di distribuzione insostenibile a tutti i livelli.

Torniamo alla sovranità alimentare: cos’è per voi e come si applica nel contesto italiano?

Il concetto di sovranità alimentare è stato coniato negli anni 90 dalla Via Campesina, un’organizzazione internazionalista che aveva come scopo quello di trasferire alle comunità il controllo sui sistemi agricoli e alimentari locali minacciati dall’Organizzazione Mondiale del Commercio e altri soggetti sovranazionali. Il nostro concetto della sovranità alimentare viene quindi dal basso e riguarda la sostenibilità di quello che si fa, non solo ambientale ma anche sociale.
Riguardo alla situazione italiana, come dicevo prima, all’inizio degli anni 2000 si è capito che la minaccia per la sovranità alimentare non riguardava solo il terzo mondo ma anche noi. Per come la intendiamo noi, quindi, i popoli locali dovrebbero avere l’ultima parola sul cibo che mangiano, da dove viene e come viene prodotto. Ultima parola che deve essere una scelta.

E che mi dici del nuovo Ministero della Sovranità Alimentare?

È una storpiatura del concetto. Perché in questo caso il controllo non è nelle mani dei cittadini, non parte dal basso, ma è un controllo governativo molto preciso che mira a commercializzare il prodotto italiano e lanciare il made in Italy, anche con un’idea di superiorità, e sempre all’interno di questo sistema suicida e insostenibile. Il tutto con un tocco di richiami al fascismo e all’autarchia, che sono esattamente l’opposto di un movimento nato come internazionalista, totalmente contrario a certe idee folli di primato di alcuni popoli rispetto ad altri. Noi non vogliamo tutelare qualcuno, noi vogliamo tutelare tutti.

Passiamo alle questioni concrete: come funziona la macchina? Come avviene la selezione dei produttori e quali sono le loro spese per sostenere i mercati?

Campi Aperti è sempre in crescita e aperta a nuovi produttori che per entrare devono fare domanda tramite il sito con una scheda da compilare. Tutto si basa su quello che chiamiamo il sistema di Garanzia Partecipata. La prima cosa che succede è che viene organizzata una visita con un produttore della stessa tipologia di prodotto insieme ad almeno un’altra persona tra produttori e co-produttori. Dopo la visita viene scritta una relazione.
Tre sono i criteri più importanti per la selezione:
– la produzione al 100% biologica, ma non necessariamente certificata, ma che di fatto segue almeno le linee europee per il biologico o, magari fa di più (e infatti abbiamo anche chi è biodinamico, chi fa la permacultura, chi utilizza altre tecniche agro-ecologiche ecc.);
– quello che si vende nei mercati deve essere al 100% di produzione propria; la rivendita non è ammessa anche se la legge nazionale prevede una regola della prevalenza dove in un mercato contadino uno può vendere fino al 49% di prodotto non suo (e a noi questo sembra un inganno);
– che venga garantita la dignità dei lavoratori nei campi, ovvero che abbiano un contratto e che siano pagati in modo dignitoso.
In base a tutto questo si sceglie poi chi ammettere. Ma se si hanno i tre criteri elencati e se si è disposti anche a partecipare alla vita associativa si viene ammessi in Campi Aperti.
L’associazione, invece, va avanti con i contributi volontari. C’è un accordo tra gentiluomini che prevede il versamento di una percentuale dell’incasso del mercato che abbiamo stabilito al 6%, ma rimane comunque volontaria (ognuno può versare quindi quello che vuole e può). Tutto si basa sulla fiducia.

Fate un controllo anche sui lavorati? Ad esempio: nei prodotti da forno tipo il biscotto con l’uvetta, l’uvetta da dove dovrebbe arrivare?

Su quello abbiamo tutta una serie di regolamenti interni che abbiamo fatto negli anni e che sono in continua evoluzione. In questo caso abbiamo un regolamento per la trasformazione e la regola base che abbiamo è che l’ingrediente principale di una ricetta debba essere di produzione propria; per il resto abbiamo stilato un elenco di sette possibilità con un grado di priorità per l’acquisto degli ingredienti, a partire dai produttori di Campi Aperti; se un ingrediente specifico non c’è si passa ai produttori che fanno parte della rete di Genuino Clandestino; poi al circuito equo e solidale, ma comunque biologico, e così via. È un sistema che dà molto da fare al gruppo di Garanzia Partecipata, ma tutti devono dichiarare queste cose. Per ogni mercato ci sono due referenti della Garanzia Partecipata che raccolgono le segnalazioni e devo dire che negli anni abbiamo avuto più problemi con il prodotto proprio che non con il secondario o biologico.

Riguardo alla distanza rispetto alla zona di produzione (non voglio chiamarla km zero) quali sono, invece, i criteri?

Il 90% dei produttori vengono dall’Emilia-Romagna. Qualche eccezione dalla Toscana, ma comunque vicinissima al confine. Ci sono poi dei produttori fuori regione che o hanno delle situazioni politiche molto particolari o dei progetti affini a quello che facciamo e prodotti che – finora – qui non si trovano come agrumi, olio d’oliva o altre cose simili. Abbiamo quindi 3-4 produttori siciliani, uno abruzzese che però vive a Bologna e una realtà del Trentino che fa le mele e che rientra nella situazione politica particolare di cui prima, perché cercano di sopravvivere con una produzione biologica piccola in mezzo alla Val di Non. A loro volevamo dare uno sbocco di mercato, quindi vengono una volta al mese, fanno tutti i mercati della settimana e poi ripartono.

Tra poco passerete sotto la Tettoia Nervi. C’è chi è preoccupato perché la vede come una forma di co-optazione con l’Amministrazione nonostante lo sgombero della vostra prima casa che era lì a due passi.

Dovremmo passare sotto la tettoia dal 3 novembre. Bisogna dire che comunque non è stato facile andare sotto le vele, perché ce l’avevano promesso da molti anni e ci hanno messo tantissimo a concedercelo. Ma tra il parcheggio di via Gobetti e una struttura coperta come quella è un grande salto di qualità a livello di comfort.
Questo non cambia la nostra visione critica sulle politiche per il quartiere con il conseguente rischio di gentrificazione totale. Ma la Bolognina è comunque la nostra base e il nostro mercato più grande. Vedremo poi quanto riusciremo a convivere con l’idea dell’amministrazione, ma vogliamo lottare per rimanere. Certo, se il modello da emulare è quello di Barcellona, con i suoi mercati molto carini e turistici, siamo lontani dalla nostra visione, perché lì il controllo avviene prevalentemente dall’alto e di veri contadini ce ne sono molto pochi. Quindi ok, andiamo sotto le vele, ma non per aprire la strada a quel modello.

Come lo vedi il futuro dei mercati contadini?

Sarebbe bellissimo vedere le piazze saturate di mercati contadini, ma credo che sia una battaglia che ha bisogno di essere ereditata da altre generazioni perché noi non la vedremo vinta. La mia parte cinica vede un percorso lineare verso il suicidio collettivo, perché non esiste alcuna transizione ecologica. E perché le comunità di Campi Aperti rimangono comunque una nicchia.
Ma poi penso anche che quello che è successo qui è miracoloso, perché da quel big bang del 2002 con un unico banco contadino siamo arrivati oggi a più di 160 produttori, sette mercati e centinaia di famiglie e persone che vivono di questo. E questa è la nostra speranza, si può fare.