Con Simone Bertuzzi abbiamo costruito tempo fa la programmazione del modulo di musica e arte di Open in Triennale: il progetto di Zero e Vodafone su diverse aree tematiche (cibo, design, sport, famiglia e tecnologia) legato alla rete e alle applicazioni. Poi ci ha portato ballare in un deposito/magazzino del Parco Nord che di notte diventava il dancefloor per eritrei, egiziani ed etiopi. Grazie a lui abbiamo conosciuto tutto un altro mondo musicale, non chiamatelo world-music però e non è neanche il dub o l’afro. Sono suoni di altre culture, di paesi lontani che oggi, grazie alla rete, sono vicini, si sono contaminati con i nostri suoni e ci hanno contagiato, tanto da essere ormai quasi familiari. Queste “Transculture del suono” sono diventate la tesi di Simone all’Accademia delle Belle Arti, la sua passione musicale come dj e un progetto artistico (Invernomuto) che, con il socio Simone Trabucchi, sta facendo il giro del mondo tra musei e festival di videoarte.
A luglio 2015 Simone aka Palm Wine ci ha fatto ballare invece all’HangarBicocca con il suo dj set inserito all’interno della rassegna Summer Casino, e a carnevale 2016, gliene siamo veramente grati, ci ha fatto ancora ballare tutta la notte a Lambrate, dalle 6 alle 6, per il festival SONIDO CLASSICS organizzato con Plusdesign insieme a Elita, BUKA, S/V/N, Terraforma e Le Cannibale.
Il 5 maggio infine (infine per ora si intende) si proietta al cinema Beltrade per la prima volta a Milano il film Negus, il primo lungometraggio dove si riversano tutte le passioni musicali e antropologiche di Invernomuto: Lee Scratch Perry e i culti rastafariani, le tracce postcoloniali e Vernasca, luogo d’origine dei Simoni, La cultura dei soundsystem e l’afrofuturismo.
Chi sei? Cosa fai? Da dove vieni? Perché sei qui?
Simone Bertuzzi (Piacenza, 1983). Vengo dalla valley, sono un valley boy. Vivo a Milano perchè non è una città per principianti.
Ti senti più artista o più dj? Quanto il dj è artista e quanto l’artista è dj? Ci sono degli esempi che puoi citarci?
Non vedo grosse differenze. La retorica del dj come artista è alla base di alcune teorie dell’arte degli anni zero (vedi Nicolas Bourriaud). L’esempio storico è Dj Spooky.
Cosa ti ha spinto a diventare dj?
La ricerca. Palm Wine è iniziato collezionando storie e materiale audio. Dal collezionarle al suonarle il passo è breve e naturale.
Ci racconti la tua giornata?
Quando sono a Milano generalmente studio dal mattino presto, fino a sera, orari da ufficio. Sono un animale diurno, ahimé.
Insieme a Simone Trabucchi siete Invernomuto, ci racconti come vi siete conosciuti e cosa tratta il progetto?
Ci siamo incontrati all’Accademia di Brera, ci conoscevamo ma non c’eravamo mai frequentati, lì abbiamo iniziato a condividere una serie di cose e sono arrivati i primissimi video e il magazine ffwd. Inizialmente ci definivamo “gruppo di sperimentazione audiovisiva”, in piena ondata tardo anni 90/primi Duemila ci sembrava appropriato. Ora preferiamo descriverci così: “L’immagine in movimento e il suono sono i mezzi di ricerca privilegiati del duo; scultura, editoria e pratiche dal vivo sono altre delle sue varianti.”
Quali sono e com’erano i primi video? Cos’è ffwd?
Il paesaggio era il soggetto dei primissimi lavori video. In “Catch Me When I Fall” ad esempio ci lanciamo una telecamera VHSC in un campo innevato fino alla distruzione della camera stessa. ffwd_mag è un magazine cartaceo che abbiamo realizzato fino a qualche anno fa, abbiamo pubblicato 5 numeri e qualche poster. È stata una piattaforma molto utile per costruire relazioni con artisti, musicisti e amici.
Comune denominatore di Palm Wine e di Invernomuto è la ricerca sonora verso ritmi e suoni d’altri paesi, com’è nata questa passione?
