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Raffaele Costantino

L'Africa, l'elettronica, il jazz, Londra e Los Angeles. In occasione dell'uscita dell'album Black Noise 2084 e di un tour di presentazione con guest stellari, siamo andati a intervistare Khalab, al secolo Raffaele Costantino.

Scritto da Nicola Gerundino il 19 febbraio 2019
Aggiornato il 4 marzo 2019

Data di nascita

26 giugno 1976 (47 anni)

Luogo di nascita

Catanzaro

Luogo di residenza

Roma

Attività

Musicista

Due fustini al posto di uno, due interviste che si rincorrono in una sola. Da un parte un musicista che risponde al nome di Khalab, autore di “Black Noise 2084“, album come pochi ne sono usciti dai patri confini nel 2018; dall’altra Raffaele Costantino, figura che da almeno un paio di decenni anima la musica a livello cittadino (Roma) e nazionale, a partire dall’attuale conduzione radiofonica del programma Musical Box, su Radio 2, passando per serate, festival e curatele in lungo e in largo. L’Africa, il jazz, la scena londinese, quella di Los Angeles e infine quella italiana: c’è di tutto e ce n’è per tutti. Una chiacchierata piacevole, franca, ricca di spunti quanto priva di peli sulla lingua, come raramente ne abbiamo fatte qui su ZERO. Appuntamento con il live di presentazione di “Black Noise 2084” il 2 marzo all’Auditorium Parco della Musica, segnatevi la data perché la formazione è da grandi occasioni: Tenderlonious ai fiati e Sarathy Korwar alla batteria.

 

Uno si gira un attimo e ti ritrova in tour con Tenderlonious e Sarathy Korwar: che è successo?

Be’, mi sa che ti sei girato per più di un attimo! Con Tenderlonius e Sarathy sono in contatto da tempo. Tenderlonious l’ho conosciuto quando è venuto a registrare una session per Musical Box insieme ai suoi Ruby Rushton, poi, anche su consiglio di Denis Longi, il direttore del Jazz:Re:Found, ho deciso di chiamarlo a suonare con me e Moses Boyd in un trio speciale commissionato da RedBull Music per il festival. Sarathy invece ha suonato la prima volta con me a Londra a settembre dello scorso anno. Avevo già fatto altre date con Moses Boyd alla batteria, ma è successo che un giorno, per una presentazione privata del mio album, Moses non potesse e così Pete (il boss dell’etichetta On The Corner) mi ha proposto Sarathy e ne sono stato subito entusiasta. Lo seguo da molto, apprezzo quello che fa e lo spirito con il quale si confronta con la musica. Sarathy è molto spirituale, Tender è un pazzo buono: mix strano…

Che poi la formula trio non ha visto e non vedrà solo questi due musicisti affiancarti, ma anche Tommaso Cappellato e Moses Boyd, per l'appunto.

Il trio è il modulo con cui si scende in campo, ma la rosa è ampia. Sarahty e Tenderlonious sono una formazione, Tommaso e Tamar “Collocutor” Osborn un’altra. Il live con Moses Boyd e Tamar è stato un successo a Londra, così come quello con Moses e Gabin Dabyre alla preview del FAT FAT FAT Festival lo giugno scorso. A Torino, il live con Moses e Tender è stato davvero intenso. Penso ci sarà occasione anche per qualche data speciale con Shabaka, ma per ora nulla di ufficiale. Tutti i musicisti che hanno partecipato al disco sono in squadra anche per il live. Dipende da diversi incastri. In ogni caso, le date da fare saranno un bel po’, quindi credo ci sarà spazio per sperimentare tutte le combinazioni.

 

È difficile riprodurre uno stesso live con così tanti musicisti diversi?

Il live ha sempre la stessa struttura perché sono io che la monto in tempo reale, ma tenendo conto delle peculiarità dei diversi musicisti. Con Moses c’è molto feeling ritmico, con Sarathy diventa tutto più spirituale, con Tommaso non serve dirsi nulla, con Tamar si acquisisce più melodia e una timbrica più free jazz, mentre con Tenderlonious c’è molta tensione, con lui non sai mai cosa può succedere.

