Alla Biennale del 2014, nel padiglione italiano curato da Cino Zucchi, un progetto di Francesca Benedetto, fondatrice di YellowOffice, fece tanto scalpore da finire sui grandi giornali: finalmente un’idea brillante per le aree Expo dopo l’Expo, finalmente una legacy degna di questo nome dopo anni di brancolamento nel buio. Un grande cimitero interreligioso al posto dei padiglioni nazionali. Cibo dell’anima dopo l’orgia di birre e patatine. Non era una provocazione in spirito cattelanesco, era ed è un’idea geniale dal punto di vista territoriale – perché è in asse con altri due grandi cimiteri milanesi, il Monumentale e il Maggiore – ed è una soluzione molto più pragmatica di tutte le altre, perché diciamocelo, un posto al camposanto in questo momento ha molto più mercato di un palazzo di uffici o, peggio, di un appartamento di lusso vista carcere/vista svincolo autostradale. Ma il personaggio non è riducibile alle sue intuizioni fulminanti: Francesca Benedetto è al centro di una rete di relazioni intensissima, fatta di architetti giovani, grafici, fotografi, videomaker, intellettuali variamente riconducibili all’universo architettonico che di fatto costituiscono il blocco più attivo della città.
Zero: Parliamo del tuo progetto per le aree Expo, dopo che tutti i padiglioni saranno stati smantellati. Perché un cimitero in quel punto e perché non è una provocazione, ma una proposta sensata?
Francesca Benedetto: L’idea del cimitero nasce, come dicevi tu, da una lettura del sito a scala territoriale e urbana. Il Terzo: il Cimitero di Tutte le Religioni, in perfetta successione dopo monumentale e maggiore è pensato come nuovo portale e simbolo della città. Gli orizzonti di questa città si estendono nella Pianura Padana e gli abitanti che la popolano provengono da tutto il mondo. Se il Monumentale rappresenta collezione e memoria della città storica, il cimitero Maggiore una seconda espansione e crescita demografica, il Terzo si propone di rappresentare la città del presente e del futuro, una città cosmopolita che va considerata per i suoi nuovi confini geografici, sociali, economici e religiosi. Ci troviamo quindi a parlare di un’occasione molto importante per Milano, molto più importante dell’esposizione stessa. Il cimitero di tutte le religioni può diventare esempio e modello mondiale di coesistenza e armonia religiosa. Qui allora il cardo e il decumano possono essere veramente simbolo e fondamento di nuova memoria della città, di una città fatta di pluralità, di una città che già esiste. Se l’ambizione di Milano è quella di diventare capitale morale è necessario che riconosca se stessa, i suoi abitanti e abbia coscienza della propria identità come somma di pluralismi. Il Terzo potrebbe essere il simbolo di questa identità, diventando una nuova Gerusalemme europea in cui le religioni monoteiste e pluraliste convivono tra di loro e con il mondo laico. L’immagine di una città in cui tutti si possono riconoscere e che riconosce se stessa. Questa visione risponde a dei bisogni reali di nuovi luoghi di sepoltura e di culto. Al netto dell’importanza simbolica e culturale, da un punto di vista di mercato e vendita, l’esigenza di luoghi di sepoltura fa si che questi abbiano un vero mercato che ha come possibili acquirenti tutti i milioni di cittadini della città metropolitana.
Descrivici il progetto.
Il Terzo è progettato come un parco che mantiene il carattere monumentale degli altri cimiteri storici. La struttura del sito EXPO resta la stessa, con il perimetro – canale, collina e lago – che conserva la funzione di spazio pubblico e definisce una miniatura geografica. Lungo il decumano invece compare un nuovo elemento, un percorso sopraelevato lungo 1 km che parte dalla collina e finisce in un bosco, scandendo gli spazi destinati alle differenti culture e fedi: il cimitero ebraico, poi quello protestante, quello degli atei, prima di incrociare il cardo, destinato ai cattolici e definito da un ampio colonnato. A seguire, gli ortodossi e nella parte centrale del sito il grande triangolo musulmano con le sepolture orientate verso la Mecca. Il percorso si interrompe dopo un chilometro e diventa un bosco che accoglie le religioni i cui riti sepolcrali necessitano un contatto più diretto con gli elementi naturali. Quindi buddisti, taoisti, induisti. Una parte dell’area a bosco è infine dedicata alla sepoltura degli animali.
Quando hai fondato YellowOffice, e con quali intenzioni?
