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Alessio Ascari

Si festeggiano 10 anni di KALEIDOSCOPE. Dalla rivista alla piattaforma, tutti i progetti passati e futuri.

Scritto da Gianmaria Biancuzzi il 4 giugno 2019
Aggiornato il 9 giugno 2019

Luogo di residenza

Milano

Attività

Direttore

Publisher e creative director del magazine di cultura visiva KALEIDOSCOPE, Alessio Ascari ci racconta dove tutto è cominciato, le collaborazioni e i progetti futuri della piattaforma che ha fondato e che quest’anno celebra una decade di attività.

10 anni di KALEIDOSCOPE. Tanti auguri! Partiamo dall’inizio… Alessio, dove e quando sei nato? Puoi raccontarci com’è iniziato tutto, quando hai deciso di fondare KALEIDOSCOPE e cosa facevi prima di tutto questo?

Sono nato a Milano trentacinque anni fa, sono cresciuto in zona Ticinese e ho fatto finta di studiare al liceo classico Manzoni. Mi sono trasferito a Bologna per fare Arti Visive al Dams ma ero impaziente di passare all’azione, quindi non ho mai finito gli studi e nel 2006 è uscito il primo numero di Mousse, la prima rivista che ho cofondato. Lo spirito inizialmente era quello di una fanzine cittadina, poi negli anni il progetto è cresciuto e nel 2008, di nuovo impaziente di passare ad altro, ho lasciato per concepire una nuova avventura. Il primo numero di KALEIDOSCOPE è uscito nel maggio 2009, in inglese, con la voglia di disturbare una scena editoriale e artistica un po’ assopita e provinciale.

Il magazine non è la tua unica attività…

Fin dall’inizio, KALEIDOSCOPE è nato con la formula dell’ufficio editoriale che fosse anche uno spazio espositivo su strada, aperto alla città. La nostra prima casa è stata Spazio Lima, un luogo pensato dallo studio di architettura p+p di Ermanno Previdi, reso allora quasi leggendario dalla precedente programmazione curata da Andrea Lissoni, ora curatore alla Tate Modern di Londra. In quello spazio e in quelli che hanno seguito, come anche ora con Spazio Maiocchi, l’idea è sempre stata quella della rivista come uno studio creativo, e abbiamo sempre realizzato progetti speciali, libri, mostre, eventi, giocando coi formati senza porre troppi limiti al processo creativo.

Spazio Maiocchi è il complesso culturale fondato da Slam Jam e Carhartt WIP dove KALEIDOSCOPE ha la sua sede e di cui cura la programmazione artistica. Com’è nata e come si è sviluppata l’idea e cosa avete in programma per il futuro?

Quando con il team di Slam Jam abbiamo cominciato a immaginare Spazio Maiocchi, l’obiettivo era creare uno spazio da restituire alla città, dove mettere in dialogo scene creative e audience diversi. Fin dal giorno uno, abbiamo voluto che il complesso diventasse un vero centro culturale che attraversasse l’arte, la moda e il design ispirandosi a un nuovo modello di istituzione che sta prendendo piede a livello globale – penso ad esempio al 180 The Strand a Londra e lo stesso Lafayette Anticipations a Parigi: una costellazione di anti-musei, più agili degli spazi pubblici, liberi dalla politica e dalla burocrazia e che non hanno paura di “sporcarsi le mani” uscendo dal perimetro prestabilito dell’art world e da una visione purista dell’arte.
Per quanto riguarda il programma futuro, a giugno ci sarà una mostra che mette in dialogo Sterling Ruby, eclettico artista di Los Angeles che presenterà la premiere europea del suo ultimo video sul sistema carcerario americano, e H.R. Giger, visionario artista svizzero creatore del concept design per Alien, figura leggendaria che ha ispirato intere generazioni con il suo immaginario post-apocalittico. Inoltre, presso Artifact, il neonato spazio in vetrina – che noi consideriamo la nostra versione alternativa del noiosissimo “museum shop” – presenteremo un progetto dell’iconico regista indie Harmony Korine in collaborazione con Gucci.