Suonerete tutto il tempo in trio o ci saranno alcune parti solo elettroniche?

Saremo sempre in tre sul palco, ma ci saranno spazi per i vari soli in puro stile jazz, ci saranno dei momenti in cui io mi farò da parte e altri in cui sarò l’unico a suonare. La parte elettronica comunque sarà quasi sempre predominante, proprio come nel disco.

Parliamo un po' di "Black Noise 2084". Io dico una parola: bello. Me ne trovi altri cinque per descriverlo? E non devono essere bello, bello, bello, bello, bello.

Scuro. Corto. Ansiogeno. Frenetico. Contraddittorio.

 

Com'è nato quest'album?

Il suono del disco – che per me è la cosa più importante – nasce da anni di studio della materia e del suono “Khalab” in generale. “Black Noise 2084” è una parte di questo percorso concettuale che raffigura nella mia mente dei paesaggi ben precisi e la sfida sta nel riuscire, prima o poi, a trasferirli perfettamente nella musica. L’ispirazione, invece, è nata da un invito del Royal Museum For Central Africa di Bruxelles a utilizzare il suo archivio di field recording del periodo coloniale. Il disco è una celebrazione della fine della schiavitù, ma con una data che non è ancora arrivata: 2084, appunto.

Ci sei stato su tanto o la lavorazione del disco è stata una di quelle veloci e tutte d'un fiato, così come è l'ascolto dell'album, che praticamente è impossibile da interrompere?

Io dico sempre che nella musica la cosa più importante è la sintesi, senza la sintesi non esiste evoluzione, quindi sono molto felice di questa tua osservazione. Le dieci tracce del disco sono la sintesi di due anni e mezzo di lavoro, di studio degli archivi, di campionamenti diventati a loro volta un mio archivio/database, di sessioni di registrazione con i musicisti, di ricerche di laboratorio, di confronti con altri artisti e label. Non è stato per nulla breve quindi, ma non posso dire che sia stato faticoso, anzi, mi sono divertito così tanto a farlo che ho realizzato molte più tracce di quelle presenti nel disco: alcune tra quelle lasciate fuori sono davvero molto belle, con collaborazioni illustri e potenzialmente più “pop” – motivo per cui sono state escluse, dovessimo diventare ricchi eh?! Magari le farò uscire in altri modi.

Sbaglierei se dicessi che è un album “pelle e ossa”, dove ci sono solo suoni essenziali?

No, come dicevo prima, c’è tanta sintesi: i suoni sono molti, ma non si notano perché questa amalgama sonora compatta fa parte della mia ricerca. Però sì, in generale togliere è sempre l’esercizio più utile. Personalmente poi, non sono un amante delle grandi melodie, né delle armonie troppo cariche, quindi nel disco se ne trovano davvero poche, basti pensare che l’unico pezzo del disco che ha un testo l’ho registrato con Tenesha The Wordsmith, che è una poetessa e fa spoken poetry, per cui non c’è canto. I pezzi cantati e con dei ritornelli li ho tutti tolti dal disco.

 

Tra i tanti artisti che hanno collaborato a "Black Noise" spicca certamente Shabaka Hutchings, al quale hai già accennato precedentemente. Con lui com'è andata?

Ho conosciuto Shabaka tre anni fa, quando mi ha chiesto un remix per un singolo del suo bellissimo progetto Melt Yourself Down. Così, quando è arrivato il momento di lavorare al mio disco, mi ha restituito il favore, anche grazie all’insistenza di Gilles Peterson, che dopo aver sentito il mio demo gli ha detto: «Dovete fare assolutamente questo pezzo insieme». Shabaka è un ragazzo speciale, molto timido, ma molto determinato. Un musicista che lascerà il segno in questa nostra epoca musicale, verrà ricordato per molto tempo e sono molto fiero di avere a che fare con lui e la sua ispirazione. Purtroppo – o meglio, per fortuna per lui – è molto impegnato e quindi non si riesce mai a suonare insieme, anche il pezzo del disco lo abbiamo dovuto registrare a distanza, ma, come ti dicevo, ci sono tutte le intenzioni di fare un paio di cose speciali insieme.

