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Ascanio Celestini, il Quadraro e le sue storie

I racconti dell'attore e scrittore che hanno portato il quartiere fuori dai propri confini

quartiere Quadraro

Scritto da Roberto Contini il 1 marzo 2021

Foto di Musacchio, Ianniello & Pasqualini.

Luogo di nascita

Roma

Luogo di residenza

Roma

Attività

Attore, Regista, Scrittore

Pur essendo nato e residente a Morena, Ascanio Celestini, per radici famigliari e percorso artistico, è forse il rappresentante più brillante di quello che significa e può raccontare il Quadraro. Che siano personaggi mitologici che si chiamano Cecafumo o un film girato in un chilometro quadrato tra le strade del quartiere, le storie narrate in famiglia dalle nonne o dal padre ritornano sempre al Nido di Vespe e, grazie alle sue tournée e alle traduzioni, superano quelle barriere che fino a trent’anni fa rendevano il quartiere sconosciuto a chi non fosse di quelle parti. Ascanio è una fonte inesauribile di dettagli sul Quadraro, scaturiti da ricordi emotivi e una ricerca instancabile sulle persone e sui luoghi, con un taglio quasi antropologico che serve però a far nascere racconti e drammaturgia. Ci siamo fatti spiegare direttamente da lui cosa significhi il Quadraro da un punto di vista artistico e come sia ancora per lui una costante fonte di ispirazione.

Foto di Alberta Cuccia
Foto di Alberta Cuccia

Pur non abitandoci, hai sicuramente vissuto molto il Quadraro: qual è il tuo rapporto con questo quartiere?

La famiglia di mio padre è arrivata al Quadraro nel ’39, spostandosi da Via degli Angeli – al confine tra Quadraro Vecchio e Tor Pignattara – a causa di un pozzo sulla strada che era abbastanza pericoloso: quindi mia nonna, lombarda, e mio nonno, che invece era trasteverino, si sono spostati al Quadraro Nuovo con i loro figli piccoli, tra cui mio padre. Si sono trasferiti in uno dei pochi palazzi già esistenti in quella parte del quartiere, a Via dei Laterensi, che avevano soprannominato “a cassa da morto”, perché la sua forma ricordava un po’ quella di una bara. Ho ancora una cugina che vive in quel palazzo!

Quindi tuo padre ha vissuto nel palazzo “a cassa da morto” praticamente sin da bambino.

Esatto, poi quando ha conosciuto mia madre, che invece era di Tor Pignattara, si sono sposati e hanno comprato questo lotto dopo l’Anagnina, dove hanno costruito la casa in cui sono cresciuto e che era a cinquanta metri da dove vivo ora, a Morena. Però è chiaro che molti dei racconti di mio padre sono legati al Quadraro e, di conseguenza, una buona parte delle storie su cui ho lavorato in questi anni vengono da lì. Anzi, sono i racconti sui quali ho cominciato a lavorare ancor prima di fare teatro.

Quindi qui non hai solo trovato ispirazione, ma hai anche costruito un tuo modo per fare una ricerca delle storie.

Sì, c’è stata proprio una ricerca sul campo, già venticinque anni fa, andando a parlare e a “intervistare” le persone: diciamo che ho adottato la metodologia dell’antropologia, però con la finalità di scrivere una storia. Parto da lì per poi procedere con un lavoro di invenzione, sempre tenendo a mente la differenza con la ricerca storica, basata sui fatti e gli archivi, e quella che invece prende a piene mani dalla memoria orale.

Come è nata l'idea di ambientare al Quadraro il film “Viva la sposa”?

Il film l’abbiamo girato tutto nel quartiere, in un rettangolo di un chilometro per cinquecento metri, a parte una scena per cui serviva una villa e che ci ha costretto a “sconfinare” sull’Appia Antica: il resto lo abbiamo filmato tra Via degli Arvali, Via Selinunte e Largo Spartaco. Il film nasce già con l’idea di ambientarlo al Quadraro, perché tante delle storie che ho inserito nella sceneggiatura le ho raccolte proprio lì, tra la Tuscolana e il Parco degli Acquedotti.

Quali spunti ha dato il quartiere al film?

Devo fare una breve premessa prima di risponderti, anche per far capire un po’ come nasce la dinamica di un racconto. Per farti un esempio pratico, mia nonna (quella di Tor Pignattara) raccontava storie di streghe, erano chiaramente storie e letterature di invenzione, ma sempre codificate: pur essendo fiabe con un aspetto di magia, e quindi di finzione, venivano sempre declinate come storie vere. Allo stesso modo, nelle storie di mio padre, che pur parlavano del suo vissuto, trovavo sempre elementi comuni con racconti di altre persone. Pensa alle storie di guerra, ci sono sempre alcuni temi che tornano: il tedesco “buono”, il soldato alleato da nascondere perché aveva bisogno di aiuto… Diventano quasi elementi di drammaturgia. Quindi le storie che raccontava mio padre erano sì le sue, ma andavano sempre a inquadrarsi in una tipologia ben precisa di storie di vita.

E queste storie di vita sono quelle che poi hai cercato di portare nel Quadraro di "Viva la sposa"?

Senz’altro. Poi, ovviamente, c’è anche una componente emotiva perché il Quadraro era una costante nei racconti di mio padre, ma fanno comunque parte di una tipologia di storie alle quali torno sempre, in una forma o in un’altra, per il tipo di lavoro che faccio. In più, trovo che come quartiere dica molto dell’Italia, forse anche senza le persone che lo vivono: è una zona che può raccontare benissimo il passaggio dal Fascismo alla Repubblica già solo dall’architettura che possiamo trovare nei palazzi dell’Ina, che dicono moltissimo sulla nostra storia.

