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Alessandra Capodiferro

Contemporaneo e antico tornano ad abbracciarsi all'interno del Museo Nazionale Romano. In occasione della seconda edizione della rassegna Ō abbiamo intervistato Alessandra Capodiferro, responsabile per le sedi di Palazzo Altemps e Terme di Diocleziano.

Scritto da Nicola Gerundino il 18 dicembre 2019
Aggiornato il 20 dicembre 2019

Luogo di residenza

Roma

Attività

Direttrice

Quante volte siete entrati in un luogo appartenente all’immenso patrimonio storico e culturale di Roma e, oltre ad ammirarne la bellezza, lo avete immaginato come sede perfetta per un concerto, uno spettacolo o anche solo un talk? Lo scorso anno il Museo Nazionale Romano ha realizzato il desiderio di coloro che hanno fantasticato sulle Terme di Diocleziano come punto d’incontro perfetto tra contemporaneo e classico, realizzando una rassegna bellissima e intensa dal titolo Ō Festival, centrata su musica, performance e danza e con direzione artistica affidata (anche per quest’anno) a Cristiano Leone. L’esperienza è stata unanimemente riconosciuta come positiva, per cui si è deciso di andare avanti con il progetto – rinominato nel frattempo Ō Tempo di – aumentando il numero delle sedi del Museo Nazionale Romano messe a disposizione – quest’anno si aggiunge Palazzo Altemps – e allargando il ventaglio delle discipline inserite nella programmazione. Essendo Ō un unicum all’interno dell’attuale panorama culturale romano, ci è sembrato più che mai interessante ascoltare le parole dell’istituzione che ha deciso di dare vita all’intero progetto e abbiamo deciso di intervistare Alessandra Capodiferro, responsabile del Museo Nazionale Romano per le sedi di Palazzo Altemps e Terme di Diocleziano.

 

La prima edizione di Ō è arrivata come un fulmine a ciel sereno – in senso positivo – nel panorama culturale di Roma. Lo scorso anno abbiamo raccolto le parole del direttore artistico della rassegna, Cristiano Leone, quest'anno ci piacerebbe ascoltare quelle dell'istituzione ospitante, il Museo Nazionale Romano. Ecco, com'è nata l'idea di questa nuova edizione della rassegna, come l'avete costruita e sviluppata?

L’interesse positivo riscontrato nel pubblico lo scorso anno ha fatto maturare l’idea di dare continuità al progetto, con una scala diversa ed estendendolo anche a un’altra sede del Museo Nazionale Romano: Palazzo Altemps. Gli appuntamenti sono adesso diluiti su un arco temporale più vasto e si aprono a più discipline, per una maggiore partecipazione del pubblico romano e di tutti coloro che si trovano a soggiornare nella Capitale.

Cosa ha significato per il Museo Nazionale Romano riuscire a ospitare un evento del genere? Qual è stato il messaggio che avete voluto mandare al pubblico e alla città di Roma?

Sicuramente ha significato un aumento d’attenzione nei confronti del Museo. Il nostro è un messaggio di cura e considerazione, non solo per il patrimonio archeologico custodito e quello architettonico rappresentato dalle stessi sedi museali: attraverso il festival il Museo Nazionale Romano diventa anche uno strumento di accoglienza e punto di incontro di un pubblico che ha interessi diversi, che non nascono per forza dall’attenzione specifica per le collezioni. Rispetto alla città tutta, il Museo, con il programma “Ō Tempo di”, diventa palcoscenico di manifestazioni di qualità anche su temi inaspettati. Già per natura il Museo Nazionale Romano, con le sue quattro sedi, è una rete dall’offerta diversificata, che attraverso le sue collezioni ricompone una visione del patrimonio archeologico. La rassegna aggiunge ricchezza a questa
offerta, potenziando un’immagine di rete che potrebbe estendersi ad altre istituzioni cittadine.

Quali sono state le maggiori difficoltà che avete riscontrato nella prima edizione e quali invece gli aspetti positivi che vi hanno maggiormente sorpreso?

Il grande successo di pubblico è stato l’aspetto positivo e sorprendente, cosa che, allo stesso tempo, ha richiesto accorgimenti di peso, tanto più impegnativi dal momento che lo scorso anno il festival contava un appuntamento a sera per un mese intero.

