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Andrea Lucchesini

Un'importante carriera solistica internazionale, la dedizione per l'insegnamento alle nuove generazioni, una passione che include tanto la classica quanto la contemporanea, e poi i Maestri e le collaborazioni importanti - da Abbado e Berio fino a Mario Brunello: il pianista Andrea Lucchesini si racconta in occasione del doppio concerto - a Milano per la Società del Quartetto e a Roma per la Filarmonica Romana - che lo vede protagonista, insieme a Sandro Cappelletto, di una particolare reinterpretazione delle ultime tre Sonate per pianoforte di Schubert.

Scritto da Anna Girardi il 13 marzo 2017
Aggiornato il 14 marzo 2017

Luogo di nascita

Massa e Cozzile (PT)

Attività

Musicista

Andrea Lucchesini è uno dei più noti pianisti italiani. Toscano di nascita, come denota l’accento marcato, classe 1965, suona in tutto il mondo con programmi che spaziano dal repertorio classico – pensiamo al ciclo integrale delle trentadue sonate di Beethoven registrate dal vivo per Stradivarius! – a quello contemporaneo, con una via preferenziale per la produzione di Luciano Berio. Oltre all’attività concertistica e alle incisioni di numerosi dischi, fondamentale è la passione con cui Andrea si dedica alla trasmissione del sapere e dell’amore verso la musica alle nuove generazioni, tramite l’insegnamento e le masterclass presso svariate istituzioni musicali europee. Sarà inoltre per sempre ricordato dagli studenti e dai docenti della Scuola di Musica di Fiesole dove dal 2008 al 2016 ha svolto con entusiasmo ed energia il ruolo di Direttore Artistico – oltre che di docente. Alla Società del Quartetto è ormai di casa, e torna questa sera per un concerto carico di pathos ed emozione: all’interno della proposta Focus Schubert, giunta al suo quarto appuntamento, Lucchesini suonerà le ultime tre Sonate per pianoforte di Schubert, scritte nell’ultima estate di vita del compositore. A raccontare le atmosfere e le vicende che hanno portato alla loro nascita, e a introdurre il periodo, ci sarà lo scrittore e giornalista Sandro Cappelletto.
Lucchesini è particolarmente legato alla Società del Quartetto, associazione che vanta una storia e tradizione tra le più vive e durature nella società culturale milanese e che qualche anno fa ha raggiunto il traguardo dei 150 anni. Principalmente concentrata sulla musica da camera – o comunque sulla musica non operistica – il Quartetto è nato con il compito di «incoraggiare i cultori della buona musica con pubblici esperimenti, con fondazione di premi per concorsi e colla redazione di una Gazzetta musicale, organo della Società». Innumerevole è l’elenco di artisti, compositori, mecenati, organizzatori che negli anni hanno contribuito a mantenere vivace e stimolante l’attività del Quartetto e, di conseguenza, il panorama musicale milanese. Anche la stagione di quest’anno è ricca di spunti, con l’integrale dei trii di Beethoven, il ciclo Bach, Bartók, Janáček, il concerto di FuturOrchestra o, per l’appunto, il progetto Focus Schubert che vede coinvolti per questo quarto appuntamento Andrea Lucchesini e Sandro Cappelletto.

ZERO: Il tuo percorso di musicista e di vita è costellato da incontri, amicizie e collaborazioni solide e importanti. Posso citare alcuni nomi?
ANDREA LUCCHESINI: Certamente.

Partiamo con Claudio Abbado.
Claudio Abbado è un punto di riferimento per i musicisti di tutto il mondo. Io non l’ho conosciuto prestissimo, ma ho ascoltato per tanti anni sue esecuzioni sia dal vivo sia su disco fino a quando non ho suonato con lui, con la Mahler Chamber Orchestra, prima a Bolzano e poi a Parigi. È stata un’esperienza meravigliosa, abbiamo suonato insieme il Quinto concerto di Beethoven. Abbado non era di molte parole quindi non avevamo parlato insieme del concerto, ma è bastata la prova con lui, seguire quello che diceva all’orchestra, seguire la sua strada per trovare anche la mia. Da quando l’ho eseguito con lui, anche la mia visione del concerto è cambiata e ha preso una strada diversa da quella di prima.

Vi siete poi incontrati alla Scuola di Fiesole, giusto?
Sì, ha collaborato con l’Orchestra Mozart ad alcuni progetti e sono stati momenti intensi di lavoro. L’ultimo grande regalo che ha fatto alla scuola, poche settimane prima che mancasse, è stato quello di offrire il contributo che aveva come senatore della Repubblica in borse di studio per i talenti della Scuola di Fiesole: un grande atto di generosità che rimarrà per sempre nella storia della scuola.

