C’era una volta Chorde, memorabile rassegna alla Chiesa Evangelica Metodista che suscita un misto di malinconia e gongolamento se solo menzionata a chiunque frequenti concerti a Roma da almeno un lustro. C’era una volta (e c’è ancora) il Lanificio. Poi sono arrivate Villa Ada e la riqualificazione di uno spazio come il Quirinetta, che anche quest’anno si sono “date il cambio” tra la stagione estiva e quella invernale. Mamo Giovenco ha attraversato come direttore artistico – o forse meglio dire come “appassionato di fenomeni sociologici” – tutte queste esperienze, le ultime diventate parte di Viteculture. Il 23 settembre l’attività del Quirinetta riparte con il live di Tim Hecker in collaborazione con LSWHR e l’occasione è perfetta per farci raccontare da Mamo quello che è, ormai da quasi dieci anni, il suo lavoro sul territorio romano – dal progetto di “imprenditoria sociale” con il Lanificio, al sentimento che lo lega a Chorde, alla necessità di fare rete e intendere la città – e non un singolo locale – come un “progetto”, fino a certo presenzialismo capitolino e alle novità che coinvolgeranno la nuova stagione del Quirinetta. E proprio su questa nuova stagione, Zero vi annuncia in anteprima esclusiva il concerto romano di una band canadese che ci piace molto, i BADBADNOTGOOD, il 5 novembre come primo appuntamento di BASE, serata a cadenza mensile dedicata “a un’idea di suono piuttosto che a uno specifico genere musicale”.
ZERO:Cominciamo dalle presentazioni: quando e dove sei nato?
MAMO GIOVENCO: Sono nato nel giugno del 1981 a Roma, zona Monteverde.
Come hai iniziato ad appassionarti di musica?
L’ interesse per la musica affonda le radici nella mia famiglia d’origine, i nonni materni suonavano entrambi – mio nonno in particolare era direttore d’orchestra, ha girato tanto e a casa ho ancora i manifesti delle orchestre che ha diretto. Il mio approccio alla musica inizialmente è stato molto legato al modo in cui era un elemento centrale nella mia famiglia: per dire, l’evento di Natale era nonno al violino e nonna al pianoforte… Si trattava del picco di massima attenzione, che poi negli anni si è trasformato includendo i vari nipoti che suonavano. Il concerto di famiglia è sempre stato un momento di ascolto e da lì per me è nata una forte passione per la musica classica. In realtà è come se avessi una doppia vita, nel senso che nasco come musicista, ho suonato a livello semi professionale, finché non ho capito che con la musica suonata non avrei mai guadagnato. Sono diplomato in basso, non al Conservatorio perché in realtà l’idea era fare un passo più moderno rispetto alla mia famiglia, ho continuato gli studi e tuttora seguo quelli di pianoforte. È una passione molto casalinga, anche se ho pubblicato dischi sotto vari nomi, l’ultimo progetto di cui ho fatto parte è quello a nome Not From Earth, condiviso con Carlo Alfano e Gianluca Meloni. Abbiamo pubblicato un disco per la Prologue e composto le musiche di uno spettacolo che tuttora sta girando il mondo, “Relazioni (pericolose)”, per la Spellbound Contemporary Ballet, compagnia di danza del DAF Dance Arts Faculty che ha la sua sede principale al Lanificio.
Ti ricordi il primo disco che hai comprato?
A un certo punto, avrò avuto dodici o tredici anni, per dare una svolta a quelli che erano gli ascolti da cui ero circondato in casa, con una mancetta data da un parente ho comprato un cd doppio dei Metallica, Fade to Black, credo fosse un bootleg, scelto semplicemente per la copertina, che era pazzesca… E da lì ho scoperto l’esistenza di chitarra, batteria e voci incazzate.
Hip hop, metal, brit pop: considerato che sei cresciuto negli anni Novanta, c’è stato un genere in particolare a cui ti sei avvicinato da adolescente e che ti ha segnato più di altri?
Nessuno in particolare, se non quello della classica che era poi il suono di casa. E infatti credo che il mio approccio professionale sia stato segnato più da un percorso operativamente molto definito piuttosto che da un genere musicale specifico. Prima musicista, sempre in ambito della contemporanea, poi tecnico del suono, per tanti anni soprattutto per le orchestre, e poi come organizzatore di eventi… O come lo vogliamo chiamare. In generale le sonorità della contemporanea sono quelle che mi hanno affascinato sempre di più, e credo che da lì sia nata un’esperienza come quella, ad esempio, di Chorde.