Shabaka è tra i nomi più attivi e prolifici della nuova scena jazz londinese. Tu che ne sai di più: che sta succedendo da quelle parti? È semplicemente nata una generazione di fenomeni o ci sono altri fattori che hanno fatto riesplodere questo genere nella City?

A Londra sta succedendo una cosa molto semplice, cioè che i giovani musicisti jazz sono gli stessi che affollano le serate nei club. Se la notte ballo l’elettronica nelle sue mille forme e in molti casi faccio anche il dj – vedi Moses Boyd – e di giorno studio Art Blakey, Pharoah Sanders e tutta la galassia afroamericana, allora il mix può essere devastante in termini di aggregazione, oltre che di stimoli creativi. Ecco, quello che molti non capiscono è che la forza di questa rinascita non è legata alla bravura tecnica, perché nessuno ha più voglia di fenomeni, ma è legata alla capacità di unire due mondi – quello del jazz e quello del clubbing – sotto un unico movimento, che sta crescendo naturalmente e altrettanto naturalmente sta riconoscendo i suoi “leader”. Moses e Shabaka sono sicuramente tra i più carismatici – ed anche tra i più bravi – ma la scena è molto grande e ha chiaramente trovato in Gilles il solito pilastro al quale poggiarsi. Alla scorsa edizione del Field Day a Londra c’erano migliaia di giovani e giovanissimi che ballavano tanto durante i concerti jazz quanto durante i set di Floating Points e Four Tet, e questo la dice lunga. Io lo chiamo “post jazz”.

 

Di questa scena quali sono i progetti e gli artisti che più ti hanno colpito?

Shabaka nel suo progetto con gli Ancestors ha raggiunto vette difficili da superare – e non parlo solo a livello Uk. Poi adoro il free jazz dei Collocutor, capitanati Da Tamar Osborne, mi è piaciuto tantissimo il lavoro di Yussef Kamaal, che è stato importantissimo per il rilancio del jazz a livello mondiale. Poi tanti altri: Planet Battagon, Maisha, Bakar, 1000 Kings, Theon Cross, etc.

Dall'altra parte dell'oceano c'è un'altra scena jazz molto attiva, quella di Los Angeles, che ha in Kamasi la figura totemica, ma ha anche tanti altri artisti validi, sui quali magari c'è un po' meno hype rispetto ai colleghi londinesi. Ad esempio, negli ultimi mesi personalmente ho consumato l'ultimo album di Sam Wilkies.

Be’, adesso far fare la parte della vittima con poco hype alla scena di L.A. mi sembra davvero troppo! A parte gli scherzi, c’è da dire che da quelle parti ci sono state così tante cose rivoluzionarie che è difficile tenere i fari accesi su tutto. E poi lì le cose si incrociano molto bene: se pensi ai casi più eclatanti degli ultimi 10 anni arrivati da Los Angeles – Flying Lotus, Kendrick Lamar e lo stesso Kamasi – ti accorgerai che con tutti e tre ha collaborato la stessa identica scena. Chiaramente i fari sono puntati su di loro, ma tutto intorno si sviluppa un mondo pazzesco, compresi centinaia di beatmaker molto jazz: Madlib su tutti, ma anche Ras G, Jneiro, MNDSGN o lo stesso Sam Wilkies, tutta gente che a livello concettuale è molto più avanti degli inglesi. Insomma, Los Angeles non si batte, impossibile! Lì si cambiano proprio le regole del gioco. Per me la scuola di Los Angeles è da sempre una grande fonte di ispirazione.

Ti chiedo progetti e artisti più interessanti anche di questa scena.

Oltre ai più conosciuti, direi Carlos Niño, Dexter Story, Brandon Coleman, Miguel Atwood Ferguson, Te’Amir, Sudan Archives etc. etc. etc. etc. etc. etc.

 

Niente niente il jazz è tornato di moda? Che effetto fa vedere questi suoni uscire dalla nicchia: più soddisfazione o più un: «Ma ve possino... Ma fin'ora dov'eravate?».