Luciano Berio?
Questo sì, è stato un rapporto molto intenso e assiduo. Ci siamo conosciuti alla fine degli anni ’80. Insieme abbiamo affrontato tutta la sua musica, abbiamo suonato in tutto il mondo il suo concerto per pianoforte diretto da lui, abbiamo condiviso tantissimo. È come se mi avesse preso per mano e mi avesse insegnato cosa è il mondo della musica contemporanea, è stato veramente un grande maestro da questo punto di vista. La cosa più emozionante in assoluto è stata veder nascere, svilupparsi e finire la Sonata per pianoforte che ha scritto nel 2001 per me. L’ho suonata in prima esecuzione assoluta e penso sia questo il sogno di tutti i musicisti, poter lavorare fianco a fianco a un compositore, vedere come procede e quali sono le sue idee musicali.

Come è nato un rapporto così stretto?
Ci siamo incontrati a casa di amici una sera dell’estate dell’89. Lui aveva sentito parlare di me e si era incuriosito. Quella sera mi ha detto che aveva appena scritto un concerto per pianoforte e orchestra che tra l’altro doveva essere suonato a giorni da Barenboim diretto da Abbado e mi ha proposto di leggerlo. Ho passato tutta l’estate a studiare come un pazzo quello che era veramente un pezzo difficilissimo, Concerto II (Echoing curves). Lui si disse molto soddisfatto della mia lettura, gli sembrava che potesse funzionare: mi spiegò che era una lettura non di uno specialista, non di un esecutore assiduo di musica contemporanea. Emergeva tanto il mio approccio verso la sua musica, che era lo stesso che aveva notato ascoltando ad esempio il mio Beethoven. Questo gli era piaciuto molto. Dopo poco tempo mi richiamò e mi disse: «Tra due mesi lo suoniamo a Londra». Da lì è stato poi portato in tutto il mondo, è stato inciso, è decollato. L’amicizia tra noi si è poi consolidata, vivevamo tutti e due a Firenze, ci vedevamo spesso, è stato proprio una guida per tutto, dall’approccio allo studio all’impaginazione dei programmi di Fiesole. È stato importantissimo. E non solo in ambito musicale. Ad esempio una sera di capodanno ero con lui e ho ricevuto la convocazione al militare. Lui mi ha detto di star tranquillo e ci ha pensato lui: non sono mai partito. Gli sono grato quindi, anche per non aver fatto il militare. È stato proprio una sorta di padre spirituale.

Il tuo interesse per la musica contemporanea è nato grazie a lui?
No, ho sempre studiato ed eseguito musica contemporanea ma non in maniera così profonda e assidua come con lui. Lui mi ha aiutato ad immergermi completamente in quel mondo. La sua capacità di spiegare i meccanismi di questo tipo di musica è stata fondamentale. Naturalmente per affrontare il repertorio contemporaneo ci vuole tempo e ci vuole la pazienza di scoprire e saper scegliere. Si compone tanta musica anche al giorno d’oggi, ma bisogna essere bravi a capire qual è quella più adatta a sé: io vado sempre alla ricerca di pezzi, sia nel repertorio classico sia in quello contemporaneo, che siano adatti a me e alle mie caratteristiche, al mio modo di essere e di suonare. Con la musica di Berio è stato abbastanza facile perché ero guidato da lui, che aveva un modo di scrivere a me molto affine. Un modo molto artigianale – non per ridurlo – ma era tecnica pura della storia del pianoforte. Questo facilita l’interprete. Qualche volta invece alcuni compositori si inventano delle soluzioni che magari sono molto belle sulla carta ma poi sono quasi impossibili da suonare…

Hai intenzione di riprendere a fare contemporanea?
In questi ultimi dieci anni mi sono dedicato meno alla contemporanea perché con l’incarico alla scuola di Fiesole non avevo il tempo per approfondire la ricerca. Ho continuato a suonare Berio e altri che avevo in repertorio, ma non ho studiato nuovi pezzi e non sono stato molto dietro agli ultimi brani composti, cosa che adesso che ho un po’ più di tempo ho intenzione di fare perché penso sia un dovere assoluto di un interprete di oggi: dare voce a ciò che viene scritto nella contemporaneità.