E finiamo quindi dritti a parlare di questo progetto che, se non è stato il primo che hai seguito dal punto di vista produttivo e organizzativo, è uno dei più memorabili non solo nel tuo percorso ma in generale per la musica live dell’ultimo decennio a Roma. Una rassegna nata nel 2011, che ha avuto tre edizioni e cadenza ogni volta diversa, ma che soprattutto ha portato in un luogo di culto, la Chiesa Metodista di via XX Settembre, concerti di musica folk, contemporanea, elettronica o sperimentale accompagnati da video mapping e con un concept sonoro e visivo molto definito. Concerti memorabili, da quello di Ben Frost a Nils Frahm fino al progetto Unicum con Thurston Moore e Roy Pacy. Come è nata quell’idea?
Il progetto nacque perché, allora ero già socio del Lanificio, mi era arrivata questa proposta per il live del Bălănescu Quartet che reinterpretavano le musiche dei Kraftwerk: ne uscì fuori un concerto a sé che però divenne la “data zero” di Chorde – io ero completamente stregato da quelle sonorità e decisi di accettare la sfida di realizzarlo anche per amore, perché a quei tempi già frequentavo quella che è diventata la madre di mio figlio, che era ballerina di danza contemporanea. Portare quello spettacolo a Roma fu soprattutto una sorpresa per lei. Chiesi appoggio a chi, allora, era già da tempo nell’ambito dell’organizzazione di eventi, Snob Production, che oltre a consigliarci la location curò per la prima edizione la parte di comunicazione e di immagine, mentre io seguivo la direzione artistica e la produzione. Capimmo subito che quel luogo e quell’idea avevano un grande potenziale, ben oltre quell’unica data. Abbiamo proseguito insieme con altri quattro appuntamenti – Fink con Rachel Sermanni, A Hawk and a Hacksaw, Ben Frost e Pan American – in particolare con l’aiuto di Riccardo Bertini: ne è venuta fuori la prima edizione di una rassegna che mi ha segnato tantissimo… Inizialmente pensavo di portare musicisti che avrei visto da solo e invece c’è stato un successo di pubblico significativo e crescente.
Quale era, nella vostra testa, l’identità di Chorde?
Il criterio era puramente di tipo estetico. Non c’era nulla di deciso a tavolino, nulla di tecnico oltre alle reali possibilità di fare alcuni concerti là dentro. Anche se poi abbiamo rischiato tantissimo, perché ricordiamo come Ben Frost fece tremare la chiesa… È una rassegna a cui sono molto affezionato e anche per questo non la sto più facendo: Chorde è legata a un sentimento particolare, non è un bando, se non ho la location giusta, i nomi giusti, la predisposizione mentale giusta, è una cosa che non faccio. È come se stessi aspettando il momento adatto, diciamo l’ispirazione, per dare nuovamente vita a quel tipo di progetto. Serve un sentimento preciso, Chorde non può essere un compito. Al contrario, è stata un’esperienza che mi ha infuso molto entusiasmo, è stata determinante nel farmi capire che avrei proseguito nell’organizzazione di eventi, perché ho percepito che potevano succedere molte cose interessanti nell’ambito della musica live. Cose che stanno succedendo ancora, eh, ma Chorde ha un posto speciale per me e sicuramente tornerà, di certo con una consapevolezza in più dal punto di vista professionale – nella gestione degli spazi e delle economie – ma anche con quel tipo di incoscienza e trasporto che l’aveva caratterizzata. Nel frattempo, i ragazzi di Unplugged In Monti nell’ultimo anno hanno portato lì le Church Sessions, ed è stato carino quando mi hanno chiesto in un certo senso il “permesso” di usare quello spazio. Devo ammettere che mi è capitato spesso di parlare di quel progetto, molto più di quanto non avvenga con le cose che poi abbiamo fatto con il Lanificio.
C’è qualche live in particolare che ti è rimasto impresso, di quella rassegna?
