«Modificare una comunità a partire dalla musica». L’obiettivo è ambizioso, ma per certi versi necessario. La comunità può essere quella cittadina, ma in scala anche quella europea. La musica come “nutrimento” della comunità stessa e come volano per far conoscere e arricchire un territorio, per portare l’arte fuori dai soliti luoghi deputati a fruirne. La musica che propone «un modello organizzativo basato anche su una forte vocazione al volontariato», e quindi coinvolge un pubblico sempre più ampio e meno scontato, divulgando competenze e passione. La musica come tema di confronto, per condividere ed evolvere modelli di “consumo” culturali e farli viaggiare attraverso tradizioni, abitudini, generazioni ed esperienze diverse. La contaminazione come faro guida. Queste alcune delle linee di riferimento di un festival ormai storico per il jazz in Italia, NovaraJazz, ma pure di una rete – lo Europe Jazz Network – e il relativo appuntamento annuale, la European Jazz Conference, che quest’anno troverà a Novara la sua casa. Dal 12 al 15 settembre il più importante incontro europeo per addetti ai lavori (e non) in ambito jazz arriva per la prima volta in Italia, con un claim che non poteva essere più azzeccato per il nostro paese e il periodo storico che sta attraversando l’Europa, “Feed Your Soul”. Delle prospettive e delle sinergie passate, presenti e future di questo crocevia culturale ne parliamo con il direttore di NovaraJazz, Corrado Beldì.
Impossibile non partire con un'introduzione su NovaraJazz: come è nato e quali erano gli obbiettivi iniziali?
Il festival nasce 17 anni fa grazie all’incontro con Riccardo Cigolotti, architetto e appassionato, che stava già organizzando dei concerti a Novara. Un aneddoto: Riccardo volle conoscermi perché un sabato mattina da Buscemi aveva trovato un articolo che avevo scritto per ZERO, un pezzo su Matthew Shipp. Tutto partì da quell’articolo e decidemmo di invitare proprio il compositore americano al nostro primo concerto organizzato insieme. Quella scelta era già una sfida, da cui emergeva l’interesse di entrambi per la musica più di ricerca, scelte non scontate unite a un’ambizione europea.
Quali credi che siano le coordinate/caratteristiche principali di NovaraJazz che hanno reso possibile una solidità tale da poter ospitare la Conferenza europea più autorevole in ambito jazz? In particolare quali sono i punti in comune della visione, del claim “Feed your soul”, tra lo spirito del festival e di questa edizione della European Jazz Conference?
In questi anni, passo dopo passo abbiamo costruito lentamente un’organizzazione sempre più stabile, lavorando molto sulle risorse e su un modello organizzativo basato anche su una forte vocazione al volontariato. NovaraJazz è diventato una scuola per i giovani che intendono imparare un mestiere e poi si dedicano ad altro, ma continuano a partecipare. Riccardo e io abbiamo competenze diverse, ma condividiamo una grande passione per la valorizzazione della nostra città: i luoghi di interesse storico, la volontà di portare la musica fuori dai luoghi deputati per far conoscere Novara, le sue bellezze e anche la realtà enogastronomica, ma sempre tenendo la barra dritta sull’impostazione artistica. Questa idea di modificare una comunità a partire dalla musica è in qualche modo il titolo della Conferenza di quest’anno. Un vestito nel quale ci siamo sentiti subito molto comodi.
Per chi non la conoscesse, ci racconti brevemente la storia e soprattutto il ruolo della European Jazz Conference?
Europe Jazz Network nasce 35 anni fa con l’idea di costruire un coordinamento tra alcuni festival europei. Nel corso degli anni il modello associativo è cambiato, oggi l’associazione è fortemente legata al programma sostenuto da Creative Europe e conta oltre 180 soci da tutto il Vecchio Continente, e non solo. Quando ci siamo iscritti cinque anni fa, con l’idea di assumere un respiro più europeo, abbiamo trovato nell’associazione una straordinaria opportunità per apprendere le dinamiche organizzative e curatoriali degli altri operatori europei, anche in materia di temi come l’inclusione sociale, la musica per bambini e i nuovi strumenti per sviluppare il pubblico. In questo contesto la European Jazz Conference, oltre a essere l’incontro annuale dei soci, è anche diventato un modo per portare i riflettori europei su una città e su una tematica musicale. Un ruolo fondamentale per noi lo riveste Enrico Bettinello, rappresentante di Novara Jazz all’interno del Network. All’interno del festival si occupa delle residenze e dei progetti multidisciplinari, qualche anno fa è entrato a far parte del “board” del Network e questo ha accelerato sia l’integrazione, sia la prospettiva europea del festival.