YellowOffice va avanti dal 2008. L’idea è ed era quella di avere uno studio in cui ricerca e progetto andassero di pari passo. Lo sforzo teorico e di sintesi iniziale investiga il modo in cui l’Uomo misura se stesso con il mondo e di come proietti le proprie ambizioni e i propri confini nell’Universo. Da qui, capire che la relazione tra l’essere Umano e la Natura è legata alla rappresentazione stessa della Natura. Se l’essere umano è un osservatore, la Natura diventa paesaggio perché è osservata dall’uomo. La dimensione della Natura è incontrollabile, quindi la sua rappresentazione è la rappresentazione di un’idea. Ne consegue che rappresentarla significa interpretare un bisogno. Temi ricorrenti di questa ricerca sono la relazione tra Città e Natura, gli spazi pubblici e le discipline geografiche. Questi interessi confluiscono in un unica visione che è quella di osservare e riconoscere una Nuova Pangea, ovvero i nuovi confini geografici, naturali, sociali e politici del mondo a noi contemporaneo. Potrei andare avanti ore, ma mi interrompo.
Come si è evoluto?
Io e il mio ex socio abbiamo ‘divorziato’ più di due anni fa. Quindi sono rimasta il titolare unico dello studio. Nel corso degli anni ci siamo trasferiti quattro volte, con una media di neanche due anni a studio. Inizialmente eravamo in uno studio condiviso in via Benedetto Marcello. Uno spazio molto bello, con il seminato in terra. Poi ci siamo spostati in un edificio bellissimo di Muzio in via Giuriati. Il problema era che era piccolissimo e non ci stavamo, non riuscivamo a preparare allestimenti e cose del genere. Da lì siamo andati in via Pietro Colletta: lo studio era gigantesco, per i miei canoni, e lo condividevamo con i Salottobuono. Poi però abbiamo scoperto che lo spazio era infestato dai fantasmi e quindi siamo scappati. Ora siamo in Corso Indipendenza. Anche qui lo studio è condiviso con PioveneFabi, San Rocco, Davide Rapp.
Che genere di progetti fai? Perché quasi sempre collabori con altri studi?
Progetti a diverse scale: da quella territoriale, a masterplan, cimiteri, spazi pubblici, parchi, padiglioni, allestimenti, interni, oggetti, video, illustrazioni, mappe. Se devo progettare un masterplan, una cucina o disegnare un francobollo, il modo in cui osservo le cose e provo ad interpretarle è lo stesso. Collaboro spesso con altri studi perché spesso partecipo a concorsi che richiedono dei team di progetto multidisciplinari o comunque che per complessità richiedono la collaborazione tra diversi architetti e consulenti. Lo studio con cui ho collaborato fin dall’inizio è stato baukuh.
Qual è stato il tuo progetto preferito? e perché?
Ti rigiro la domanda. I progetti che avrei voluto tantissimo realizzare sono: Il Terzo: il Cimitero di Tutte le Religioni, Osumi Island a Berat in Albania, gli spazi esterni dell’Humboldt forum a Berlino, e Amazing Sun per lo YAP MAXXI a Roma. Il progetto per cui mi sono più divertita e che mi piacerebbe continuare a fare in altre città è il corto The Dog From The City.
Yellowoffice è tra i pochi italiani a essere presente nella Biennale di Chicago. Con che progetto? ce ne parli?
I progetti esposti alla Biennale erano due. Il primo era un progetto presentato per un’open call in Albania. Nello specifico nella città lineare che si sta sviluppando lungo la strada che connette Tirana a Durazzo. Quest’area, chiamata Durana, era stata identificata e studiata da un gruppo di ricerca del Berlage di Rotterdam. Il progetto era a diverse scale e prevedeva una strategia territoriale per il primo lotto di Durana, quello più vicino alla città di Tirana e una serie di interventi specifici e puntuali. Ora stiamo lavorando sulla realizzazione di un parco lungo il lago artificiale di Kashar. Il progetto è stato fatto con lo studio PIOVENEFABI e con il fotografo Stefano Graziani. L’altro progetto, L’Année Dernière, era sempre un concorso sugli spazi pubblici dell’Humboldt Forum di Berlino, promosso in seguito al progetto di ricostruzione di Franco Stella. Il progetto è stato fatto in collaborazione con baukuh. Anche in questo caso Stefano Graziani era parte del gruppo. La proposta prevedeva la realizzazione di un giardino barocco che reinterpretava il tema del Giardino del Mondo in un senso contemporaneo legato ai flussi e al tipo di vita metropolitana contemporanea. Era un progetto molto bello e preciso, con un forte legame con la città e le sue architetture: l’Humboldt Forum è proprio davanti al più noto Altes Museum di Schinkel. Ma è andata male e abbiamo perso. La Biennale di Chicago è stato un evento molto importante, la prima biennale degli Stati Uniti con milioni di aspettative. I curatori Joseph Grima e Sarah Herda sono stati molto bravi e in grado di descrivere la scena internazionale invitando molti architetti giovani. È stata una biennale vitale. Poi Chicago è bellissima ed è il luogo ideale per una biennale di architettura.