Ti capita di frequentare ancora il quartiere, ci sono posti a cui sei legato particolarmente?

Beh, nei limiti delle possibilità, visto che sono circa venticinque anni che vivo in tournée, ci sono sicuramente dei posti dove torno volentieri: Largo Spartaco, che è forse l’unico punto del quartiere che svolge la funzione di “piazza”, un posto dove puoi fermarti un po’ di tempo a prendere una birra e incontrare gente senza dare appuntamento, poi il Parco degli Acquedotti, dove spesso porto i miei figli. Quando posso vado anche al Grandma, che è un’osteria con una bella atmosfera. Per dirti, una volta dovevo fare un’intervista con una giornalista francese e le ho detto di vederci proprio là, al Grandma.

Come giudichi lo sviluppo del quartiere negli anni? C'è il rischio che possa gentrificarsi o diventare uguale a tante altre zone di Roma?

Ho notato che ultimamente va parecchio di moda parlare di gentrificazione, un po’ come di resilienza, che si usa spesso come termine. Si può dire che il Quadraro è resiliente alla gentrificazione? (ride, nda) Comunque, di sicuro per ora non sembra ci sia questo rischio: un po’ perché manca una piazza o una via “principale” che si presti a diventare un qualcosa simile all’area pedonale del Pigneto, un po’ per un discorso di densità abitativa. C’è tanta gente e anche molto differente per età o stile di vita, il che rende più difficile omologare il quartiere, e non c’è mai stato quell’effetto massiccio di case sfitte che hanno portato nuovi residenti, che qui avrebbe significato decine di migliaia di persone, facendo diventare tutto più complesso. Persino la presenza di un vicino centro commerciale non ho “svuotato” via Tuscolana, anzi.

Ritorna un po' quindi l'idea del quartiere resistente, vista anche la sua storia durante la Seconda Guerra Mondiale, come se ci tenesse alla sua identità...

Sì, anche se poi l’identità è un concetto controverso, in alcune casi può anche essere una cosa brutta se pensi a quello che diceva l’antropologo Adriano Favole: “L’identità è la cintura di castità della cultura”. A tal proposito, è interessante vedere come è nata questa memoria della Resistenza: fino a trenta anni fa, per chi non era della zona, il Quadraro era essenzialmente un posto sconosciuto e così anche le vicende di quando era il “Nido di Vespe” per i tedeschi. Poi sono state portate alla luce, anche sull’onda di una serie di
iniziative legate a un percorso molto più generale volto a ritrovare una serie di nozioni come l’inno (sotto la presidenza Ciampi) o la patria, che per noi magari voleva dire al massimo tifare per l’Italia ai Mondiali ogni quattro anni.

Hai avuto modo di parlare anche con qualche superstite del rastrellamento del '44?

Ho intervistato a lungo Sisto Quaranta e gli ho chiesto, forse con la presunzione di chi pensa di sapere già le cose: «Ma voi perché di questa deportazione non avete mai parlato?». Era una domanda fatta un po’ col pregiudizio di sentirsi dare una risposta del tipo «Perché era troppo doloroso» o magari perché pensavano che non sarebbero stati creduti, che quel tipo di discorso non andava affrontato. E invece mi ha detto «Certo che ne abbiamo parlato, ma io sono un elettricista, ne parlavo in famiglia, con noi deportati non c’erano gli scrittori o i giornalisti, non c’era la voce pubblica». Poi, per fortuna, se ne è cominciato a parlare anche da un punto di vista storiografico, ne è stato scritto di più grazie al lavoro degli appassionati di storia locale e si è incanalato anche nel discorso nazionale della memoria condivisa.

E poi si è inserito anche nel piccolo cambiamento che c'è stato nel quartiere.

C’è stato un effetto strano: il Quadraro ha vissuto una rinascita nella percezione prima ancora che cambiasse il quartiere, che di fatto non è ancora cambiato. Se domani dovessero aprire tre pub su via degli Arvali non ne andrebbero a cambiare l’aspetto, rimarrebbe comunque un posto dove vive gente di tutti i tipi. Guarda anche Largo Spartaco, i locali che hanno aperto hanno più che altro dato vita a una sorta di “movida” di quartiere, di gente che scende per prendersi una birra. Persino l’esperienza di uno spazio occupato come lo Spartaco è atipica, perché tutto sommato è un centro sociale che ha una sua funzione quasi da circolo culturale, dall’osteria al cinema alle varie attività che svolgono, e non è entrato per niente in confitto col territorio.

Come spiegheresti il Quadraro a chi ancora non lo conosce?

Io continuo a inserire il Quadraro nei miei racconti: anche negli ultimi due che ho fatto (“Laika” e “Pueblo”), i protagonisti vanno al mercato coperto di Largo Spartaco. E mi fa sempre strano che nella versione francese l’attore che li porta in scena in Francia e in Belgio parli del Quadraro. Io gli ho detto che a Bruxelles il mercato di Largo Spartaco non lo conosce nessuno, ma lui lo cita ugualmente! (ride, nda). Però va bene, per me quell’angolo del Quadraro è un po’ un riferimento per come dovrebbe essere una città: prendi le case di Via Sagunto e soprattutto quelle di via Selinunte, hanno un principio ben preciso per volontà dell’architetto Adalberto Libera che le ha progettate. Prendendo spunto dalla scuola razionalista da cui veniva, ha pensato a un posto che, a differenza di quanto si faceva negli anni Trenta, non era più costruito dal punto di vista dell’architetto, ma da quello dell’abitante. E questo si vede, si nota che c’è un disegno che non rimane solo su carta o sul plastico, anche quando ci sei dentro: è uno di quei posti in cui porto le persone, perché spiegano molto bene cos’è il Quadraro.