Che idea vi siete fatti sul pubblico di Roma dopo la prima edizione di Ō?

Il pubblico si è mostrato meno “pigro” di quanto potessimo immaginare. Nel senso che, nonostante l’alta e diversificata offerta in città, si è lasciato coinvolgere ed è stato incuriosito dalla novità che abbiamo proposto. Si è trattato di un pubblico più giovane, arrivato al luogo museo attraverso un’offerta non tipicamente museale.

Chi è stato il primo a farvi i complimenti per questa iniziativa? Quali quelli inaspettati e quali quelli più graditi?

Il pubblico stesso, se non pecchiamo di vanità! È stato davvero motivo di grande soddisfazione vedere che questi luoghi, che custodiamo con infinita attenzione, suscitino entusiasmo. La bellezza e il fascino che evocano sono tanto più graditi quando sono condivisi.

Immagino che anche tutti gli artisti abbiano espresso meraviglia e stupore di fronte a queste location, per loro sicuramente inusuali.

Spesso questi luoghi non si conoscono e la presenza dell’artista aggiunge un tocco magico. Il suo intervento, in un certo senso, li riabilita. Si crea una connessione intellettuale che dà un valore aggiunto, suscitando meraviglia, stupore, incanto.

Parlando dell'edizione di quest'anno, da dove nasce la volontà di allargare il ventaglio di contenuti anche ad altre discipline, come design o fotografia?

Dalla voglia di andare incontro a nuovi, possibili interessi del pubblico. In particolare, introdurre degli incontri con i designer nasce dalla valutazione di carenza di interesse a Roma per questo ambito. La fotografia è invece la conferma di un interesse costituito del Museo, che con il festival va oltre l’ambito storico, di cui esiste un’importante tradizione di archivi e mostre. In questo caso, c’è una ulteriore apertura al contemporaneo.

Allo stesso modo, in quale ottica si è deciso di aggiungere Palazzo Altemps come seconda location a disposizione della rassegna?

Perché è una sede meravigliosa! Un palazzo rinascimentale che merita di essere conosciuto meglio e che, inoltre, ha anche un teatro.

Il dialogo tra contemporaneo e classico, tra contemporaneo e antico, può essere la carta vincente per il rilancio della cultura a Roma? Sarà questo il percorso che la città dovrà intraprendere nei prossimi anni?

Sicuramente questa è una chiave di lettura cui si fa ampiamente ricorso. E ricordo che in questo momento Palazzo Altemps accoglie una mostra su Medardo Rosso. È comunque un bisogno sentito in entrambi i sensi. Anche il contemporaneo ha necessità di trovarsi al cospetto con il classico.

In generale, quali altri passi dovrebbero essere fatti per arrivare a una piena valorizzazione dell'enorme patrimonio culturale di Roma?

È necessario, attraverso le attività intraprese dalle istituzioni, innescare una maggiore consapevolezza civile del patrimonio. Fornire strumenti di conoscenza consapevole e non solo di superficie.

Dal suo punto di vista, di cosa soffre Roma e quali sono le risorse positive che invece può mettere in campo?

Soffre di un’abitudine alla bellezza, un’abitudine che porta a uno scarso rispetto dei luoghi. Va incentivata una maggiore cura di una città straordinaria.

Tornando a Ō, in che modo e quanto il Museo Nazionale Romano è stato arricchito e valorizzato dalla prima edizione della rassegna?

Il festival ha fornito al Museo una maggiore consapevolezza delle proprie possibilità. Mettersi a confronto, rispetto al programma ordinario, con gli stimoli che arrivano dalle osservazioni e dai comportamenti di un pubblico diverso da quello di riferimento abituale, ci consente di scoprire le forti potenzialità di questi luoghi. Inoltre, il Museo risulta valorizzato nella conoscenza.

Possiamo immaginare un percorso alla fine del quale Ō riuscirà a coinvolgere tutte quanti le sedi del Museo Nazionale Romane?

Senza dubbio.

Cosa le piacerebbe realizzare un giorno all'interno del Museo Nazionale Romano, magari proprio nella cornice di Ō?

Un’opera lirica.

Contenuto pubblicato su ZeroRoma - 2020-01-10