Tu che divori la materia da sempre, come si è trasformato il jazz negli anni? È piuttosto evidente una certa evoluzione, contaminazione ed estensione di questo “genere”, che ha sicuramente avvicinato molto più pubblico e portato il jazz fuori dall’elite (che invero per l'elite non è mai stato...)
Ci sono tanti filoni di grande interesse, il jazz ha nella contaminazione il suo elemento più importante. Pensiamo all’ultima scena londinese, o ai fenomeni legati ad artisti come Kamasi Washington e Shabaka Hutchings: diresti che la musica non è per nulla nuova, eppure ci sono così tanti elementi dello spirito contemporaneo da riuscire a conquistare un pubblico più allargato. Io poi ho una grande passione per il jazz del grande Nord e per tutta la scena olandese, con tutte le implicazioni anche folk e politiche che essa contiene, e continuo a notare una grande vitalità linguistica in quelle zone di Europa. Ma anche a Est e nei Balcani, dove moltissimi giovani consumano musica di ricerca, molto più che in Europa occidentale.
Tra gli speaker di quest'anno ci sono almeno un paio di “esponenti” di festival che hanno sicuramente forti radici nella musica nera, nella contaminazione, ma che non sono propriamente jazz, più festival sperimentali, di ricerca sulla contemporaneità (ad esempio Le Guess Who? e A L’arme). Che tipo di segnale è questo, che tipo di inclusività ha in generale la Conferenza e in particolare quella di quest’anno?
La Conference è proprio un’occasione per capire, confrontarsi con modelli organizzativi diversi: c’è chi allarga oltre il jazz, chi si apre alla multidisciplinarietà, ma anche chi prova modelli diversi per includere un pubblico nuovo. È davvero un pensatoio utilissimo per chi vuole immaginare le strategie del proprio festival, o capire le scelte di chi opera in contesti diversi.
Prendendo spunto da alcune domande a cui si pone di rispondere il festival, in che modo credi che si ascolti, ci si rapporti e si “consumi” la musica jazz e improvvisata nel 21esimo secolo? Tu stesso hai notato cambiamenti in termini di approccio del pubblico?
Anche il jazz subisce le stesse trasformazioni degli altri generi musicali. Il passaggio a un ascolto più mordi e fuggi, la “fine” del CD e il fatto che molti consumatori ormai ascoltino musiche indotte dai device o da piattaforme streaming come Spotify. Tuttavia resistono, e anzi emergono anche, i pubblici di nicchia, frazionati, gli acquirenti dei vinile, i lettori accaniti. Anche i modelli di consumo nei concerti cambiano, hanno grande successo festival contenitore, generalisti, ma parallelamente ormai hanno acquisito popolarità anche i cosiddetti “boutique festival”, eventi che propongono nuovi modi di fruizione: e quindi musica nella natura, musica associata a luoghi di interesse storico, esperienze in cui la musica è “solo” uno degli elementi. Noi stiamo cercando di lavorare su quest’ultimo aspetto.
E dal punto di vista della musica live? Porto un esempio su tutti, magari relativamente "mainstream" ma indicativo: penso a un Kamasi Washington che fa un live di oltre due ore a Roma e il Monk è pieno, il pubblico non esce ma se ne sta tutto il tempo a seguire e ballare, quasi come fosse un evento "POP"; eppure è un live non semplice, non di puro intrattenimento - seppur molto classico ed epico nei suoni. Credi che 10 anni fa sarebbe stato possibile?
Qui si è aperto un varco, non semplice da capire. Come dicevo prima, questa è musica in cui non c’è una grande innovazione ma forse proprio per questo – per la relativa semplicità della proposta sonora accompagnata, però, da un tocco epico – le nuove generazioni sono molto rapide a recepirlo. A volte quando ascolto Kamasi mi chiedo perché non si ascoltano a palate certi dischi degli anni Settanta. Ma poco importa, corsi e ricorsi storici.
Qual è il ruolo della cultura e della musica del rinforzare e nutrire l’anima dell’Europa? Credi che a questo punto una conferenza “Europea” su una musica di origine afroamericana che si è così trasformata negli anni abbia anche una valenza “politica” e sociale, oggi?
Europe Jazz Network lavora sul confronto tra diverse progettualità europee. Ci sono delle linee programmatiche che sono all’interno del programma Creative Europe. Certo, anche noi svolgiamo il nostro piccolo ruolo. Le iniziative del Network sulla musica per migranti e sull’inclusione sociale si stanno diffondendo, ormai molti festival non possono fare a meno di interrogarsi su queste tematiche. I frutti cominciano a vedersi.
