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Filippo Palazzo – Asian Fake

L’etichetta discografica senza confini

quartiere Centrale

Scritto da Paolo Bontempo il 12 febbraio 2022
Aggiornato il 23 febbraio 2022

Foto di Luca Grottoli

Asian Fake è un’etichetta indipendente che in breve tempo ha creato un mood personale e potente, imponendosi nel panorama musicale. Coma_Cose, Venerus, Inoki, Frenetik&Orang3 sono solo alcuni dei nomi che girano all’interno del suo roster. Filippo Palazzo, CEO e co-founder, ci ha parlato del presente e del futuro della label, alla costante ricerca di nuove connessioni e oltre qualsiasi confine.

«Siamo arrivati senza nessuna barriera culturale, preconcetto o preclusione, il che ci ha portati a fare un po’ come cazzo ci pareva

Partiamo magari dalle origini di Asian Fake, come nasce e come avete fatto a costruire un’immagine di questo tipo?

Ciao Zero, Asian Fake nasce nel 2017 con un progetto molto chiaro. Banalmente l’idea era quella di non seguire un iter prettamente discografico, ma di partire dalla musica come linguaggio universale e accessibile per parlare a tanti mondi vicini e mischiare tutte quelle espressioni artistiche che – sempre di più – già dialogano tra loro. L’immagine della label è piuttosto potente perché abbiamo scelto colori molto forti per raccontarla e per diversificare il più possibile la nostra linea rispetto al resto. La cura abbastanza maniacale dell’estetica, fin dall’inizio è stata e credo resti uno dei nostri punti di forza e di ricerca. La nostra comunicazione è gestita e pensata in maniera spesso e volentieri editoriale, come si fa per esempio nella moda, nell’editoria o nella comunicazione di una mostra. Nulla deve essere brutto o fuori posto per non indebolire l’artista e il progetto che sta passando. 

Raccontateci un po’ del vostro lavoro. Per esempio, come lavorate con gli artisti che avete nel roster?

I nostri artisti godono di una grande libertà. Da quando firmano a quando pubblichiamo, gli step sono pochi e abbastanza essenziali. Il grosso del nostro lavoro è quello di capire come massimizzare il loro mondo e quello che rappresentano, cercando di non snaturarli mai o di non imporre scelte che siano fuorvianti per il loro linguaggio e la loro estetica. C’è la scelta dei brani sui quali puntare e poi il loro mondo da tirar fuori e capire come raccontarlo nel modo più immediato (foto, grafica, video, strategia media, e così via).  

Proviamo a entrare nello specifico. Come entrate in contatto con i vostri artisti? Mi vengono in mente al volo due nomi giovani come Memento e Ginevra, se vi va di parlare un po’ di loro, oppure se avete in mente qualche storia in particolare… noi ascoltiamo!

Di base i processi sono parecchi, un po’ è scouting diretto, altro modo è link di PR personali che ci portano a scegliere una strada con un artista ecc… Ogni artista ha la sua storia e spesso c’è sempre qualcosa di speciale che li porta a noi. Nel mio modo di lavorare c’è tanta ricerca e spessissimo altrettanta condivisione con altre realtà che apprezzo. I criteri per arrivare alla firma sono tanti, e più passano gli anni più è importante capire subito chi può effettivamente diventare un membro della famiglia e starci bene. Dopo qualche anno, ho capito che avevamo – e col tempo abbiamo avuto sempre di più un certo tipo di feeling con artisti estremamente sensibili e capaci di percepire e fotografare la contemporaneità in modo assurdo. Memento, che citi, ha 19 anni e fa la quinta Liceo, ma capisce e quindi dice delle cose in maniera talmente interessante che ti fa intravedere il futuro di una generazione. Con lui il rapporto è nato un anno e mezzo fa, e quando ci siamo sentiti al telefono la prima volta (aveva 18 anni) mi fece una bellissima impressione per la serietà e la correttezza che mi aveva fatto capire nei primi 10 secondi di conversazione. Ginevra è semplicemente uno dei migliori spot per chi oggi volesse fare musica di qualità senza dimenticare che si possono vendere dischi e fare concerti semplicemente mettendo in un progetto tutto ciò che si chiama background, senza copiare le vite degli altri. Ecco, di Gin posso dire che è un’artista libera e che presto scriverà una pagina importante della sua carriera con un disco clamoroso.  

Ecco, posso dire che quando non sento qualcosa di già sentito sono più attratto, un po’ controcorrente, ma in fondo questa è sempre stata la nostra rotta di navigazione.  