Direi un po’ più «Ve possino…». Però quelli come me, che da sempre provano a far sedimentare questi suoni in Italia, non si possono lamentare ora, anzi, questa dovrebbe essere considerata una vittoria. Ho fatto una serata dedicata a questo sound a La Palma più di dieci anni fa, e da dieci anni su Musical Box c’è una rubrica che si chiama “Sì, mi piace il jazz” (su Radio2!!!). D’altra parte, sono certo che qui in Italia è solo una questione di moda, tra un paio d’anni finirà tutto, quindi non ci faccio molto caso. Io non l’ho mai fatto per evangelizzare qualcuno, ma perché mi appassionava e perché ho trovato il modo per confrontarmi con un mercato che invece ha la buona musica come contesto centrale, quindi nessuna frustrazione repressa. Sono anche felice che almeno un po’ di “hypster” si siano affacciati a questi suoni e abbiano scoperto che sono molto più freschi di quello che pensassero. Ascoltare la buona musica crea di sicuro un buon precedente, ma l’Italia non è comunque pronta per questo, forse lo sarà tra 20 anni. Nel resto del mondo, invece, questo processo non si è mai arrestato, soprattutto perché il resto del mondo di cui parlo è un mondo afrocentrico. Londra, New York, Parigi, Los Angeles, Atlanta etc., sono luoghi dove la cultura nera è molto presente e influente, quindi quel tipo di laboratorio non smetterà mai di creare nuovi innesti e nuovi step evolutivi.

Sul versante afro - separazione dal jazz un po' forzata, ma lasciamela passare - invece siamo ormai in un momento d'oro consolidato: oltre alla (ri)scoperta di tanti artisti, ci sono anche contaminazioni di ogni tipo, a partire proprio dall'elettronica e dal clubbing. Insomma, se cinque/dieci anni fa eri obbligato a mixare indossando una maglietta nera e slabbrata, ora non sei nessuno se non hai una camicia sgargiante e tropicale.

Ahahahahahah! Be’, anche qui c’è da fare una grande differenza tra l’Italia e il resto del mondo. Tantissimi dj hanno sempre avuto la borsa piena di “bonghi”: se ci pensi, l’Africa è nelle borse di dischi di tutti i dj, anche di quelli più minimal con la maglietta più slabbrata e tagliata strana. Io, come sai, ho il mal d’Africa da 20 anni: in consolle, come in radio, ho suonato hip hop, eletttronica cervellotica, breaks: di tutto! Ma l’ho fatto sempre tenendo l’Africa al centro. La vera minaccia è proprio questa moda della camicetta, hai ragione. Questa idea che il tropicalismo sia una camicia floreale e un chiavetta usb piena di cose latine più o meno trash è davvero brutta. Io li manderei davvero ai tropici, a vivere in un villaggio vicino a una foresta piena di zanzare che gli massacrano le gambe a 45° all’ombra, con l’umidità al 90% e senza il wifi per pubblicare i selfie con la camicia – che intanto qualcuno gli avrà rubato minacciandoli con un macete…

 

C'è il rischio che questo interesse diventi un'occasione sprecata e non si riscopra abbastanza di questa musica, che non si raggiunga una massa critica di conoscenza, per cui tra qualche anno ci saremo scordati di tutto e dovremo ricominciare daccapo?