Che fai allo IED? da quanto tempo insegni? ti piace?
L’anno scorso ho coordinato un master in Land Design. Il master era a Cagliari, in una villa stupenda, villa Satta. Andavo molto spesso, è stata una bella esperienza anche se nata in circostanze bizzarre. E poi ho visto posti incredibili. Ora sto iniziando a lavorare come ambassador IED nel mondo. Tra un paio di settimane andrò in India: c’è una conferenza a Mumbai sul tema della sostenibilità con un focus sull’acqua e andrò a parlare del caso dei laghi artificiali in Sardegna. Sì, mi piace, è un lavoro che permette di fare ricerca. Ho lavorato anche in altri istituti privati come la Naba e la Domus Academy. In generale sono esperienze che funzionano, il numero degli studenti è limitato e i corsi intensivi. Quindi si riescono a fare delle cose interessanti.
Vivi qua da quando avevi dieci anni. Perché continua a piacerti questa città?
Sono incredibilmente affezionata a Lucio Dalla e c’è una sua canzone, appunto Milano, che secondo me la descrive alla perfezione. È una città che può essere da esempio per le altre: incredibilmente aperta a qualsiasi forma di cambiamento ed evoluzione. È una città in cui è semplice vivere e lavorare, specialmente se non fai l’architetto. C’è molta attenzione alla sfera pubblica e la gente non si lagna. Ovviamente molto si può fare ancora. Ci sono ancora problemi legati ad accoglienza e integrazione, ma è un paragone che faccio con le altre città italiane.
Chi sono le zie?
Le Zie sono un gruppo di amiche che si è creato durante l’Università. Il nome Zie non è legato al lessico giovanile, ma alle zie vere e proprie, quelle che fanno le cose bizzarre, un po’ acide ma progressiste. L’idea era creare una nuova di Carta di Atene delle Zie. Queste informazioni ovviamente sono TOP SECRET e non posso procedere oltre (altrimenti dovrei poi ucciderti, come nei film di spionaggio). Quindi devo interrompermi qui. Posso solo dirti le affiliate: Matilde Cassani, Francesca Cesa Bianchi, Sara Gangemi, Maria Chiara Piccinelli, Maria Chiara Pastore, Giovanna Silva e Lina Scavuzzo. Scusa, mi tremano le mani dalla paura.
Quali sono gli architetti giovani (fino a 40-45 anni diciamo) che secondo te sono più interessanti a Milano? e invece quali tra i più noti quali sono i tuoi riferimenti?
Domanda complessa. La scena milanese di architetti giovani in questo momento è molto viva. Parte degli studi più interessanti contribuisce alla rivista San Rocco. Se parliamo di architetture costruite mi piacciono molto La casa della Memoria dei baukuh e Expo Gate di Scandurra. Tornando ai riferimenti legati alla scena milanese, sono moltissimi e molto diversi. Gli esponenti dell’architettura radicale, il già citato Branzi e Ugo La Pietra con il suo Abitare la Città. Ma anche Ettore Sottsass, Aldo Rossi, Enzo Mari, Bruno Munari, Bernardo Secchi. Li dico così in ordine sparso. Ah, e ovviamente prima tutto il moderno e il razionalismo. Giovanni Muzio non può non essere un riferimento. Per ultimo cito il De Finetti per un libro a cui sono particolarmente affezionataMilano: Costruzione di una Città. I miei maestri diretti sono Stefano Boeri e Decio Guardigli. Stefano, da illuminato urbanista, mi ha insegnato a guardare la città, mentre Decio mi ha insegnato ad avere coscienza nel senso leibneziano del termine. Ma i miei riferimenti sono tantissimi e non sono sempre solo legati al mondo dell’architettura. Oggi mi sento di dirti Erodoto e Jodorowsky.