Me li ricordo tutti, ma sicuramente quelli che più mi sono rimasti nel cuore sono Ben Frost e Hauschka. Quest’ultimo credo sia stato uno dei concerti più belli visti in vita mia, ma perché si tratta di sonorità molto vicine alla mia formazione, a quelle che per indole amo di più. Ben Frost fu un live memorabile, lì osammo tantissimo con le vetrate che erano sotto i Beni Culturali ed eravamo tutti preoccupatissimi, perché mentre lui suonava vibravano da morire. Che poi il modo in cui si sviluppò quel concerto la dice lunga su un’altra peculiarità di Chorde, ovvero il rapporto umano che si stabiliva con i musicisti che venivano a suonare. Ben Frost venne prima a pranzo al Lanificio – lui è un grande appassionato di cucina – e poi andammo a fare il sopralluogo in chiesa. Oltre a impazzire per la location, percepì – il matto! – che i vetri delle finestre davano una risposta di vibrazioni al suono e le usò come una retina di un rullante. Quindi lanciava questi droni e impazzì totalmente… Era troppo perfetta come cosa e insieme abbiamo deciso di rischiare, ma fu un modo totalmente spontaneo e pensato ad hoc per quel live. La linea che davo per Chorde era di creare un crocevia di pubblico, quindi l’idea era di aprire la rassegna con un guest più di richiamo, dei folk singer come Fink e The Tallest Man On Earth, che in quel contesto furono indimenticabili e in un certo senso fecero da apripista, in modo che le persone si interessassero anche al resto del programma. Tra l’altro, era una rassegna fatta con una scarpa e una ciavatta, nel senso che la produzione di Chorde eravamo io e il tecnico del Lanificio, Giuseppe Oliva: quando c’erano i live stavamo lì dentro dalla mattina alla sera a caricare e scaricare.
Facciamo un passo indietro: Chorde arriva nel 2011, quando già da qualche anno sei parte del progetto Lanificio. Ma quali sono state le tue prime esperienze nell’ambito dell’organizzazione della musica live?
Ho cominciato seguendo delle micro rassegne che nessuno si ricorda. Quando facevo il musicista e il turnista mi avvicinai molto alla scena del Club Tenco, suonavo con dei cantautori livornesi e in particolare con Luca Faggella, che vinse il Premio Tenco del 2002, cantautore che mi ha passato la passione per Piero Ciampi. Mi innamorai molto del modo in cui veniva messa in musica la parola e a un certo punto diedi vita a una piccola rassegna dedicata al cantautorato, che si chiamava Tu No, come la canzone di Ciampi. Non era in un vero e proprio locale, ma al numero 5 di Vicolo del Cedro a Trastevere, in una sala molto bella. Era la seconda metà dei Duemila, i concerti erano segreti – nel senso che li dovevi scovare ed era una cosa iper selettiva. Fu un bagno di sangue e fu la mia prima esperienza, davvero minuscola. E poi passai al Lanificio.
Il Lanificio è stato un po’ il tuo primo banco di prova importante, sei entrato a farne parte quasi da subito, quando ha aperto nel 2007, e hai vissuto gli anni, prima di staccartene, in cui è diventato uno dei luoghi di riferimento per il clubbing – e non solo – a Roma. Come è iniziata questa avventura?
Al Lanificio ho cominciato a organizzare degli eventi come collaboratore nel 2007, per poi entrare in società circa tre anni dopo. Allora si trattava “solo” di una sala eventi e inizialmente i soci erano Giulio Amorosetti, Giulio Costantini e Gabriele Ciocca a cui mi sono aggiunto io e poi in seguito un sacco di altre persone. In quegli anni il Lanificio era percepito soprattutto come una discoteca dove venivano ospitate varie serate, da L-Ektrica a Glamda. Diciamo che io mi sono occupato soprattutto di portare dentro la musica dal vivo, che è arrivata decisamente dopo il clubbing. La verità, però, è che il Lanificio è stato fin da subito più che un semplice spazio eventi un progetto, che col tempo divenne anche abbastanza chiaro, un vero esempio di imprenditoria sociale. Ovvero una realtà che genera economia con un’attività commerciale – in questo caso la discoteca – per crearne altre non commerciali che da sole non si potrebbero sostenere. E quindi la scuola di danza, la start up del ristorante, la stessa Chorde. Tutti progetti che poi hanno avuto modo di autosostenersi, ma che non sarebbero potuti nascere senza le entrate economiche della discoteca. Il clubbing generava economia per creare altre attività, anche culturali, che non erano dovute a finanziamenti esterni, pubblici o di soci, ma dalle attività che noi mandavamo avanti. Chiaro che parte della nostra fortuna è stata l’avere uno spazio con quell’estetica post industriale e un profilo esterofilo nella gestione delle serate che richiamava parecchio pubblico, ma in realtà era un luogo enorme con molti piani chiusi, uno spazio fisico che necessitava una visione e una gestione ampia. Uno spazio da riqualificare, da aprire al territorio.
Hai menzionato la scuola di danza, e onestamente io non ho mai saputo che al Lanificio ci fosse anche una scuola di danza. Ce ne parli?