Si è appena concluso KALEIDOSCOPE Manifesto, un nuovo festival annuale in cui avete riunito alcuni dei creativi più interessanti della scena contemporanea. Com’è nato questo progetto e in cosa consiste?

La prima edizione del festival, che si è appena conclusa a Parigi, è stata proprio un modo per celebrare i nostri dieci anni. Per tre giorni abbiamo “occupato” il meraviglioso edificio di Lafayette Anticipations, progettato da OMA nel cuore del Marais, trasformandolo in uno spazio per la produzione collettiva di idee e la casa di una comunità creativa spontanea. Applicando sempre una mentalità “editoriale” a contenuti “live”, abbiamo presentato sui tre piani dell’edificio artisti e progetti molto diversi che raccontassero il DNA della rivista: da Virgil Abloh, con cui abbiamo collaborato in più occasioni e che ha presentato una nuova scultura sonora, al duo queer Young Girl Reading Group, che già avevamo presentato a Spazio Maiocchi e che ha attivato l’architettura con un’installazione performativa, al brand streetwear losangeleno Total Luxury Spa, che ha realizzato un tee workshop in collaborazione con una famiglia marocchina della banlieue. Ogni giorno abbiamo organizzato un talk e uno screening program, in cui abbiamo accostato figure anche molto diverse come il collettivo newyorchese DIS e il regista francese Romain Gavras; ogni sera un live set, passando dall’avanguardia elettronica di Amnesia Scanner alla pop star Kelsey Lu, fino al jazz di nuova generazione di Yussef Dayes. L’energia che si respirava era davvero positiva e si è stabilita una connessione speciale con il pubblico parigino. Stiamo già lavorando alla seconda edizione che si terrà nel 2020.

I vostri eventi attraggono spesso un pubblico giovanissimo e molto attento ai trend globali, come è il rapporto con questo nuovo pubblico dell’arte contemporanea e quali aspetti emergono da questo scambio?

Milano è sempre stata una capitale globale della moda e del design, ma queste comunità non si incontravano mai, tantomeno intercettavano la nicchia ristretta e spesso autoreferenziale dell’arte. Mi piace pensare a Spazio Maiocchi come questo meeting place che mancava. Il fatto che lo spazio sia seguito da un pubblico giovanissimo mi rende orgoglioso, si respira grande curiosità e una bella energia.

Gli ambiti creativi si sovrappongono sempre più – arte, moda, design, musica – voi spesso collaborate con diversi marchi commerciali, penso recentemente a RIMOWA, oppure con creativi del mondo della moda, citavi Virgil Abloh. Quali sono per voi le opportunità e i limiti di queste collaborazioni?

La collaborazione con brand di moda e design ci dà l’opportunità di raccontare delle storie, creare immagini, realizzare contenuti, che sia attraverso mostre, pubblicazioni o video. Il processo di lavoro rimane sempre lo stesso, mettendo al centro la visione dell’artista e senza mai comprometterne l’integrità. Noi facciamo da ponte, e lavoriamo solo con marchi che sono predisposti a questa relazione dialettica, che non pensano alla collaborazione come una transazione. In alcuni casi, come la collaborazione in corso con Gucci, con questo progetto ho potuto realizzare il sogno di lavorare con un eroe della mia adolescenza, Harmony Korine.

KALEIDOSCOPE è una realtà molto internazionale con una lente puntata sugli artisti contemporanei più interessanti al mondo, da Hong Kong a New York – perché Milano?

Milano è la mia città e ho sempre pensato avesse bisogno di persone che portassero qui una visione internazionale, invece di spostarsi altrove. Viaggiamo costantemente, ma è un’ottima base in cui tornare a fare il punto della situazione, mentre in altre città più frenetiche il rischio è di essere fagocitati. Negli ultimi tempi si parla molto di rinascimento della città, e sono orgoglioso quando penso che nel nostro piccolo abbiamo contribuito.