Si può dire che, invece, con artisti come Inoki, vi siate ritrovati a dover fare una sorta di scouting al contrario? Insomma, Inoki è un nome che ha bisogno di poche presentazioni. Com’è nato il rapporto fra voi? Come si è inserito nella “family”?

Fabiano oggi è un mio amico, una persona che ho imparato a conoscere e ad apprezzare in questi due anni di lavoro insieme. Ho imparato un sacco di cose da lui ed è un pozzo di cultura da cui attingere ogni giorno per chi, come me, apprezza ed è cresciuto in un periodo storico bellissimo e ricco di momenti indelebili di aggregazione. Il nostro rapporto è nato grazie ad un mio amico, Karkadan (visionario), che un pomeriggio mi raccontò di essersi sentito con Fabiano, il quale aveva voglia di fare musica nuova. Sono sincero, appena ho pensato al possibile lavoro, ho subito immaginato a tutto quello che lui rappresenta per un certo tipo di mondo, e come detto prima, oggi più che mai vince e convince, resta e fa bene solo chi ha comunque il suo background e Inoki diciamo che non deve invidiare o chiedere permesso a nessuno. Il resto è venuto da sé e “Medioego” credo sia un disco importante che difficilmente non durerà. Nella family poi si è inserito alla Fabiano, giornate scandite da chat di lavoro piene di punch line e note vocali utili per skit magari tra un paio di album.  

Al netto di tutto è uno che si è fatto il culo e sa lavorare sempre al massimo, posso dire, grande professionista che si è fatto voler bene da tutti.

Raccontateci anche un po’ di voi, cosa facevate prima, come siete finiti a Milano e magari anche come è nata la vostra sede in viale Tunisia 39.

o sono nato a Pavia e lì mi sono laureato in Relazioni Internazionali, perché volevo fare il giornalista di guerra. Poi, per una serie di motivi sono finito definitivamente a Milano per lavorare come booking agent e promoter indipendente, ormai più di 10 anni fa. Il mio percorso è sempre stato abbastanza atipico, ho fatto varie esperienze lavorative, nella pubblicità prima e nel mondo della moda poi, ma la mia vera passione era comprare dischi, fare il dj e ritagliarmi il mio spazio, senza avere enormi ambizioni di farlo diventare il mio lavoro. Tutto il mio percorso mi è servito per sviluppare il senso d’insieme delle cose e saper organizzare tutto da zero, scegliere la direzione artistica per me e per le mie cose mi ha fatto capire forse – cosa avrei potuto fare in futuro. La scelta degli artisti da far suonare, lo scouting maniacale che facevo, mi ha portato qua oggi ad avere un’etichetta e a esplorare sempre nuovi mondi musicali

Asian Fake è conosciuta per il suo approccio inusuale alla musica, basti pensare all’uscita con il fumetto del 2018 e rendersi conto che c’è una voglia di smantellare tutta una certa omologazione che striscia nelle metropoli, con l’idea di confondere i confini e forse di crearne di nuovi. Come sta andando la lotta per un nuovo paesaggio di sonorità urbane?

In effetti AF è nata in maniera atipica, di base perché per formazione, nessuno di noi tre fondatori (Yuri Ferioli e Daniele Mungai – aka Frenetik) arrivava da esperienze tecnicamente parlando 100% discografiche, con le convinzioni tipiche della casta. Siamo arrivati senza nessuna barriera culturale, preconcetto o preclusione, il che ci ha portati a fare un po’ come cazzo ci pareva. Siamo arrivati nel game totalmente da outsider, a partire dal nome, che già di per sé doveva distaccarsi dalle omologazioni e dai cliché di ruolo. Per noi i confini non c’erano e tuttora non ci sono, perché stiamo scrivendo in prima persona un pezzo della nostra storia, senza ricalcare quello che hanno già fatto altri prima di noi.  

Non abbiamo la presunzione di creare nuovi modelli, ma sicuramente vogliamo essere da esempio per chi ha le proprie idee e si sente lontano dalla community. A tutti questi vogliamo dire: “Fallo perché niente è più bello di coltivare liberamente le proprie idee”.  

L’approccio è stato nel 2018 con un comics, nel 2022 magari ci sarà un lancio 2.0 della label verso nuovi orizzonti, chissà… 

Sembra che anche per molti vostri artisti il legame con la città sia molto importante, penso ai Coma_Cose e alla quantità di riferimenti nelle loro canzoni. Quanto è importante, invece, per voi?