Inizialmente poteva sembrare assurdo investire del denaro ricavato dal clubbing in una scuola di danza contemporanea, e invece è stata un visione azzeccata avuta in relazione allo spazio che avevamo a disposizione. Abbiamo conosciuto due personalità importanti in quell’ambito – Mauro Astolfi e Feliciana Lo Mele, rispettivamente direttore artistico e direttrice della scuola -, e insieme abbiamo creato le condizioni affinché nel Lanificio si concretizzasse questo loro progetto di una scuola di danza contemporanea, il DAF – Dance Art Faculties, che è tuttora una delle più ambite in Italia: ci siamo ritrovati già dal primo anno circa 300 studenti che stavano tutto il giorno a lezione in quello spazio, una vera e propria facoltà di studi della danza, una delle poche riconosciute a livello europeo. E la cosa incredibile era che tutti gli studenti venivano da altre parti di Italia. Il progetto è stato importante non solo per il suo richiamo nazionale, ma anche perché ha contribuito a riqualificare uno spazio e un quartiere periferico come Pietralata un po’ degradato – mi ricordo che all’inizio andavamo a tagliare gli alberi sulla strada per far passare gli autobus…
Come ti sei rapportato, invece, nell’inserimento della musica dal vivo in un contesto prettamente orientato, o comunque percepito come più idoneo, al clubbing?
Credo che il Lanificio sia stato per la nostra generazione un posto di riferimento, abbiamo creato un “sistema” – che all’inizio magari ha avuto un po’ di casualità e che poi però si è sviluppato lungo una linea ben definita. In quella dinamica, c’è stata la volontà di inserire il discorso dei live anche portando dentro una realtà che allora stava prendendo forma come Ausgang, che per un certo periodo al Lanificio ha fatto un bel po’ di concerti. Col passare del tempo, poi, mi sono trovato ad avere delle esigenze sempre più specifiche sulla gestione dello spazio: ho inquadrato il fatto che il Lanificio non potesse essere un vero e proprio “locale live”, ma potesse funzionare bene come contenitore per cose un po’ più particolari, anche sulla scia di Chorde. Quindi cominciai a organizzare queste mini rassegne, come Natural Gizmo, dove portai produttori di scuola Ninja Tune come Daedelus, Lapalux, che a Roma passavano di rado ma creavano molto interesse. Questo, in un contesto dove dovevo stare attento a non toccare il venerdì e il sabato, giorni dedicati alla discoteca che generava la cassa per fare altre cose. Quindi ho cominciato ad aprire il Lanificio quasi tutti i giorni, scelta non facile da portare avanti ma che ha creato un interesse anche di pubblico, età e portafogli diversi. Si è iniziato a capire che non era solo una discoteca e, su questo aspetto, abbiamo insistito molto anche nella comunicazione.
E qui veniamo a un aspetto interessante, quello della trasformazione sempre più evidente del Lanificio in un progetto a 360 gradi e dell’apertura a un pubblico sempre più trasversale…
Sì e anche l’idea, ad esempio, di portare Dignità Autonome di Prostituzione con Luciano Melchionne portò attenzione da parte di un pubblico ancora diverso, generando interesse sul posto e su tutte le sue attività, dal ristorante – che aveva aperto nel 2011 – al clubbing: iniziative collaterali che in sé non generavano economie, ma che fecero crescere interesse sullo spazio – che ne so, la signora che veniva al teatro si innamorava del posto e poi ci voleva fare un evento per un matrimonio. Si è creato un circuito, anche sul passaparola, veramente molto stimolante. Tuttora non mi definisco un direttore artistico – anche perché venendo dalla musica classica ho un concetto di direttore artistico molto alto: mi sento una persona che lavora più con l’aspetto sociologico, mi piace capire cosa potrebbe succedere se innesco dei sistemi, mi piace osservare le persone. Secondo me il direttore artistico di un locale è più un selezionatore, anche se sempre con una linea. Non voglio sminuire la cosa, però a me non interessa troppo avere una linea musicale ben definita, mi piace giocare col sistema che si crea intorno al portare quell’artista. Perché vengono sempre generate delle conseguenze, in parte prevedibili e in parte sorprendenti. Chiaramente è un attitudine che può creare consensi o meno, ma dà sempre vita a fenomeni interessanti.
Il Lanificio chiaramente è ancora attivo, ma tu te ne sei staccato ormai da qualche anno. Il passaggio successivo è quello che ti ha portato alla direzione artistica di Villa Ada, alla gestione del Quirinetta ma, prima di tutto, alla creazione del progetto Viteculture.
