Ad could not be loaded.

Gianni Gentile e Kuthi Jin, direttori artistici del CURA festival

Il sud Italia, i tempi che cambiano e il ritorno alla propria terra con proposte sregolate: questo più un report fotografico del CURA 2023

Scritto da Tommaso Monteanni il 6 settembre 2023
Aggiornato il 7 settembre 2023

Jugodefauto, CURA 2023

È inizio agosto e fa caldo. L’orario non aiuta, è primo pomeriggio post pranzo. Sto per collegarmi in videocall, dove, dall’altra parte della rete, troverò Gianni e Giancarlo seduti in terrazza nel mezzo della campagna amara pugliese, provincia di Brindisi, dove c’è poco campo e i grilli cantano lasciandoti con l’impressione che non abbiano mai smesso. I ragazzi hanno in programma un sopralluogo alle Cave di Fantiano, location spettacolare pronta a diventare microcosmo per i giorni del 25 e 26 agosto, dove prenderà vita la seconda edizione del CURA festival, manifestazione unica nel suo genere e difficilmente paragonabile ad altri festival dell’estate italiana.
Per chi non li conoscesse, Gianni Gentile è organizzatore e testa collante dietro a tutte le dinamiche che vanno dalla produzione alla direzione artistica del festival, nonché fondatore di Southern Mistakes, collettivo che sta dietro l’organizzazione del CURA.
Kuthi Jin, moniker di Giancarlo Brambilla, è head dell’etichetta CLAM e direttore artistico dell’omonimo stage del festival.

ad oggi la Puglia si è arricchita dal punto di vista di ricerca, personaggi che fanno musica attivamente e maggiore curiosità del pubblico verso l’ignoto

Dopo una prima edizione da newcomer nel panorama dei festival dove ha riscosso un’importante successo all’interno di una nicchia legata a sonorità spinte tra il dance e la sperimentazione d’ascolto, il CURA si è preparato a tornare con un’edizione che è stata un vero e proprio continuum di quella precedente, a partire dall’estetica dell’allestimento fino ad arrivare alle sonorità. Mi sono fermato insieme a loro per una lunga chiacchierata in cui il focus costante è stato il sud Italia – quello pugliese nello specifico -, come questo sia cambiato nel tempo e come ad oggi sia possibile e necessario provare a portare un’offerta alternativa da quella che si è standardizzata nel tempo, per poi chiudere con un’immancabile discorso sull’infinita contrapposizione tra underground mainstream.

Le foto sono state scattate da: Antonio Giancaspro, Francesco Speranza e Alessandro Timpanaro.

Tommaso Monteanni: Partiamo dalla domanda più semplice, perché il festival si chiama “CURA”?

Gianni Gentile: Ci sono due versioni valide: la prima, più romantica, ha un significato più concettuale dove in un momento in cui la Puglia sta vivendo un’inflazione a livello di numero di festival e di prezzi alle stelle di queste manifestazioni, il nostro festival voleva appunto essere “la cura” a questa situazione; l’altra versione risale a quando organizzavamo eventi prima del festival, dove un altro organizzatore di Ceglie venne da noi dicendo “voi fate la musica scura, non mi piace” e da scura è diventato cura.

TM: Visto che mi hai parlato di eventi che organizzavate prima del festival mi piacerebbe parlare di genesi del festival: come nasce e da dove arriva il CURA?

GG: Abbiamo iniziato a organizzare eventi di piccola dimensione, “festini techno”, nel 2018. Li facevamo in posti diversi, cambiavamo spesso location. Le cose hanno iniziato a girare e si è generata un’onda per cui si è creato sempre più hype attorno a questi eventi, il pubblico aumentava e nel 2019 abbiamo deciso di fare una rassegna: tre eventi spalmati su tutta l’estate. Poi lo stop del Covid, e la prima edizione del CURA come festival. La location delle Cave è venuta fuori cercando fra vari posti e appena ci siamo imbattuti abbiamo capito subito che quello era il posto giusto.

TM: Com’è nata la collaborazione con CLAM?

Kuthi Jin: Ci siamo conosciuti l’estate precedente alla prima edizione e abbiamo iniziato a ragionare sulla collaborazione durante un incontro pseudo-fortuito a Roma.

 

GG: Quando ci siamo beccati a Roma quella volta abbiamo deciso di collaborare allargandoci con un secondo stage.

 

KJ: Sia io che Riccardo – Voronhil, altra metà di CLAM, NdR – avevamo già una prospettiva e delle idee in merito all’organizzazione di eventi e in generale sulla curatela di line up, sviluppate in maniera organica nel tempo grazie al lavoro fatto con l’etichetta, agli scambi con i nostri amici e musicisti della scena Milanese, ma anche dopo i vari viaggi e date fatte all’estero. Quando ci siamo incrociati con loro non abbiamo fatto altro che allineare le idee inserendo la nostra proposta all’interno di quella del festival.