Ho scritto una tesi per la laurea triennale che si chiamava “Transculture del Suono” e da lì è diventata un ossessione; mi interessano i movimenti, come un suono rimbalza da una parte all’altra del globo e si trasforma. Con Invernomuto l’approccio è diverso, ci interessano gli immaginari che la musica genera, ovunque essa sia.
Cosa facevi prima di fare il dj e l’artista?
Ho fatto l’MC, sono diventato perito meccanico e ho gestito una distribuzione di musica elettronica online.
Ci racconti i tuoi prossimi progetti musicali e artistici?
Palm Wine suona regolarmente e collabora col mondo della danza. Invernomuto ha passato l’estate in Jamaica per concludere il progetto “Negus”, mentre i mesi autunnali ci hanno impegnato con il montaggio. E ora ci sono i Picos in arrivo dalla Colombia, per questa incredibile performance carnacialesca a Lambrate organizzata da Plusdesign insieme a Elita, BUKA, S/V/N e Terraforma, SONIDO CLASSICS.
Cosa sono i Picos?
I Picos sono soundystem di tradizione colombiana, una peculiarità della costa caraibica, in particolare delle città di Barranquilla e Cartagena. Si narra che il primo pico si aggirasse per qualche barrio di Barranquilla già negli anni ’50, ma l’esplosione vera è nei tardi ’60 e poi lungo gli anni ’70 fino ai giorni nostri. Inizialmente erano impianti enormi, progettati per animare il carnevale (che sta iniziando a B/quilla in questi giorni, la città è completamente inchiodata per un paio di settimane) e le verbenas (party in strada) – recentemente la cosa si sta ridimensionando, alcune feste si stanno spostando negli estaderos e nei locali; negli ultimi tempi il governo locale è piuttosto repressivo verso questa cultura.
I Picos nascono nei barrios africani delle due città e si portano appresso sia l’eredità dell’Africa, sia uno strano meticciato che solo luoghi come quello, per cause storiche agghiaccianti, hanno generato. Lassù arrivarono i primi schiavi dal West Africa; Cartagena, primo porto dei Caraibi, fu una sorta di hub di distribuzione dei prigionieri verso tutto il Sudamerica. Alcuni si ribellarono e nacquero delle enclave di resistenza, i cosiddetti palenque, di cui il più famoso – e il primo – da quelle parti è San Basilio de Palenque, che diede i natali a moltissimi musicisti seminali di champeta criolla.
È pazzesco pensare che i Picos suonano quasi esclusivamente musica africana (così la chiamano, genericamente) degli anni ’70: la golden age dell’highlife e dell’afrobeat, ma a quanto abbiamo potuto osservare di persona il soukous congolese va per la maggiore. In quell’area colombiana l’interesse per quello che poi l’occidente ha battezzato world music è iniziato in netto anticipo, all’insaputa di tutti. David Byrne e soci arriveranno soltanto un decennio dopo.
Come ci sei arrivato?
Ci arrivai scoprendo un blog chiamato Africolombia gestito da un ragazzo di B/quilla: Fabian Altahona Romero. Fabian ereditò parecchi dischi di musica africana dal fratello, e iniziò a digitalizzare tracce; parallelamente cominciò a caricare foto d’archivio di queste macchine sonore, colorate e intarsiate di formica colorata. Nel 2010 tradussi in italiano un’intervista che Revista Shock fece a Fabian e la pubblicai su palmwine.it. Nel frattempo altri blogger e globetrotter visitarono Barranquilla e apparvero i primi report online. La cosa è nascostissima eh, sia chiaro, però molti picoteros (proprietari di picos) riattivarono i loro sound e ne produssero dei nuovi dopo il successo ‘internazionale’ di Africolombia. Negli anni ’90 i picos si trasformarono infatti in impianti audio veri e propri; solo negli anni 2000 si ritornò a produrli artigianalmente. Un blog ha rianimato una tradizione locale, curioso no?
Ci potresti descrivere la Champeta?