Viteculture nasce nel 2014, e insieme a me i fondatori sono un altro socio uscente del Lanificio, Giulio Amorosetti, e un altro amico fraterno e collaboratore di sempre, Daniele Martelli. Il fatto che fossimo proprio noi tre a farne parte è stata una scelta indispensabile: era necessario intraprendere questa strada con le persone giuste e, dopo tre anni, mi sento di dire che senza il resto dello staff che lavora insieme a noi molte cose non sarebbero state possibili. L’inizio di Viteculture è strettamente collegato a Villa Ada, a questo salto nel vuoto che abbiamo fatto tre anni fa. Prima di noi, considerando che questa conclusasi a metà settembre è stata la 23esima edizione, Villa Ada – Roma Incontra il Mondo è stata sempre guidata dall’Arci Roma e, per 20 edizioni, il direttore artistico è stato Luca Bracci – che poi è passato a occuparsi di Eutropia. In seguito a un cambio di guardia nell’Arci, nel 2014 siamo stati invitati dall’Arci Roma – come staff, prima che come progetto, perché inizialmente Viteculture neanche esisteva – a collaborare alla gestione di Villa Ada. Credo di poter dire che il primo anno sia stato un disastro, anche perché siamo subentrati a maggio, senza che mai ci fossimo trovati a gestire un palco così importante e con aspettative così alte. Sapevamo di avere una grande responsabilità ma anche che avremmo dato un cambio alla linea, che viaggiava su un percorso fino ad allora molto legato alla world music e al reggae, musiche che onestamente non ho mai seguito molto. Questa responsabilità e difficoltà è stata bagnata dall’estate più piovosa degli ultimi tempi, quindi abbiamo avuto non pochi problemi legati a questa fase di passaggio. Gli ultimi due anni sono invece stati un’esperienza più definita e importante.
C’è poi da aggiungere che l’estate è anche un periodo particolare – pochi nomi “freschi” e soprattutto a Roma si finisce col doversi confrontare con grandi – per certi versi giurassiche – rassegne come Luglio Suona Bene o Rock in Roma. In queste due edizioni un po’ più “compiute”, come avete ripensato la vostra idea di Villa Ada? Penso anche ad aspetti interessanti come lo spazio D’Ada Club e l’area food…
Sì, in estate non c’è molta novità in giro ed è proprio per questo che mi sono divertito. Soprattutto in questa ultima edizione, credo che il successo di Villa Ada sia stato legato alla rigenerazione che abbiamo provato a mettere in atto a livello di fruizione da parte del pubblico. Abbiamo concepito Villa Ada come un’isola – dove spesso in passato c’erano quelli che pagavano il biglietto per entrare e sentire il live e quelli che se ne stavano fuori a scroccare il concerto, aspettando di poter entrare gratis per ballare. L’idea è stata quindi di dividere in due parti questo isolotto: l’area dei concerti, a pagamento, e l’area gratuita, con gli stand, un certo discorso qualitativo per il cibo e il market – anche perché sono convinto che se una persona vuole sentire il concerto se lo paga, altrimenti a prescindere da tutto preferisce mettersi nell’area free a mangiare un panino ascoltando distrattamente. E poi c’è stato il discorso del D’Ada Club, un sistema inclusivo di rete – aspetto che a noi interessa molto – gestito con i Circoli Arci del Pigneto, il DalVerme e il 30Formiche. Questa rete è nata soprattutto l’anno scorso, perché alla fine l’Arci ha sempre fatto parte di Villa Ada ma i Circoli mai, e credo che sia non solo bello ma anche necessario per Roma che prenda forma questo tipo di collaborazione – che poi è sfociata anche in amicizia, soprattutto con Toni e Andrea del DalVerme e Giuseppe del 30Formiche. Sono emerse affinità stilistiche e musicali, ci siamo divertiti a condividere punti di vista e c’è da dire che quest’anno la programmazione del post serata al D’Ada Club è andata molto bene anche in termini di pubblico.
Villa Ada l’avete ripensata non solo nella sua versione notturna, ma anche in quella diurna, è così?
Villa Ada è stata contaminata di attività, perché si partiva la mattina con il Giardino di Lulù, che è il progetto di Shirin Amini, la moglie di Niccolò Fabi, che ha fatto il suo campo scuola per bambini qua. Poi c’erano workshop, abbiamo fatto qualcosa come 60 incontri legati alle tematiche sociali e ambientali, tra cui quelli con Romana Ambiente con cui è stato verificato il tasso di chimicità del lago – che per fortuna è molto basso. La visione è vicina a quella che si era creata al Lanificio: questo è il nostro modo di concepire un progetto e uno spazio con tali potenzialità.