TM: Da fuori l’impressione è che ci sia una buona fetta di pugliesi a Milano affini a livello di gusti e/o di scena musicale, e che il CURA voglia essere la valvola di sfogo per questa scena e per ritornare a fare musica a casa. È corretta questa percezione?

GG: L’idea è esattamente fare le cose a casa tua, proprio perché essendo tale padroneggi meglio il territorio ed è più semplice accedere ad alcune risorse, ovviamente con tutte le difficoltà altre del caso. C’è poi anche un lato di community e di lavoro sul territorio: ad esempio fare eventi a Milano significa farli in un posto che a livello di offerta culturale è molto più avanzato rispetto a qua, di conseguenza fare un certo tipo di eventi qua diventa un impegno sul territorio, cercando di portare un’offerta che potenzialmente per un giovane può anche diventare una discriminante nello scegliere se rimanere a studiare a casa perché c’è già un’offerta che lo soddisfa, oppure se spostarsi e andare a studiare fuori sede.

 

KJ: Al pugliese piace tanto esportarsi al di fuori del proprio territorio quanto avere poi quella presa sullo stesso; personalmente in tutti gli spostamenti e giri che ho fatto attraverso la musica ho sempre immaginato che avrei riportato tutti questi mondi in Puglia, proprio per il legame viscerale che abbiamo con la nostra terra.

 

GG: È una questione che riguarda tutto il meridione: siamo in un territorio dove la maggior parte delle menti, nello specifico dei creativi, se ne va perché non vede qui un posto dove potersi sviluppare e creare. Ovviamente non credo che la gente debba necessariamente rimanere, ma non dovrebbe neanche sentirsi obbligata a uscire per mancanza di stimoli. In questo discorso vanno poi tenute in considerazione le stagioni: ormai la Puglia d’estate è diventata un posto super inflazionato con un’enorme offerta di eventi e di festival, mentre da metà Settembre fino a Maggio dell’anno dopo c’è il deserto e si vive in una maniera che non è entusiasmante. Gli unici posti in cui rimane un po’ di movimento sono le città più grandi come può essere Bari, e penso che l’idea di rimanere deve essere legata al ragionare su queste città più vive.

 

KJ: Il problema invernale è proprio uno dei motivi per cui me ne sono scappato ai tempi, ma credo che la Puglia di oggi sia molto diversa rispetto a quella di quando me ne sono andato. Prima c’era poco spazio per ciò che non fosse…

 

GG: Lu sule, lu mare, la tech-house” – ride, NdR.

 

KJ: Esattamente, ma penso che a oggi la Puglia si sia evoluta e arricchita dal punto di vista di gusti, della ricerca, di personaggi che fanno musica attivamente e di maggiore curiosità del pubblico verso l’ignoto… ma è ancora una lunga strada!!!

 

Blackhaine a CURA 2023

TM: E secondo voi cosa è cambiato nel tempo che ha portato il crearsi di queste nuove situazioni o questa nuova mini scena? E che soprattutto ha portato voi a pensare che ci sia del terreno fertile per spingere un certo tipo di offerta.

GG: Secondo me c’è molta più consapevolezza di quello che è un territorio che fino a qualche anno fa era considerato “sud Italia” con accezione negativa. Credo che ci sia stato un netto cambiamento soprattutto grazie alle politiche culturali instaurate da Nichi Vendola, che hanno fatto un lavoro incredibile su turismo e cultura. Ad oggi siamo diventati un punto nevralgico dell’estate e chiunque ora passa dalla Puglia, di conseguenza c’è anche tanto hype a livello di eventi, e se inizialmente si era legato soprattutto attorno a una scena musicale più stagna e improntata su un’immagine di “aperitivo in spiaggia”, di riflesso se c’è il male c’è anche il bene e si stanno creando delle situazioni più underground. E non parlo del CURA, ma di feste ancora meno conosciute, come potevano essere quelle che facevamo nel 2018, dove venivano cento persone massimo con cui comunicavi attraverso canali alternativi, come messaggistica o piccolissime pagine instagram; queste situazioni rappresentano un’offerta alternativa per un pubblico che non si ritrova negli eventi più commerciali. Un altro discorso importante va fatto riguardo i prezzi: la Valle d’Itria sta diventando una zona con festival in cui paghi l’acqua dai cinque ai sette euro, o servizi base come il parcheggio otto euro. Io mi chiedo in questi casi cosa fanno queste manifestazioni per il territorio che non sia lucrare su questo; diventa una sorta di colonialismo dove dato l’hype del momento si affacciano persone che vogliono investire sul territorio perché va di moda, venire a fare i loro interessi per poi andarsene, perché a loro del territorio non frega nulla. È ovvio che a livello strategico-economico è più facile fare un evento in cui chiami quattro artisti, piuttosto che trenta, e fai numeri più grandi dei nostri proprio grazie a quell’artista techno che si ascoltano tutti i ragazzini, ma il discorso della parola CURA è proprio di evitare quello.