Per me in modo particolare è fondamentale perché Milano è la città che ho sempre vissuto come banco di prova per capire se ci potessi stare. Per chi come me veniva dalla provincia – hinterland, Milano era quasi respingente, fredda, avversa. Tutti i giorni ti mandava un messaggio di sfida – se lo sapevi cogliere – e ti metteva alla prova. Poi però, quando ti ha capito, non ti delude più, anzi, ti  dà l’energia per migliorarti ogni giorno perché ti connette a persone che possono stimolarti sempre. Quando giravo a Milano da bambino desideravo crescere in fretta per poter fare le cose che facevano i ragazzi più grandi me, avere le loro stesse possibilità: rubavo con gli occhi tutto quello che vedevo. In un certo senso Milano mi ha educato e forse mi ha reso quello che sono oggi.  Posso dire che le sono grato e che il forte senso di appartenenza è, più che altro, gratitudine per le occasioni che mi ha dato. 

Come vivete la zona? Che effetto fa uscire dall’ufficio e trovarsi davanti i palazzoni di Piazza Repubblica e a due passi Stazione Centrale?

Di base siamo un po’ i custodi di tutti i marciapiedi di Repubblica e viale Tunisia. Siamo tutti sempre in giro a telefonare come forsennati. È divertente fare 10km al giorno con le air pods, finché non si scaricano. Passa un sacco di gente davanti al nostro ufficio e vediamo qualsiasi cosa, è una finestra veramente real sulla gente di Milano oggi. Passiamo da clochard stilosi tipo skater, a tossici, a modelle della vicina next model, a turisti che sbarcano a Centrale e ci chiedono sempre: «Dove sta via Casati?». Chissà che c’è in via Casati… Poi io da Milanista la zona me la vivo sempre con ironia perché affacciamo praticamente sulla sede dell’Inter con il suo maxi logo che mi guarda tutte le sere quando vado a prendere la metro. 

La vostra sede è stata utilizzata non solo come ufficio ma spesso per organizzarci degli eventi, che si sa: è un modo per aprirsi alla città e ai suoi paraggi. Quanto è importante questa dimensione di spazio di incontro per un’etichetta come la vostra?

Lo spazio che usiamo di solito è il Basement dell’ufficio che abbiamo battezzato come Bunker. Ci organizziamo/organizzavamo spesso presentazioni di dischi, ep, singoli, mini live, showcase per stare tutti insieme. Tanti progetti sono stati lì per la prima volta a contatto con il pubblico di amici, addetti ai lavori o semplici curiosi. Penso a Coma_Cose, Venerus, Sxrrxwland, Maggio, Memento… tutti loro hanno fatto lì dentro qualcosa di magico che per chi c’era resterà sempre un  bel ricordo.

Rimanere indipendenti crescendo, questa credo sia una grande domanda da porvi, considerando la quantità e la qualità di artisti che avete sotto la vostra ala. Come si gestisce una crescita del genere? A me sembra che surfiate il pop senza mai cadere dalla tavola, mettiamola così, ma non dev’essere semplice.

La sfida è molto stimolante perché, non ci dobbiamo mai dimenticare che tecnicamente noi esistiamo da appena 4 anni e qualcosa, in così poco tempo sono cresciuti bene molti artisti e questo è un dato di fatto. Quando un progetto prende forma, senza doping, e diventa un culto in maniera naturale, significa che tutto il team ha fatto un lavoro importante. La crescita si può gestire solo cercando di alzare il livello della squadra parallelamente a quello degli artisti. È impensabile non investire in struttura, noi infatti siamo 14 persone a lavorare in etichetta. La sfida è seguire il ritmo e dare sempre stimoli e supporto agli artisti.

Con Hyperlocal ci siamo resi conto che è difficile definire i confini di ogni quartiere, ed è una questione di geografia e traiettorie, figuriamoci spazi altri. E per l’appunto, mi sembra possa essere una bella immagine anche per Asian Fake. I vostri confini, per esempio, dove sono? Quali sono? Dove prevedete di spostarli in futuro?

I confini per nostra natura non li vediamo, o per lo meno, cerchiamo di vedere connessioni tra mondi dove magari altri non vedono perché per pigrizia o per piattezza culturale non li vanno a esplorare. Ecco, di sicuro per il nostro futuro, in un mondo molto segnato e cambiato dagli ultimi due anni, non ci vediamo ad aspettare che le cose arrivino, ma le connessioni e le nuove opportunità ce le andremo a conquistare con la libertà e la curiosità che ha caratterizzato i primi passi del nostro lavoro.