Tradizionalmente, il cartellone di Villa Ada è stato sempre legato alla cosiddetta world music e al reggae. Entrando più nello specifico, come vi siete rapportati a un rinnovamento non solo della struttura di Villa Ada ma anche della scelta musicale?
Il termine world music non ha più i contorni definiti di un tempo e quello che abbiamo cercato di fare è stato dare un taglio un po’ più fresco a quel “non genere”. Penso a nomi come Bombino, Almamegretta, Tyler the Creator, ma devi tenere conto che Villa Ada è composta da quasi 60 concerti, non è un festival ma una rassegna, quindi c’è la necessità di raccontare qualcosa, di creare una fotografia di quello che accade attorno. Non devi fare il festival dell’indie, dell’hip hop o della world music. Devi contaminarla di cose, cerchi di metterci del tuo ma anche di attingere dall’intelligenza degli artisti: Tyler the Creator, ad esempio, è un artista che fa sold out ovunque ma che in Italia ha meno seguito, e che quindi con intelligenza si è venduto, agli organizzatori, a un prezzo accessibile per avere modo di suonare anche da noi – e infatti il pubblico che c’era era super ibrido e variegato. Poi magari lo incontri, dopo un gran concerto, e ti dice «scusa ma sono un po’ stanco, sai ieri ero a Milano e c’era anche il concerto di Pharrell Williams, ci siamo incontrati in studio e abbiamo lavorato insieme fino alle 6 di mattina…». E ci resti a bocca aperta. Ma la volontà di rigenerazione si è espressa anche attraverso una collaborazione fondamentale come quella con Davide Caucci, sviluppata già nel corso della passata stagione del Quirinetta e cresciuta all’interno di Villa Ada con Roma Brucia. È il discorso di giocare su tendenze soprattutto sociali più che esclusivamente musicali di cui ti parlavo prima; tendenze che quest’anno, a mio avviso, hanno preso forma attraverso uno spiccato interesse per l’italianità. Penso ovviamente al fenomeno Calcutta, che era importante fosse nel cartellone della rassegna. Per farti un esempio, a me piace molto guardare il pubblico durante i concerti – mi metto sempre a lato del palco per guardare le reazioni – e su Calcutta vedi una situazione generazionale pazzesca: dal papà con la figlia agli adolescenti, con una valanga di trentenni in mezzo. E poi anche il Niccolò Fabi da solista – uno dei pochi musicisti con cui, per me, c’è anche un aspetto umano importante: ha scelto di portare il successo del suo ultimo album a Villa Ada, è stato un sold out clamoroso ma soprattutto un concerto molto bello, con una band pazzesca… Cose che ti stupiscono, credo di poter dire che a me è piaciuto addirittura più dei Wilco!
Sia nel tuo percorso professionale che nel passaggio estate/inverno, subito dopo Villa Ada viene spontaneo chiederti dell’altro importante tassello che seguite con il progetto Viteculture, il Quirinetta. E però, il discorso sulla difficoltà di creare una buona programmazione in estate e su un palco importante a Roma unito al contesto degli spazi dedicati (anche) alla musica dal vivo della nostra città in cui si è inserito il Quirinetta, mi spinge a farti prima un altro paio di domande. La prima: che effetto fa vivere e soprattutto lavorare in una capitale dove molti luoghi della musica sono stati chiusi, o comunque dove i live club si contano sulle dita di neanche due mani?
In tutta onestà trovo demoralizzante che a Roma molti spazi abbiano chiuso, che la vita culturale sia meno fervida di qualche anno fa: non credo che nel momento in cui chiude il Circolo degli Artisti, l’Angelo Mai o il DalVerme allora tutti vanno al Quirinetta, ma credo che si inneschi un meccanismo di chiusura nelle persone. C’è sempre bisogno di un certo grado di appartenenza, e non è che se lo spazio viene chiuso la gente è incline a cambiare repentinamente. Più probabile, per i tempi che viviamo, che ci si chiuda in casa su Netflix, piuttosto che uscire e affezionarsi a nuovi posti. Il progetto non deve essere il locale singolo ma la città, è la città che ti deve offrire tante cose e se non c’è tanta offerta le persone si disabituano a uscire. Non credo sia vantaggioso che l’unica offerta d’estate per la musica di un certo tipo e a un certo costo sia Villa Ada, la scelta ci deve essere e, se non c’è, la situazione diventa deprimente. La scelta che c’è oggi a Roma è troppo settorializzata, soprattutto nella bella stagione: o sei facoltoso o hai una certa età, e allora puoi permetterti i concerti in Auditorium e a Rock in Roma. Ma non ci sono molti competitor, posto che appunto non si tratta di competizione. Ma di scelta.