10 anni di magazine sono un traguardo importante, riguardando indietro c’è un numero a cui sei particolarmente affezionato?

Il mio numero preferito è sempre il prossimo! Nel momento stesso in cui esce il nuovo numero, sono sempre concentrato su cosa si potrà fare meglio. Per questo la rivista cambia spesso e in dieci anni abbiamo cambiato art director tre volte, mai per voglia di rottura ma sempre per spirito di evoluzione. Però se guardo indietro, sono affezionato ad alcuni vecchi numeri – come il numero guest edited da Sterling Ruby nel 2016, infatti questa mostra in arrivo è la chiusura di un cerchio, e testimonia il nostro desiderio di lavorare con artisti in maniera continuativa anche a distanza di anni.

Parliamo dello staff e dell’organizzazione. Come siete strutturati? Quanti siete? Come lavorate? Da dove iniziate?

Siamo sempre rimasti un team piccolissimo di massimo 6 persone, in primis io e la mia compagna Cristina, connesso a un network globale di collaboratori tra cui uno studio grafico, Bureau Mirko Borsche, basato a Monaco. Tutto il processo di lavoro parte dalla conversazione tra noi, in genere tenendo sempre d’occhio il calendario di un intero anno per capire da dove veniamo e dove vogliamo andare. KALEIDOSCOPE è nato in un’era pre-Instagram: ora invece è lì che si muovono la ricerca, le pubbliche relazioni, il mercato e l’hype.

Nel 2016 è arrivata alla direzione del magazine Myriam Ben Salah…

Myriam è stata un editor in chief “a distanza” per circa due anni, lavorando da Parigi, Los Angeles, Tunisi, sempre con la valigia pronta. In un periodo in cui ero personalmente molto concentrato su alcuni progetti importanti – un’edizione asiatica “pop up” realizzata tra il 2015 e il 2016, poi il lancio di Spazio Maiocchi nel 2017 – abbiamo ritenuto importante avere una figura che fosse “boots on the ground”. Il rapporto con Myriam è stato sempre molto positivo, e siamo stati felicissimi quando, qualche mese fa, è stata nominata curatrice della prossima biennale di Los Angeles, Made in LA. Rimane con noi come editor-at-large e come co-curatrice di KALEIDOSCOPE Manifesto alla fondazione Lafayette.

Perché è importante continuare l’attività di una rivista d’arte contemporanea oggi e quali sfide vi aspettano per il futuro?

In un mondo in cui tanti contenuti si consumano su piattaforme digitali, è importante continuare a produrre un magazine on paper e stabilire una connessione emotiva, fisica con il lettore. È un oggetto che puoi tenere sul tavolo, leggere nel corso di una stagione, tornarci a distanza di anni. L’idea del magazine, come anche dello spazio e del festival, è quella di essere un social network IRL.

C’è qualcuno in particolare con cui non hai ancora avuto l’opportunità di lavorare con cui vorresti collaborare?

Mi piacerebbe spingere i limiti dell’image-making collaborando con il visionario designer di videogame giapponese Hideo Kojima. E sogno di lavorare a una cover story con Bruce Nauman, artista leggendario che vive in un ranch in New Mexico.

Se dovessi immaginare l’ultimo numero di KALEIDOSCOPE come sarebbe? E di cosa parlerà il prossimo numero?

Sull’ultimo numero non rispondo per scaramanzia. Il prossimo, tra le altre cose, parlerà di una nuova ondata di un’estetica “gotica” che attraversa l’arte, la moda e la cultura visiva a 360°. In tempi che anche dal punto di vista politico sono molto cupi, pensando anche a quello che sta succedendo in Italia, ci sembra un bel modo per raccontare il dark side della contemporaneità.