Perché a un certo punto ti sei ossessionata per il cane Sabbia, che non è neanche propriamente tuo?
Tocchi un argomento che mi sta molto a cuore. Sabbia è un cane in condivisione. Propriamente sarebbe di mia sorella, ma è stato amore a prima vista per tutti e specialmente per me e Federico [Bernocchi, ndr]. Quando hai un cane, vivi e vedi la città in maniera molto diversa. Il cortometraggio The Dog From The City nasce da questo tipo di osservazione. Il titolo fa riferimento a un racconto di G. Peyton Wertenbaker, The Man From The Atom del 1923. Nel racconto si sceglie come protagonista un uomo proveniente dallo spazio, con l’obiettivo di osservare il mondo da un punto di vista alieno. Il nostro intento è stato il medesimo. Sabbia nel video compie un viaggio per la città e tramite la sua corsa unisce posti distanti e differenti tra loro. In questo viaggio è possibile leggere la città attraverso i suoi spazi pubblici. La corsa di Sabbia crea un orizzonte in cui è possibile leggere la Milano della storia, del presente e del futuro. Il video è composto da un lungo susseguirsi di riprese a camera fissa. Una collezione di spazi e situazioni. La città è descritta nel suo carattere estensivo di successione tra suoli differenti, naturali o minerali, tra parchi e spazi edificati. Le diverse sequenze del video diventano infatti dei tableau vivant in cui è possibile leggere il modo in cui questi paesaggi vengono vissuti nel tempo contingente, dando una proiezione di quello che potrebbe essere la città del futuro. Il progetto è stato fatto da me, Federico Bernocchi, giornalista e conduttore di una trasmissione radio che parla di cinema, Canicola su Radio2 e Davide Rapp, architetto e videomaker. Dopo questo primo documentario sulla città ne abbiamo fatto un altro, Milano: A Living Archive, commissionato dall’Ordine degli architetti e cnappc. Per questi tipi di progetti abbiamo deciso di firmarci come Sabbia Entertainment, in onore ovviamente a Sabbia e a questo primo progetto. Abbiamo da poco aperto un canale vimeo dedicato alla cosa.
Dove vai a bere, e con chi?
I locali che frequento o ho frequentato di più sono il Bar Basso, la Belle Aurore, il Pinch, il Tango e il Cape Town. Ovviamente per motivi di lavoro molte persone che frequento sono architetti o lavorano nell’ambito, fortunatamente non tutti. Poi ci sono ovviamente i gruppi storici tutti al femminile delle zie e delle biutis. Parte delle zie è anche biutis. Detta così sembra una cosa demenziale ma non lo è.
Chi organizza le migliori feste a milano?
I dotdotdot. Maestri di feste. Spero ce ne sia una anche questo Natale.
Dimmi le tue serie preferite
Ne ho moltissime. Come faccio? Vado velocissima: The Wire, Breaking Bad, Lost di quelle storiche. Attuali: The Strain, Homeland, The Leftovers, Narcos. Ah! bellissimo anche Ray Donavan e Sense8 dei fratelli Wachowski. Comunque sulle serie sono preparatissima. Quando ho tempo, quindi solitamente solo il 26 dicembre, o quando mi auto induco la febbre, riesco a stare anche 12 ore di fila a guardare serie o film. Mi faccio venire le piaghe da decubito. Le visioni mattutine poi sono uno splendore.
Che giornali/riviste leggi? e libri?
Leggo molto fantascienza e saggi di diverso tipo. Libri letti di recente o sul comodino: The Dawn of Astronomy di J. Norman Lockyer e S. La Nave di Teseo di V. M. Straka, scritto da J. J. Abrams e Doug Dorst. Nella categoria FUMETTI due miti sono Winsor Mccay e il Dr. Pira.
Ti piacerebbe fare politica? se avessi il potere magico di fare quello che vuoi a Milano, come la trasformeresti?
Architettura e politica sono strettamente connesse, inscindibili se si parla di città. L’architettura è un fatto pubblico che interessa la collettività. Se avessi un super poter farei sparire tutti gli edifici che non riescono a sopravvivere nemmeno al tempo del presente. Proibirei l’uso del grès porcellanato. Istituirei un organo fatto da architetti e urbanisti che abbia vera responsabilità anche rispetto agli interventi privati. Una specie di Bouwmeester italiano, che riprende la procedura belga. Farei in modo che ogni progetto fosse assegnato tramite open call.