Come ti sembra, invece, la situazione se messa in prospettiva rispetto alle realtà che operano sul territorio e alla ricezione da parte del pubblico?
A Roma c’è tanta voglia di fare ma c’è anche una depressione, dovuta al fatto che il mercato dei live non dà dei risultati clamorosi – quando lavori sulle nostre prezzature non c’è un grande margine di guadagno, devi avere tanti sistemi che ti permettono entrate, perlopiù legate al mangiare e al bere. Alcune agenzie di booking in questo senso non ci aiutano ed è difficile offrire novità quando il rischio è così alto, ma vedo comunque una volontà di fare delle cose, nonostante gli spazi e le realtà a Roma siamo molti ridotte. Quello che ti dico in onestà è che noto nel pubblico e in alcune dinamiche organizzative tanta tendenza al presenzialismo, tanti di quei cosiddetti poser, per cui non si va al concerto per reale interesse o per cui la struttura degli eventi è sempre la stessa, con format prevedibili – live, visual, dj set, mostra, aperitivo. E allora in questi casi, a mio avviso, può essere una dinamica negativa se gestita senza professionalità, mentre se ci sono delle buone sinergie per cui realtà che richiamano tante persone lavorano con altre che hanno una certa esperienza nell’organizzazione di eventi è possibile ottenere ottimi risultati, portando magari degli artisti interessanti senza perderci i soldi e con live che avvengono nelle migliori condizioni. Poi però ci sono anche quelle dinamiche strane, che diventano generaliste e che vedo anche in certe serate di Villa Ada, dove non mi spiego perché ci sia tutta quella gente… Concerti pieni di persone che non sanno neanche chi stia suonando, penso a Angus e Julia Stone lo scorso anno, ad esempio. È una carambola… Però ecco, da una parte c’è una certa crescita del poserismo, ma dall’altra c’è ancora richiesta di esperienze come Chorde, su cui però devi sempre correre dei rischi anche economici. In queste due vesti, che possono avere ognuno lati positivi e negativi, credo stia risalendo un po’ la voglia di preferire lo spettacolo dal vivo al mettere due dischi. Tutto sta poi nel riuscire a trasmettere bene al pubblico romano il messaggio che una cosa vada pagata per il giusto prezzo o che comunque abbia un costo. Manca la cultura alla spesa del live: rispetto a Milano i biglietti devono essere inevitabilmente a un pezzo più basso, ma questo è dettato anche da una situazione economica e sociale diversa.
Ciò detto, insieme al Monk, il Quirinetta è l’altro spazio di media grandezza che può ospitare un certo tipo di live a Roma – senza escludere clubbing e rassegne di vario genere. Inevitabile chiederti: come siete arrivati a riqualificare un luogo così atipico, per collocazione e struttura, rispetto alle consuetudini romane?
A fine 2014 abbiamo trovato questo posto che ci ha subito interessati e abbiamo cominciato con una prova. Coscienti del progetto fatto al Lanificio, in periferia, in quel momento ci sembrò che la controtendenza potesse essere quella di rigenerare un po’ il centro – che dal punto di vista musicale e culturale è stato decisamente abbandonato, sostanzialmente è una terra di nessuno, se non dei turisti. Nel nostro percorso c’è stato questo contatto con un privato che ci ha parlato di un teatro semi abbandonato, o dove comunque si svolgevano solo corsi di recitazione – cosa che attualmente a Roma accade in molti teatri, soprattutto se piccoli. Era una perla del liberty, con una storia molto affascinante perché è stato uno dei primi caffè–chantant di Roma, quel genere di caffè concerto dove negli anni ’20 e ‘30 – insieme al Salone Margherita e alla Sala Umberto – facevano piccoli concertini cabaret con il pubblico che si riempiva di assenzio in maniera estrema. Appena l’abbiamo visto ci si sono illuminati gli occhi…
E qual è stato il primo feedback da parte dei romani?
