Identità liquefatte e atomizzazione della socialità, aggressività quasi bellicista e adorazione incondizionata di tutto ciò che è
“cute”, adorabile. La rete assomiglia sempre di più a una gigantesca inondazione che, scavando, è arrivata alle fondamentata di un vivere che per secoli abbiamo ritenuto talmente solido da essere immutabile. Una turbo realtà che, nella sua accelerazione, ibrida qualsiasi cosa. Come tutto questo si traduca in arte lo racconta perfettamente il lavoro di Andrea Frosolini: prendete il vecchio mondo, mettetelo in una lavatrice che macina giga e giga di traffico internet e stendete in una galleria quello che ne esce fuori. Le sue mostre assomigliano a un bucato i cui colori si sono completamente scambiati e ogni capo può essere anche il suo esatto opposto. Attrezzature per la palestra rivestite di pelliccia, guanti di carne, stivali serpente, lupi in tute zentai: ogni opera raccolta di identità che si mescolano, di tensioni e ibridazioni, di desideri e feticci che solcano ogni parte del corpo. Fonte primaria di ispirazione, e non poteva essere altrimenti, la rete e il suo continuo proliferare di sottoculture, lì dove il “meltdown” del reale è già iniziato. Lo abbiamo raggiunto per un’intervista nei giorni immediatamente successivi all’inaugurazione della sua nuova personale negli spazi di Curva Pura, allestita fino al quattro maggio, dal titolo “Ponyboy“. Proprio come il brano di Sophie, perché la musica nel lavoro di Frosolini è sempre presente, anche se non si ascolta (quasi) mai. E perché il pop, quello sì, sopravviverebbe anche in un mondo post-atomico.
Pochi giorni fa ha inaugurato la tua nuova personale, "Ponyboy". Com'è andata l'apertura?
Molto bene, sono contento e soddisfatto. Avevo bisogno di una personale.
È stata la tua prima esposizione da Curva Pura?
Sì, anche se con loro ci conosciamo da tanto tempo. Nel 2017 abbiamo fatto proprio qui una collettiva come Spazio In Situ, l’artist-run space a Tor Bella Monaca di cui sono diventato direttore artistico nel 2022. Il titolo della mostra era “Deported” ed era stata curata da Porter Ducrist. Ci conosciamo da tanto tempo quindi.
Parliamo subito di Spazio In Situ allora!
Come detto, io sono tra i fondatori. Nel 2015 eravamo sei, poi la formazione è cambiata: alcuni se ne sono andati, altri sono entrati. Nel 2018 siamo diventati undici e poi di nuovo sei, quattro anni dopo. Abbiamo sempre lì i nostri atelier, ma abbiamo perso lo spazio di circa 100mq dedicato alle esposizioni, che è stato venduto. Ora ne abbiamo trovato un altro un po’ più piccolo al Pigneto, più vicino al centro della città.
In che punto del Pigneto?
In via Luchino dal Verme. La ricerca è stata molto lunga e alla fine abbiamo optato per questa soluzione di 55mq su due piani: è uno spazio con molte potenzialità e nel tempo capiremo come sfruttarle. Storicamente noi abbiamo sempre lavorato molto sul site specific e sull’interazione con lo spazio e sarà così anche per questa nuova casa, che è molto più simile a una galleria canonica: questo cambierà parecchio la nostra modalità di esposizione, ma siamo comunque molto contenuti di esserci trasferiti, perché per noi l’attività espositiva e di promozione dell’arte indipendente e giovane è stata sempre tanto importante quanto quella di lavoro e ricerca.
A Tor Bella Monaca invece come ci eravate arrivati?
In maniera casuale a dir la verità. Cercavamo un spazio che fosse abbastanza comodo e vicino a tutti quanti noi fondatori, e che fosse anche economicamente sostenibile. Alla fine ci siamo trovati molto bene.
In questi anni che rapporto avete sviluppato con il quartiere?
All’inizio le persone erano molto incuriosite, volevano tutte sapere cosa facessimo. Si tratta di una zona le cui attività hanno a che fare o con il commercio o con i servizi, per cui questo spazio enorme, bianco, con tanti oggetti “strani” dentro, incuriosiva tutti. E infatti alle nostre mostre sono sempre venuti in tanti. Oltretutto, noi abbiamo sempre lavorato con elementi molto vicini alla strada e alla realtà urbana: auto, moto, attrezzi, etc. Non abbiamo mai fatto un lavoro sul quartiere in maniera stretta, ma, d’altra parte, il nostro obiettivo era quello di portare in città un po’ di arte indipendente, non di intervenire sul territorio. In ogni caso, sono stati tutti sempre molto carini e rispettosi: familiari, ecco. Anche quando abbiamo realizzato eventi molto partecipati che un po’ di casino lo hanno portato.