L’origine del termine ha molteplici interpretazioni, così come molte terminologie che ruotano attorno al mondo dei picos. Letteralmente con ‘champeta’ si indica un coltello curvo, utilizzato principalmente dai colombiani di discendenza africana per lavori manuali e come arma. Il termine veniva utilizzato anche in maniera dispregiativa per identificare gli abitanti dei quartieri bassi. A quanto pare alle verbenas si andava armati di champeta, e questa pratica contemplava derive coreografiche. Di certo lo sanno spiegare meglio loro:
Champeta è il nome di un genere musicale autoctono che nasce sempre attorno ai ’70. La champeta storica viene definita champeta criolla ed è la fusione tra la musica africana e alcuni generi tradizionali colombiani; è una risposta autoctona alla diffusione massiccia della musica africana. La champeta oggi esiste anche in forma elettronica, è diventata forse meno energica e più melensa, ma resta uno dei generi più suonati nel nord della Colombia, nonché un motivo di orgoglio del caribe colombiano.
In “Negus” ci sono lunghe sequenza sui sound systems giamaicani, quali sono le differenze fondamentali, colore a parte? E dal punto di vista dell’uso che la gente ne fa, quali sono le affinità con i Picos?
Anzitutto va detto che la storia dei picos e dei soundsystem giamaicani crescono in parallelo, ma non c’è nessuna connessione diretta tra le due. I picos si differenziano dai soundsystem di tradizione giamaicana in termini estetici, tecnologici e di contenuto musicale. L’unica somiglianza è nella loro funzione: suonare ad altissimo volume in spazi aperti. In Giamaica si spinge sulle basse frequenze, in Colombia si fa attenzione anche alle medie, molti suoni se la giocano in quel range: chitarre e voce.
In generale i picoteros sono dei feticisti della propria macchina musicale, la lucidano, ritoccano i colori dei dipinti, la coccolano; in Giamaica invece si spinge più sulla potenza e la selezione musicale, il feticismo è anche lì, chiaramente, ma la funzionalità ha la meglio.
Potresti addirittura darci una playlist di musica da Picos?
Questa, storica, è ottima.
È stato più complesso costruire il film o produrre e importare i Picos per la mostra?
Il film ha le complessità di un film girato in una location per nulla semplice. È stato molto intenso, ma bellissimo; conviene spesso lasciar accadere le cose. E in Colombia ne accadono parecchie. È stato fondamentale avere a bordo Jim C. Nedd (Primitive Art) che è colombiano di Valledupar.
Rispetto alle complessità produttive e logistiche dei picos, girerei la domanda a Plusdesign. Da parte mia posso dire che quando l’altra notte ho ricevuto da Fabian le foto del primo pico caricato sul container sono svenuto.
Ci puoi raccontare le cose più folli o più interessanti che ti sono successe durante questi mesi colombiani?
Rischiare la vita tentando invano di fare surf al Parque Nacional Tayrona. Dormire in un pollaio a San Basilio de Palenque e intervistare all’alba uno dei fondatori di Sexteto Tabala. La verbena al barrio africano di Barranquilla, ogni domenica, un infuso di socialità mai vista. La prima volta che ho sentito un pico funzionare a pieno regime. Il rito degli shot di rhum, il primo va sempre a terra, per i morti.
Milano com’è messa con l’arte?
Be’, non male direi. C’è tanto, ma sentiamo la mancanza di istituzioni serie che investono sul contemporaneo, questo è davvero problematico.
Ci sono dei luoghi dell’arte che frequenti abitualmente e quali sono i luoghi dell’arte che ti piacciono di più?
HangarBicocca, Careof, Peep Hole, Marselleria, il negozio di Camilla Shame in Isola – non sono ancora stato alla nuova Fondazione Prada…
Hai vissuto sempre a Milano? Dove vivi? Con chi vivi?
Sono qui da ormai 7 anni, credo. Fedele all’East End, Lambrate. Vivo solo.
Che locali di Milano frequenti?
Faccio molta fatica ad affezionarmi a un luogo specifico, mi manca la vita di quartiere.
Purtroppo non esiste vita di quartiere a Lambrate, soprattutto i weekend. Ma il sabato mattina il mercato di Valvassori Peroni è imprescindibile, via Conte Rosso è sempre bella e ruspante e c’è la grande Esselunga di Rubattino. Poi a a due passi c’è via Ortica.
Più che locali frequento one-night come S/V/N o Brutto Posse l’ho frequentato tanto ma ultimamente un po’ o anche Progresso degli amici Primitive Art quando c’è.
Qual è la tua zona preferita di Milano? E tuo luogo preferito?
Lambrate. Ma amo la zona di via Padova e alcune striscie che si dipanano da Loreto. E tutto sommato adoro passare in auto nella recente galleria di Garibaldi. E su quel ponte che porta all’Isola.