La cosa che ci ha colpito all’inizio è stata proprio la risposta del pubblico, che si lamentava di dover arrivare «fino in centro» dopo che per una vita si era lamentato di dover arrivare «fino in periferia»…
Un grande classico… La nuova stagione parte venerdì 23 settembre con il live di Tim Hecker, appuntamento realizzato in collaborazione con LSWHR. Dobbiamo aspettarci novità strutturali dello spazio?
Sì, quello con LSWHR è il primo appuntamento di una collaborazione a cui vorremmo dare cadenza mensile. Grandi novità strutturali non ce ne saranno – la sala grande rimane quella del club che c’era l’anno scorso, con la discesa del teatro un po’ appianata, le pedane, il balcone bar, un bel sistema di luci con un probabile incremento della parte tecnica. C’è però una novità significativa in termini di contenuto…
Ovvero?
La saletta piccola diventerà un locale a sé, aperto tutti i giorni con una sua direzione artistica che sarà affidata a Davide Dose di Spaghetti Unplugged, un ragazzo dinamico, anche lui con le radici nel mondo della classica, che ha la capacità di fotografare molto bene la scena romana e con un approccio che mi ricorda quello che, in città, è stato proprio de il Locale. Sarà quindi uno spazio piccolo dedicato soprattutto alla musica italiana e al cantautorato, a passaggi esteri quando ci saranno, a novità e al buon bere. Sarà aperto tutti i giorni, il progetto farà sempre parte del Quirinetta che nei primi di ottobre si estenderà anche a una parte food. L’altra novità, infatti, è che aprirà un vero e proprio bar ristorante, nello spazio adiacente tra Quirinetta e Quirino dove c’era un vecchio bar che abbiamo ristrutturato. Riteniamo che quello del cibo sia un discorso fondamentale da seguire parallelamente al discorso culturale e Giulio (Amorosetti, NdR), che aveva ideato il progetto Lanificio Cucina, è un’eccellenza nel mondo della ristorazione.
È chiaro come in questa nuova stagione ci sia da parte vostra la volontà di dare un respiro ancora più ampio e a 360 gradi del progetto. Possiamo immaginare una sorta di “polo-Quirinetta”?
Sì, l’idea è: arrivi in un posto, parcheggi la macchina una sola volta, hai la possibilità di mangiare e bere bene nello stesso spazio dove puoi sentire un concerto o ballare e fare serata. Immaginiamo il Quirinetta come un polo unico, dove c’è un discorso decisamente inclusivo rispetto al pubblico. Abbiamo generato “un pubblico del Quirinetta”, mentre nelle esperienze precedenti il pubblico nasceva più grazie dalle pubbliche relazioni o dall’attrattiva del clubbing.
E come te lo immagini il pubblico del Quirinetta?
In realtà lo conosco per nome e cognome! (risate, NdR). Sì, perché abbiamo generato un nostro sistema comunicativo e di biglietteria che ci profila il pubblico, ovvero chi ci compra davvero i biglietti e chi frequenta davvero lo spazio: come vedi noi non facciamo promozione con affissioni, ma solo come ADV digitale, indirizzando le persone per ogni tipo di contenuto sul nostro sito, verificando poi le preferenze di chi compra i biglietti attraverso le statistiche di interesse per poi profilare il cliente del Quirinetta o di Villa Ada, creando una promozione web mirata. Poi certo, se ti stiamo sulle palle ti stiamo sulle palle, ma non ti veniamo a rompere le scatole con cose che non ti interessano, con una promozione generale. La programmazione del Quirinetta spazia molto, l’idea non è creare un pubblico “del Quirinetta” ma un pubblico interessato a “quel contenuto del Quirinetta”: non c’è un’identità vera e propria, non è il locale dell’indie o dell’elettronica. Come ti dicevo all’inizio, non provenendo da un genere specifico, non ci trovo niente di male se una sera qui trovi il pop, l’altra il folk, e poi l’hip hop – la trovo una cosa naturale e semplice, perché l’identità è limitante, almeno se hai una sala come questa. In altri casi, è chiaro che l’identità è fondamentale, penso a un posto come il DalVerme. Questo genera un interesse da parte di varie tipologie di pubblico, soprattutto se pensi che sei in centro, dove possono capitare molti turisti, dove sei raggiungibile da più zone di Roma e dove hai una certa capienza, quindi non puoi settorializzarti troppo. Se io avessi fatto un locale a Pietralata o sulla Casilina l’avrei sicuramente impostato in un altro modo. E poi comunque, al Quirinetta faremo anche dei live di ascolto. Magari da seduti e magari molto affini alla sensibilità di Chorde…