La Conferenza nasce in Italia nell’87 per poi abbracciare le realtà e la contemporaneità del resto dell’Europa e trasferire la sede in Francia. Che tipo di ruolo ha l’Italia in questo settore, ci sono vari festival jazz come del resto anche vari “boutique” festival di altri generi musicali che rendono il nostro Paese un terreno fertile per i festival di “esperienza” (come del resto è Novara Jazz)? L’Italia ha una sua autorevolezza, come è cresciuto il suo ruolo negli anni e che tipo di margini di crescita ci sono in tal senso, in termini di capofila di fenomeni culturali che possono avere un impatto reale sulle persone, sul concetto di condivisione e scoperta che la musica ha per sua natura?
L’Italia ha un grande patrimonio di festival molto diversi tra loro, anche grazie alle caratteristiche culturali, morfologiche e naturalistiche del paese. Negli anni abbiamo voluto rafforzare, anche attraverso l’associazione italiana I-Jazz, questa grande ricchezza progettuale: dalla Valtellina alla Valle dei Templi, un calendario di un anno attraverso cui qualunque appassionato di musica al mondo potrebbe girare l’Italia senza fermarsi mai.
Ci sono dei festival in Italia ed Europa con cui Novara Jazz sente delle particolari affinità o comunque intenti e obbiettivi simili?
Guardiamo con interesse soprattutto ai festival che lavorano la musica nei luoghi naturalistici e alle migliori esperienze sul jazz per i bambini, un altro filone cui stiamo investendo molto. Da un punto di vista delle scelte artistiche invece i riferimenti sono eventi come l’International JazzFestival Saalfelden, il Konfrontationen di Nickelsdorf (entrambi austriaci, NdR), il Vision di New York, alcuni festival di “performing arts” ma anche festival generalisti come il Vancouver International Jazz Festival, che hanno grande attenzione alla musica di ricerca.
Quella jazz è una comunità forte in Europa? È frammentaria, con dei filoni, e/o con una sua unità?
In Italia negli ultimi anni abbiamo cercato di costruire un percorso federativo, per unire festival, musicisti, jazz club, etichette e ora anche operatori tecnici come ad esempio fotografi o i formatori scolastici. Purtroppo di tanto in tanto ci sono delle spinte centripete, alcuni che cercano di percorrere percorsi autonomi, ma il nostro lavoro è quello di unire per creare un sistema più forte.
A questo punto parlaci del programma di questa edizione, quali sono gli highlight e gli speaker “chiave” e cosa porteranno di nuovo sul “tavolo” della Conferenza.
Oltre a diversi workshop davvero interessanti, sicuramente gli highlight sono i due “keynote speakers”. Di Yun è l’esempio di una compositrice cinese che sta avendo successo a New York, a cavallo tra la musica contemporanea e il pop, davvero un’artista globale di questi tempi. Tania Bruguera invece porta il suo messaggio di artista militante, che lavora sulle grandi tematiche del nostro tempo, dalla migrazione all’inclusione sociale, già approntate in mostre personali e collettive nei più importanti musei del mondo.
Ci saranno anche concerti e proposte live particolari, pensate per mettere in pratica il senso “comunitario” di questa edizione?
Innanzitutto la Conferenza è aperta alla città, a parte i moduli a iscrizione, quindi sarà possibile assistere a concerti dove presenteremo il meglio del jazz italiano. Attraverso una selezione abbiamo individuato i più talentuosi gruppi italiani sotto i 35 e sotto i 45 anni, ci sarà poi una serata di gala con Franco d’Andrea e Gianluca Petrella, due diverse generazioni ma entrambi fra il meglio del jazz italiano da esportazione; presentare queste musiche davanti a 400 operatori europei è un’occasione senza precedenti per far conoscere i nostri musicisti. E poi un ricco programma Fringe cui hanno voluto contribuire alcuni festival italiani. È davvero una grande ricchezza.
Quali credi potrebbero essere i temi futuri di una Conferenza del genere, quali credi possa essere il futuro della musica live e in particolare l’idea di “festival del futuro”? Credi che le proposte musicali e i “pubblici” saranno sempre più misti, con meno barriere tra i generi?
Non c’è una regola ed è questo il bello, ciascuno costruisce un proprio modello e lo adatta alle condizioni del proprio territorio. Ciò che mi colpisce di più, però, è come sempre di più vi sia la consapevolezza di quanto un festival possa provare – attraverso la musica in tutte le sue indicazioni, anche sociali – a cambiare la società in cui viviamo. È questa la sfida del futuro.