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Guido Cagiva

Una città è tutte le città: Guido Cagiva racconta il suo nuovo singolo “Per la città”

quartiere Lambrate

Scritto da Danilo Gambara il 24 marzo 2022

Foto di Dario Sbattella

Chi è della generazione Z sa bene che la lontananza è una condizione primaria. Consustanziale all’esistenza nel XXI secolo. Per scelta o necessità si deve dimenticare il concetto di casa, persa in centinaia di chilometri di distanza, e diventare un po’ nomadi, girovaghi nel mondo. Da qui partiamo con l’intervista a Guido Cagiva, artista da pochissimo entrato nelle fila di Asian Fake. Bari, Amsterdam, Londra e infine Milano: perché, come recita una barra del suo nuovo singolo “Per la città”: «Non sai che si fa per prenderci ciò che a casa ci mancava». E ogni città è sempre qualunque altra, esplorata o ricordata nelle lyrics, nelle sonorità Lo-Fi e nei flow originali del percorso di Guido.

«La città di cui parlo io è la città dentro la città, quella che trovi in tutti i posti.»

“Per la città”, singolo in uscita venerdì 25 marzo, è un omaggio all’entità delle città: luogo fisico e metafisico, strada e al contempo percorso di vita.

Foto di Dario Sbattella
Foto di Dario Sbattella

Chi è Guido Cagiva? Da dove arriva? Che percorso ha?

Guido Cagiva ha quasi 25 anni, viene da Bari ed è nato e cresciuto lì per poi partire a 18 anni per l’Olanda e dopo per Londra. Ho lavorato all’estero, e soltanto dopo ho scelto di tornare qui. Mi sono voluto fermare a Milano perché tra tutte, in Italia, è la città un po’ più europea. Qua ho ripreso a fare la musica che avevo cominciato a fare da ragazzino a Bari, che poi avevo interrotto per necessità lavorative. Il tempo per fare musica era sempre meno, e soltanto tornando a Milano mi sono reso conto che questa roba esiste, che con la musica ci puoi guadagnare davvero, che gli artisti sono persone reali e non entità lontane. Ho capito che la cosa che facevo da ragazzino potevo farla e realizzarla anche nella città che avevo scelto, ovvero Milano.

Dicevi che hai fatto diversi lavori, quali?

Ho sempre lavorato in cucina, soprattutto – come tanti – a Londra. Qui a Milano mi è capitato di fare il piastrellista, il fattorino per le consegne, insomma tutto quello che trovavo, che però mi lasciasse più tempo libero possibile, cosa che era molto difficile prima quando ero in cucina. Preferisco i lavori in cui posso scegliermi gli orari liberamente, tipo il rider, ma in ogni caso ho fatto davvero un po’ di tutto.

Come sei finito da Asian Fake?

Quando sono tornato da Londra ero un po’ esterno al mercato musicale. Conoscevo poco le varie realtà e gli artisti emergenti, perché al mio ritorno quelli che ricordavo come tali erano enormi. Poi Filippo Palazzo mi scrisse nei Dm che spaccavo. Pensa che io non avevo idea di cosa fosse Asian Fake. Fu Strage a dirmi che l’etichetta lavora con Sony, che sono una bella realtà, che sono bravi. Ho continuato a parlare con Filippo, e alla fine abbiamo fissato un appuntamento proprio per il primo giorno di lockdown.

Quando misero in piedi il progetto Hanami, che era tutto da remoto, ero chiuso in casa e lì era già successo qualcosa, ma era come se non l’avessi vista e quindi non sembrava reale. [Il brano “Stonato–prod. Strage”, pubblicato a giugno 2020 all’interno dell’album collettivo “HANAMI”, segna l’ingresso di Guido Cagiva nel roster di Asian Fake.] A giugno finalmente tutto si è sbloccato, ho firmato e abbiamo iniziato a lavorare sul mio primo Ep che è uscito ad aprile 2021, Mezza Vita.

 

 

Com’è nata “Per la città”? Quali sono le suggestioni che stanno alla base del testo? E chi è Pierpaolo, alla fine della canzone?

Pierpaolo è un mio bro, mio fratello, uno dei miei tre migliori amici di Bari. Due si sono già spostati, ma lui è ancora giù per cui c’è ancora tanta tristezza; tutti i pensieri che hai per le persone che hai lasciato lì, chi se la passa bene, chi se la passa peggio. “Per la città” è quella roba lì, non è tanto per la città in sé ma per le persone conosciute quando eri bambino, mentre crescevi, e anche quelle che ti hanno fatto del male perché alla fine ti hanno fatto crescere. Per l’ispirazione è bastato pensare a tutto ciò che ho vissuto fino a oggi: da Bari a Londra, da Amsterdam a Milano, le città hanno molte somiglianze, che siano a Nord o a Sud o in stati diversi. La città di cui parlo io è la città dentro la città, quella che trovi in tutti i posti. “La strada giusta e la strada sbagliata” è per questo motivo: i quartieri sono uguali, alcuni con meno possibilità di altri, ed è lì che si sceglie la strada sbagliata. Spesso chi ci si ritrova non è neanche consapevole di averlo fatto. Quella giusta, però, è spesso anche quella più complicata.

È doveroso chiedere: qual è la strada giusta? Soprattutto qual è quella sbagliata?