Hai un ufficio? C’è un locale di Milano dove ti ritrovi per riunioni o appuntamenti di lavoro?
Si, abbiamo uno studio in Via Porpora. Ultimamente il Caffè Martesana in Via Gioia, per l’estate è un buon luogo.
Dove vai a bere? Qual è il tuo cocktail bar preferito? E il tuo drink?
Bevo un po’ ovunque, ma il Pravda resta il preferito. Moscow Mule.
E invece qual è il tuo ristorante preferito? E il tuo piatto?
Prediligo tartare, carne e pesce. Preferenze di ristorante: grande difficoltà, passo.
Quando stai a casa invece cosa fai? Cucini? Giochi ai videogiochi? Se stai su internet quali sono i tuoi siti preferiti?
Cucino raramente, ma capita a volte. Non gioco ai videogame e non ho la tv, ma a volte mi manca. Internet tantissimo, la notte cuffie e Soundcloud.
Sei appassionato di musica, compri dischi? Cosa leggi per tenerti informato sulla musica?
Si compro ancora molto vinile, ma anche tanto digitale, mi serve per suonare. Ho avuto per anni un abbonamento a The Wire, ora non più, leggo quindi lo stream di Twitter e trovo molti approfondimenti, su vari canali e blog oscuri. The Quietus in qualche modo ha sostituito le informazioni generiche sulle novità discografiche che prima trovavo su The Wire.
A Milano c’è un negozio dove ti rifornisci di musica?
No, ahimé.
Cosa compri?
Mimbo, banghi, malafu, tuba, toutou, doka, nsafufuo, yabra, emu, ogogoro, tombo, legmi, legbi, lebgi, segero, tuak, ubusulu, poyo.
Ci dici il più bell’album che hai comprato? E il tuo pezzo del momento?
Impossibile. Pezzo del momento… pure impossibile, ma in Jamaica ho sentito tantissimo “Shotta” di No Maddz e lo suono al mattino appena mi sveglio da qualche giorno.
In generale dove vai a fare shopping?
No ways.
Oltre alla musica hai altre passioni?
Cucina, arte, teatro e cinema
Il tuo film preferito? E il tuo libro?
Idem, impossibile da individuare. Sulla letteratura faccio molta fatica, ma tutto ciò che ha scritto Bolaño resta in cima alla lista.
C’è una libreria dove ti rifornisci assiduamente?
No, Utopia finchè era a Moscova… Ora compro solo on line.
Ci sono dei luoghi a Milano che alimentano le tue passioni?
Hangar Bicocca. Ma anche tanti altri spazi d’arte in base a quello che viene presentato. Riguardo al Cinema mi piace il Colosseo e quello piccolo all’inizio di Via Torino, non ricordo il nome. Lo Spazio Oberdan è sempre stato importante per varie ragioni, ma l’impianto audio è davvero problematico.
Qual è il club che preferisci a Milano e perché? E quello invece che non ti piace per niente e perché?
Non ne detesto nessuno, ma nemmeno ne amo uno in particolare. Il vecchio Dude mi piacevo molto, ammetto.
Dopo il club: after, casa, baracchino, night…?
Casa, ho ‘na certa…
Il dj milanese che ti piace di più?
Ti direi Dj Gruff, ma sta a Torino!
Qual è il party più fico a cui hai partecipato?
Non voglio giocare in casa, ma certe Hundebiss Nights in Via Cletto Arrighi restano highlight assolute.
Se avessi un budget illimitato che party organizzeresti?
Una nave da crociera che fa varie tappe accogliendo djs locali e pubblico ad ognuna di esse. Non è completamente un’idea mia, ma se il budget è illimitato posso pagare i diritti all’amico che me l’ha suggerita.
Se non fossi un dj e artista cosa ti piacerebbe fare nella vita?
Che ne so, il pescatore a Montego Bay?
Ti hanno mai stalkerizzato?
Magari!
Qual è la cosa più matta che hai fatto nella tua vita?
Il giro del mondo in due settimane.
Chi è il tuo eroe?
Haile Selassie I, l’icona intorno a cui gira il nostro lavoro Negus.
A CURA DI EMANUELE ZAGOR TREPPIEDI E LUCIA TOZZI