Torniamo a "Ponyboy". Quante e quali opere hai portato in mostra?
Ho portato sette opere. In realtà direi più cinque, perché per me due pezzi sono dei “chiarimenti”, un ampliamento della narrazione che invece è data dai lavori fondanti della mostra che sono la panca multifunzione, i due arazzi, la struttura con la sbarra e le catene, e le suole di scarpa con i ferri di cavallo.
C'è un'opera che per te è più rappresentativa?
Penso che la panca centrale sia il cardine di tutto: è il lavoro che ha dato il via agli altri.
Dove nasce l'idea di "Ponyboy"? Non tanto della mostra in sé quanto della figura metà uomo metà cavallo e del simbolismo che racchiude.
L’ibridazione dell’uomo con l’animale è un elemento ricorrente nel mio lavoro. Sono un gran frequentatore del web e mi informo molto sulle varie sottoculture, come quella furry, fatta di persone che si travestono come fossero delle mascotte, con il pelo. Chi ha una personalità più dolce si crea un costume che richiama, per esempio, il coniglio o il topo, chi ha una personalità più dominante il lupo o il cavallo. Gli elementi animali vengono ibridati tra loro e al risultato viene dato un aspetto antropomorfo. C’è anche la sottocultura brony, legata ai pony e nata dal cartone animato per bambini “My Little Pony”. Poi sono arrivati anche i raduni e le convention a tema, con persone mascherate. Ci si ritrova spesso su 4chan e ci si identifica tramite avatar di pony. Spesso il mondo brony viene visto come antisociale, perché costituito da adulti che hanno atteggiamenti infantili e, a volte, anche inquietanti. Ci sono stati episodi pesanti: violenza, pedofilia o la diffusione i messaggi nazisti. In entrambe queste sottoculture è molto presente il tema dell’antropomorfo, dell’essere umano che, per descrivere la propria personalità, ha la necessità di mascherarsi e di coprire la propria identità. Poi ci sono anche ispirazioni che arrivano dalla cultura bdsm, dove la dinamica tra dominante e sottomesso si trasforma nel rapporto tra cavallo e fantino. Ho iniziato a chiedermi chi in questa relazione detiene veramente il potere, se la possibilità di arrivare a situazioni di confine ed estreme è determinata più da chi permette la dominazione o da chi la esercita. Ho immaginato un’inversione di ruoli che, secondo me, è molto più naturale di quello che si può immaginare. Nella cultura bdsm La pratica del pony play viene anche chiamata Perversione di Aristotele. Esiste una leggenda medievale secondo la quale al filosofo piacesse essere cavalcato dalle proprie compagne. In particolare, ci si riferisce a un episodio orchestrato da Alessandro Magno, al quale Aristotele aveva raccomandato di non farsi distrarre dalle donne, su tutte Fillide, di cui si era invaghito. Per dare una lezione al filosofo, Alessandro Magno si mise d’accordo con la ragazza, che lo sedusse a tal punto che acconsentì a farsi cavalcare nudo in cambio di un rapporto sessuale. Esistono tantissime rappresentazione di Aristotele carponi con il morso da cavallo. Insomma, unendo tutti questi elementi si arriva a una mostra incentrata sul binomio uomo-cavallo: un ibrido con la parte equina selvaggia e quella umana addomesticabile.
Ti interessa più il contrasto tra le parti e o la loro unione che genera qualcosa di nuovo?
Sono aspetti legati: la tensione che crea la differenza è la stessa che crea l’unione e la nuova creatura. Detto questo, sicuramente sono più interessato a questo terzo elemento, a questa nuova realtà paradossale che nasce dalle prime due.
Oltre all'uomo e al cavallo, c'è un altro elemento molto importante nella mostra: la macchina.
Mi sono immaginato il luogo più adatto dove narrare il centauro nell’era contemporanea e, secondo me, la palestra si presta benissimo: è il luogo dove c’è sia la mascolinità più aggressiva e tossica che quella più frivola, perché in palestra non si costruisce un corpo che deve essere forte per raggiungere un fine e compiere un’azione, un lavoro magari. Il corpo della palestra è un orpello: è fine a se stesso, qualcosa da mostrare. Il centauro vive tra queste due contrapposizioni, tra il frivolo e il bellicoso. La macchina della palestra diventa un prolungamento del corpo, ma senza l’essere umano: ho tolto volutamente la figura umana in modo da aumentare la carica sessuale della macchina, non essendoci un corpo da vedere. E la macchina viene sessualizzata da elementi prettamente feticistici: la pelliccia, le catene e gli harness, che sono degli elementi di pelle utilizzati in ambito bdsm e leather o anche dalla cultura furry.