È un concetto non troppo definito, per cui oggi vediamo giusto e sbagliato in base alla società. Giusto e sbagliato non hanno una definizione, sono concetti troppo vasti. La strada la intendo come vita, come scelte da fare, e nessuno può dire qual è quella giusta o quella sbagliata. Devi guardare alla situazione, viverla e capire tutto il contesto che c’è intorno, prima di poter decretare.

 

Nella canzone traspare il legame che hai con i luoghi in cui hai vissuto. Relazioni fatte di abitudini: parli di “stesse strade”, “altro concerto, altra nottata, altra puttana, altro gin tonic”. C’è una vita mondana che si ripete in continuazione, ovunque? L’eterno ritorno delle città? Come si scappa?

Dipende se vuoi scapparne, nel senso che la vita mondana non è quotidiana. Girando in varie città, la quotidianità è sempre quella roba lì. Quella barra che citi non è felice: ti fa capire che stiamo facendo il concerto – cosa che per me è stato innanzitutto un grande cambiamento –, che stiamo facendo le robe, ma manca qualcosa, ad esempio la tipa: «altro concerto, primo tour e non ci sei tu». Stiamo facendo questa cosa, ma quanto siamo realmente soddisfatti? La stessa abitudine la riscontri anche a livello pratico: «altro gin tonic» o «altra nottata». Mi sono reso conto che se vuoi fare il cantante e avere un live ogni giorno o ogni due, non puoi permetterti di fare quella vita per sempre. Rischio di perdere la voce, perché se comincio a far festa la faccio per davvero. Questo è un punto che sto scoprendo. Inizialmente ti immagini che facendo l’artista puoi fare quello che ti pare, ma spesso è un lavoro molto più complicato degli altri. Se perdi la voce hai perso del lavoro.

Una cosa molto complicata nella musica è la relazione che si può avere con gli altri artisti, trovare il feeling spesso non è facile. Tu hai collaborato con Marco Skivo, Iulian Dmitrenco e Strage. Com’è lavorare con loro? Come vi siete conosciuti?

Io sono per il “pochi ma buoni”. Frequento gli stessi amici di sempre, ed è difficile che una persona possa entrare nel gruppo solidamente. Stessa cosa per la musica: è molto personale. Ho bisogno di gente che capisce e che si fa capire, e con loro tre è stata una pacchia. Strage l’ho conosciuto quando eravamo ragazzini, è di Bari anche lui. Pensa che ho registrato la prima canzone nel suo studio. Da piccolo era per me uno di “quelli grandi”, della generazione precedente, che faceva quello che volevamo fare tutti – e ai tempi in città eravamo pochi. Skivo invece l’ho conosciuto a Milano, è il mio coinquilino e si è conquistato un bel posto nel cuore. Da quando si è trasferito qui, abbiamo cominciato a lavorare per il nuovo progetto. Poi si è unito Strage e in ultimo anche Iulian, che ho conosciuto tramite l’etichetta ed è una persona d’oro con cui mi sono trovato bene da subito. Lui ci ha dato una grossa mano su alcuni lavori, in particolare in questo, che inizialmente hanno creato lui e Skivo e soltanto dopo si è aggiunto Strage. Questa è l’unica traccia che è stata fatta in questa maniera, tutti in studio a produrre, io a scrivere, registrata e portata a casa.

Come si usa dire: “fare un disco è come fare un figlio”, e anche fare un singolo non è da meno. Hai rituali per festeggiare questi momenti?

Non è uscita molta musica e quella che è stata pubblicata è dell’anno scorso, quando ancora era tutto strano. Quindi di festeggiamenti non ce ne sono stati, non ho ancora rituali, ma da questa uscita in poi li potremmo chiamare così. Abbiamo molta roba pronta che faremo uscire piano piano e che festeggeremo sicuramente. Una bottiglia di prosecco stappata è abbastanza per un singolo. C’è ancora tanto lavoro da fare, quindi i festeggiamenti veri ci saranno più avanti.

 

Hai avuto reference, stili particolari, artisti o canzoni che ti hanno ispirato queste sonorità?

Ciò che c’è di particolare è una ritmica tipica del melodic-drill, elementi che rimandano a qualcosa che io non ho fatto e che non è il mio genere, ma non lo percepisci neanche. È una canzone molto libera, nata con l’idea di fare un coro da stadio – nel senso che tutti potessero cantare –, che fosse un mantra per la città. Un ritornello urlato: questa è l’idea che mi ha portato a scrivere qualcosa con l’idea di coralità. Quel concetto di gruppo di cui parlavamo prima, per cui psicologicamente cantare assieme ti sblocca, ti porta a essere più amici, più disinibiti. Questa canzone è ispirata alla condivisione, alla città, alla gente e al quartiere piuttosto che alla musica.

Vuoi aggiungere altro?

Qualche sera fa insieme ai ragazzi di Asian siamo andati in giro per Milano, passando per quei posti che frequento di più. Via Porpora, che è dove abito, da Miah Alimentari; il Love, dato che lo frequentavo sempre; l’osteria pugliese Pasta e fagioli; corso Buenos Aires e anche Piazza Leonardo. Lungo il tragitto abbiamo lasciato una mappa con un QR code, chi lo troverà potrà ascoltare in anteprima sul mio canale Telegram “Per la città”. In generale, però, non si può dire che da quando sono qui abbia vissuto la vita “mondana”, sono sempre stato tra casa o studio, quindi ho scelto questi luoghi perché per me sono i più familiari.