 

KJ: Nello sviluppo di una certa scena penso che internet abbia giocato un ruolo non indifferente, e ovviamente non solo in Puglia. Il diffondersi di queste sonorità ed estetiche weird hanno portato un’abitudine a un certo tipo di sregolatezza che ora inizia a vedersi anche all’interno del mainstream. Negli ultimi anni il mondo underground con le sue nicchie, ha iniziato a mescolarsi sempre di più con quello overground rendendo più accessibili alcuni contenuti che altrimenti sarebbero rimasti di più difficile fruizione. Un’altra cosa che credo faccia la differenza tra ciò che rimane nell’underground e ciò che invece inizia a muoversi di più verso il mainstream sia legato non tanto ai contenuti stessi ma a come questi vengono venduti: io sono sempre stato molto radicale su questo aspetto e non ho mai voluto sposare certe dinamiche solo per rendere più accessibile un mio prodotto artistico, col tempo però ho cominciato a riconsiderare la sopravvivenza all’interno della scena e nel mondo,  la necessità di un po’ di compromesso…senza snaturare la ricerca creativa alla base dei nostri progetti.

 

GG: Che è un po’ lo stesso discorso di spingere e creare un po’ di hype attorno al festival, perché al di là della cerchia ristretta di persone che vengono cerchi di portare pubblico nuovo che può essere attirato da un certo tipo di scenario o dal main artist chiamato, ma fa tutto parte di un processo in cui li attiri all’interno di una dimensione dove hanno modo di scoprire artisti nuovi, più emergenti o più di nicchia, e questo alla fine fa crescere tutto il festival, dai partecipanti al pubblico, all’organizzazione.

 

TM: A questo punto mi viene da chiedere cos’è per voi l’underground e cosa non lo è.

GG: Secondo me a oggi l’unica cosa veramente underground rimasta è la musica neomelodica, perché è seguita da un pubblico molto specifico, una vera e propria nicchia, che ascolta solamente quella roba là, mentre ad esempio immagino che il nostro pubblico abbia una visione un po’ più ampia e sia molto più abituato ad ascoltare cose diverse. È proprio il concetto di festival e non di evento specifico su un pubblico ristretto un qualcosa che non può essere definito underground, a maggior ragione se il festival spazia un po’ tra generi musicali.

 

KJ: Per me quello che gioca la partita nel discorso di underground è il mantenere un approccio fondamentale di DIY, e sono tendenzialmente situazioni legate a posti occupati o micro collettivi. Se penso ai nostri più prossimi amici con i loro progetti e collettivi, i vari Communion, Pampsychia, eska e Artetetra, ad esempio sono tutte realtà in cui la curatela a stretto giro degli output, eventi o release che siano, diventa un punto di forza, valorizzandone l’autenticità e unicità. L’approccio DIY contribuisce spesso a mantenere alta la qualità artistica, spesso però limitando la diffusione dei contenuti, sottraendo a dinamiche commerciali suoni e immagini che altrimenti potrebbero trovare più ampia diffusione.
Sono scelte controverse che restano parte dei miei struggle quotidiani, avendo passato anni e anni immerso nei processi creativi e produttivi trascurando spesso la diffusione e il rapporto col pubblico per poi ritrovarmi con materiali infiniti, audio e video, archivi nascosti ma pronti per essere pubblicati…non si sa esattamente quando, spesso in attesa dell’ipotetico momento perfetto, congiunzione di circostanze imprevedibili…

 

GG: Io da questo punto di vista sono praticamente l’opposto, per me se sei un artista valido e non ti snaturi è giusto portare quello che fai davanti a più persone possibili, e non credo che attuare meccanismi o strategie più a scopo di diffusione faccia diventare la tua musica più di stampo commerciale. Di base poi è quello che cerchiamo di fare col CURA, farci conoscere da più gente possibile in modo tale che venga molta più gente che si prende bene con la nostra musica.

 

KJ: È un dilemma difficilissimo a cui trovare una risposta univoca, al contempo mi viene da dire che ciò che può fare la fortuna di CURA è proprio questa doppia componente per cui c’è sia chi si prende cura dell’estetica e del sound e chi poi pensa spingere ciò che viene proposto, la coesistenza di questi due lati credo che sia il potenziale punto di maggiore forza.