Nei tuoi lavori il rapporto tra corpo e oggetti è una costante. Penso in particolare a lavori come " My Anaconda Don't" o "Paris Is Burning".
Mi piace molto indagare l’identità dell’essere umano senza l’essere umano, la sua “shell” (l’involucro, nda) vuota. Che poi è quello che fa la moda o il design: entrambi lavorano in assenza di corpo. In tanti lavori tendo a lasciare solo la superficie, a svuotare completamente il corpo lasciando solo il feticcio del contenitore che va a descrivere il contenuto. È lo stesso meccanismo delle immagini che ci costruiamo sul web: spesso pensiamo ci raccontino meglio perché riescono a nascondere tutto quello che c’è dentro, o quello che c’è fuori e che non vogliamo si veda. Ci identifichiamo nella shell, che ci mostra proprio nel momento in cui ci copre e ci nasconde.
Oggetti e corpo non possono che richiamare un'altra istanza: il desidero. A volte è un desiderio sessuale, come in "Bunny Is a Rider", a volte è di evasione, come in "Welcome to Bikini Island".
Anche in “Bunny Is a Rider” sono andato a scavare nelle sottoculture. In particolare nella sottocultura biker, dove ci sono persone che si incontrano in dei blind date, senza motocicletta, senza mai vedersi in volto e senza mai togliersi la tuta. Il rapporto sessuale avviene attraverso la pelle e la distanza tra i due corpi diventa il feticcio erotico che si consuma. In questo lavoro ho solo scelto le tute, tutto il resto i performer, che non si sono mai incontrati, non hanno mai parlato tra di loro, né fanno parte della cultura biker. Li ho stimolati a cercare degli elementi che fossero comuni a entrambi: la panca per addominali, la ciotola per i cani, un parco in cui erano stati tutti e due almeno una volta nella vita. Parco che poi, stampato, ha fatto da sfondo alla performance. Era un blind date vero quindi, i due protagonisti potevano non avere attrazione l’uno per l’altro, ma alla fine tutto è andato in maniera naturale. Quello che volevo ottenere era un’inversione del voyerismo, spostando l’imbarazzo dai due “amanti”, invisibili grazie alla tuta, a chi li guardava. “Bikini Island” invece partiva da un fenomeno naturale di rifrazione del sole, il cosiddetto “cane solare”, che si verifica in condizioni climatiche perfette. Ho immaginato quindi queste due sorelle affette da albinismo – difficili da distinguere, proprio come i due soli – mentre prendono la tintarella in questo luogo post-umano, distopico, con delle lampade termiche (artificiali) al posto della luce naturale. Luce alla quale le due performer non possono assolutamente esporsi. Inoltre, il nome si riferisce all’arcipelago nel Pacifico dove negli anni Cinquanta sono stati fatti diversi test nucleari: un paradiso alla vista, che in realtà è fatto di aria e acque pesantemente contaminate. Qui il tema è il feticcio contemporaneo dell’evasione esotica, che ti spinge ad andare anche in un luogo che ti può uccidere. Una volta che hai visto tutto, la cosa più esotica che puoi fare è andare in un luogo distrutto e post-atomico.
Tornando a "Ponyboy", per contrasto, appena letto il titolo e il tema della mostra ho pensato a HorsegiirL, la dj. Che ovviamente tu conosci.
Certo! È stata anche lei un grande ascolto durante la produzione della mostra. Lei è un po’ il centauro al contrario, un ibrido ancora più inquietante perché prende il volto del cavallo e il corpo dell’essere umano. Anche qui torna il tema della mascheramento della propria identità.
Insomma, è pieno di gente che sta in fissa con l'essere cavallo!
Il cavallo è un’animale feticcio per eccellenza. Basta pensare anche al rapporto che tanti personaggi storici hanno avuto con i rispettivi cavalli, fino ad arrivare a Bianca Jagger che attraversa lo Studio 54 in sella.
Tu che rapporto hai con i cavalli?
Beh, a essere onesto ho un po’ paura! Mi inquietano moltissimo, quando mi trovo vicino a un cavallo non so mai come comportarmi, c’è molta forza e anche molta imprevedibilità rispetto a quello che possono fare. Non sono mai salito su cavallo infatti.