Altro grande legame, umano e musicale, è con Mario Brunello
Mario e io ci siamo conosciuti piuttosto presto, era il periodo in cui ho conosciuto anche Berio: fine anni ’80. Ci siamo incontrati dopo un suo concerto dalle mie parti in Toscana. Il giorno dopo lui era libero e ci siamo trovati per suonare. Abbiamo letto la Terza sonata di Beethoven e durante le vacanze di Natale eravamo già a studiarle tutte e cinque. Abbiamo iniziato con Beethoven e abbiamo avuto la fortuna di ottenere l’incarico da parte dell’Unione Musicale di Torino per organizzare un festival di Musica da camera che si chiamava Incontri con la musica da camera. Per tredici anni consecutivi abbiamo lavorato al festival, a partire dal ’91 circa. Lì siamo cresciuti insieme. Abbiamo invitato tutti i colleghi a suonare con noi, facendo i programmi che più ci interessavano. Abbiamo affrontato tanta musica, tanto repertorio anche in duo, ogni volta trovando respiro e linfa nuovi. Suonare con Mario è sempre stato un piacere ed è un piacere che cresce perché ormai respiriamo insieme. È come se fossimo gemelli siamesi, tante volte non ci guardiamo nemmeno più perché ognuno ascolta e sente l’altro. Penso ci si debba ritenere molto fortunati perché non sempre in musica è facile trovare qualcuno così vicino al proprio sentire.

Veniamo al concerto: come è nata l’idea di alternare parola e musica?
Penso che la musica – e soprattutto quella musica – sia sufficiente da sola a raccontare, però quell’ultimo anno di Schubert è talmente particolare che forse vale la pena raccontarlo anche a coloro che non lo conoscono. Quello di Sandro Cappelletto non sarà un intervento lungo, anche perché le tre sonate da sole sono molto intense. Ci sembrava però giusto inquadrare il momento e far capire cosa è successo in quegli ultimi mesi, come si sentisse Schubert e com’è che possano essere nate tre meraviglie come quelle in una situazione drammaticissima.

Le hai proposte tu?
No, veramente l’idea è stata dell’Accademia Filarmonica Romana, di Matteo D’Amico. Poi l’abbiamo offerta ad altre associazioni musicali in Italia. Alcuni si sono spaventati e hanno accettato di farne solo due, altri invece – più coraggiosi – le eseguiranno tutte, come la Società del Quartetto e la Filarmonica Romana, il 16 marzo al Teatro Argentina di Roma. Penso che il ciclo delle tre sonate sia più completo e dia proprio il senso dell’operazione. Nei giorni scorsi ho incontrato Sandro Cappelletto per decidere come organizzare la sua parola e la mia musica e ci siamo resi conto che la drammaturgia funziona perfettamente con le tre sonate, con le due zoppica un po’.

Come mai?
Perché la prima delle tre apre le porte a un mondo onirico che emerge con la penultima e l’ultima sonata. La prima è la più tragica, è forse quella che racconta meglio la situazione di Schubert in quel momento. Racconta bene anche del suo legame e la paura del confronto con Beethoven. Ad esempio il do minore della terzultima penso sia proprio un buon punto di partenza per spiegare l’evoluzione delle altre sonate.


Le tre sonate saranno eseguite alla Società del Quartetto con cui tu hai uno stretto rapporto…

Assolutamente. Negli ultimi anni praticamente ho suonato quasi sempre lì. Torno sempre volentieri a Milano e al Quartetto.

Milano è in un certo senso anche la città che ti ha lanciato, con la vittoria del Concorso Internazionale “Dino Ciani” al Teatro alla Scala nel 1983.
Devo dire che Milano per me rappresenta l’inizio, tutto è nato lì. Il concorso per me è stato importante. Ammetto che il ricordo non è così bello come si potrebbe immaginare: è stato un concorso contrastato, molto combattuto. Era il mio primo concorso internazionale, ero un ragazzino sbarbatello. Ne avevo fatti altri nazionali, ma niente a che vedere con quello. C’erano grandi pianisti che venivano da tutto il mondo, si parlava di scuole di russi, americani, sembravano indistruttibili… Non mi ero preparato per vincere. Mi stavo preparando per lo Chopin a Varsavia che sarebbe stato due anni dopo. E invece mi sono trovato in una situazione del tutto inaspettata, sono dimagrito credo 7 chili nel giro di una decina di giorni, insomma non l’ho vissuta benissimo. Anche perché per me il concorso è l’opposto di quello che dovrebbe essere la musica: una gara di musica per me non esiste e quindi vivevo male la condizione di mettermi in gara con qualcuno. Nonostante questo, ho avuto la fortuna di vincerlo e lì è cominciato tutto, sono iniziati i concerti, i dischi… Milano però, diciamo la verità, inizialmente non è stata così accogliente. Ci ho messo un po’ di tempo per sentirmi a mio agio. Adesso invece quando vengo a suonare al Quartetto mi sento veramente a casa, è già qualche anno che mi sembra di venire e suonare per amici. Questa è una bella situazione che non trovo in molte città. Milano, Torino, Firenze, sono questi i posti in cui mi sento a casa.