Quanto è importante la musica nel tuo lavoro?
Per me è fondamentale. Quasi tutte le mie opere si chiamano come canzoni o citazioni, e arrivano dal mondo pop/elettronico: “My Anaconda Don’t” ha come riferimento Nicki Minaj, “Bunny Is a Rider” Caroline Polachek, “Ponyboy” Sophie, “May Jailer” è uno pseudonimo di Lana Del Rey e così via. Allo stesso tempo, la musica non è presente quasi mai nelle mie mostre. L’ho utilizzata per “Time Goes By So Slowly”: tre performance in una stessa sera, con un lupo mannaro che andava a ballare brani pop rallentati. C’è anche una sottocultura di persone che ascoltano brani famosi estremamente lenti, in modo da avere una sensazione di dilatazione del tempo e di rilassamento.
Che musica ascolti di solito?
Pop, da quello più elettronico e acido di Shygirl e Charli xcx a quello delle grandi dive.
Durante l'opening mi hai raccontato che hai ascoltato anche tantissimo pop medievale...
Sì! Si tratta di un’altra sottocultura che si chiama bardcore. Diciamo che sono tutta una serie di brani molto famosi, rielaborati con l’AI come fossero composizioni e danze medievali, con il liuto e strumenti di altre epoche. Fino all’ultimo sono stato indeciso se inserire un sottofondo musicale medievale per richiamare la leggenda di cui parlavamo prima. Poi ho pensato che non servisse perché già il font utilizzato nelle opere e in tutta la comunicazione della mostra era sufficiente per legarmi a un passato lontano. Però si, nella fase di preparazione ho ascoltato davvero tanti brani bardcore!
C'è un'artista musicale particolarmente rappresentativa del tuo immaginario?
Lady Gaga è quella che più ha ispirato l’idea del corpo come tela e della moda come messaggio. L’abito di carne che ha indossato nel 2010 agli MTV Music Awards ha ispirato i guanti di “Paris Is Burning”. Se devo scegliere, scelgo lei. Anche Lana del Rey è molto importante. Diciamo che sono agli antipodi: da una parte il pop super felice e dance, dall’altra quello più intimista e introspettivo. Però in entrambe c’è sempre l’utilizzo dell’alter ego, di questo personaggio che si sono create per descrivere cioè che non riuscivano attraverso la loro vera identità.
Che rapporto hai con la moda?
Tutta la ricerca che faccio è molto legata alla moda. Per esempio, in questi ultimi anni Balenciaga ha utilizzato molto la maschera o le tute zentai che derivano dal teatro giapponese e che praticamente rendono invisibile chi le indossa: il corpo diventa solo pelle, perché sono eliminati tutti quegli elementi distintivi della fisionomia. Il mondo pop è molto legato alla moda, così come al design, all’architettura, all’arredamento, all’abbigliamento, alle scarpe, agli accessori. Alla moda appartengono tutti quei feticci che vanno a costruire la nostra personalità in maniera contemporanea: gli oggetti che, attraversati dal desiderio, da freddi diventano personali, intimi e corporei.
Rispetto alla cultura di massa, le bolle sottoculturali mi sembrano avere delle tendenze feticistiche molto più marcate.
Nelle sottoculture internet, grazie alla maschera dell’avatar, c’è il coraggio di parlare e di portare in primo piano i feticci, che in realtà ci sono anche nella cultura di massa, ma sono più sullo sfondo. La sottocultura, mascherandosi, trova coraggio e, paradossalmente, coprendosi si mette a nudo.
Anche l'AI riuscirà a sviluppare un suo feticismo?
Lo spero! L’AI mi affascina, anche se non la utilizzo molto. Ne ho fatto uso in “May Jailer” per ricreare delle canzoni metal attraverso la voce di Lana del Ray, che riproduceva tutti gli strumenti diventando una sorta di canto di sirena inquietante. Da grande frequentatore del web, l’AI non può che affascinarmi.
Ultima domanda su Roma: cosa ti piace e cosa no?
Non sono un grande fan del ritorno di certi tecnicismi e tendenze del passato, ad esempio della pittura fine a se stessa, che è facile da comprendere, da vendere e da mettere nel salotto. Mi piace la pittura di chi ha la vera necessità di utilizzare quel linguaggio. Vorrei che ci fosse più coraggio in tante gallerie, mentre spesso vedo che a vincere è il grande feticcio del rettangolo e dello schermo.