Ma sai che invece, secondo me, il lavoro di ricerca scende sempre più nel profondo? Si aprono mille porte della conoscenza e dell’intrattenimento. Pensa per esempio al bellissimo lavoro di divulgazione che fa Analog Africa, la stessa On The Corner, Nyege Nyege, la Strut, Awesome Tapes From Africa, ma anche la Honest Jon’s, ad esempio con la bellissima compilation sul guarapo in Colombia, curata anche dall’ottimo Simone Palm Wine. Chiaramente parlo di gente vera: di studiosi e professionisti da una parte e di veri appassionati di musica dall’altra, non dei consumatori di moda, quelli non mi sono mai interessati, altrimenti in radio starei suonando la trap e l’indie italiano – verso i quali non ho nulla in contrario, sia chiaro. C’è così tanto materiale, sia tradizionale che sacro, profano, contemporaneo, urbano. Qualche settimana, ad esempio, fa ho dedicato una puntata di Musical Box alla scena musicale dell’East Africa (quella urbana/contemporanea) e ti assicuro che ci vorrebbe un mese intero di trasmissione no stop per raccontare solo quella macro area. Pensa il continente intero! In ogni caso, in Italia sì, il rischio c’è. Prendi la cumbia: sta venendo trattata in maniera molto superficiale e modaiola, per cui ho paura che tra un anno o due la gente dirà: «Ancora con la cumbia? non sai che ora va di moda l’ambient reggaeton cantato in napoletano?» Intendo dire che la maggior parte delle persone non scende in profondità e rimanendo in superficie abbandona facilmente ogni cosa. Le mode sono odiose da questo punto di vista, dannose quasi come il concetto di patria. Poi, chiaramente, c’è chi prova ad approfondire e divulgare, e lo fa bene, con una grande preparazione, anche se non riesce essere abbastanza “pop” nella trasmissione del messaggio – o non gli importa di esserlo. Penso a Marco Boccitto, Mauro Zanda, Enrico Bettinello, Pino Saulo e la squadra di Battiti. Ma anche ai giovani che si stanno appassionando seriamente alla faccenda. Da questo punto di vista a me piace molto Megan Iacobini de Fazio: giovane, preparata, appassionata, fluente in inglese, sempre in viaggio. E infatti lavora a livello internazionale. Quindi sono molto ottimista. Poi ci sono cose che mi danno fastidio, come nel caso di Davide Toffolo (Istituto Italiano di Cumbia, nda), che segue una passione vera, prova ad approfondire e raccontare e viene subito tacciato di appropriazione culturale indebita. Ma immagino non sia questa la sede per aprire questo dibattito e Davide ha le spalle abbastanza forti, per fortuna.

 

In Italia che sta succedendo invece? Come ti sembra il panorama musicale nazionale?

Per chi ama il pop credo sia un bellissimo momento. Da questo punto di vista siamo in un periodo talmente fertile che anche tutta una parte più alternativa è stata risucchiata dalla spirale e sembra lobotomizzata di nuovo dalle canzoncine post adolescenziali: gente che prima si vantava di non avere neanche la tv per dimostrare il distacco dal sistema mediatico e culturale più mainstream, ora passa un’intera settimana a discutere appassionatamente della musica (???!!???) di Sanremo. Ecco, credo che in questo Paese non si sfuggirà mai dalla cultura sanremese: anche se verrà travestito con parole diverse, tipo indie o trap, continueremo ad essere schiavi del pop. E non mi riferisco ai ragazzini o ai fruitori occasionali di musica, parlo della “scena”, sia degli addetti ai lavori che hanno capito che se non si fanno piacere Cosmo o Calcutta non vanno da nessuna parte, perché il mercato sta lì – anche perché, per occuparti di cose serie, a livelli seri, devi essere davvero preparato e non puoi bluffare – sia degli appassionati che si occupano di musica sui social tutti i giorni, atteggiandosi da veri esperti professionisti. Chiaramente non è tutto nero, le stesse persone che ora sono appassionate di pop italiano – che sia indie, trap o hip hop – poi comunque sono le stesse – o si aggiungono a quelle – che frequentano i club o i festival degni di nota. Sull’altro piatto della bilancia, bisogna sottolineare l’evolversi di realtà consolidate e importanti su tutto il territorio, quindi diciamo che il seme è stato piantato bene. Non le nomino perché il rischio di dimenticarne qualcuna è troppo alto, ma ci sono molte realtà preziose in Italia e potrebbero anche essere molte di più e con maggiori riscontri se il loro pubblico potenziale non fosse distratto da concerti nei palazzetti di artisti che fanno “musiche per sedicenni davanti a un pubblico di quarantenni”. Detto questo, la gente ascolta quello che vuole ed è giusto così, io ho solo questa strana sensazione di vivere in un fenomeno alla Benjamin Button: un costante percorso a ritroso in cui ascoltiamo la musica classica quando siamo nella pancia di nostra madre e arriviamo ad ascoltare le stronzate pop – che ci parlano di droghe, sesso e amori estivi – a 40 anni. Diciamo che la mancanza di maturità è davvero un tema centrale della nostra generazione e la musica ne amplifica solo il segnale, non trova certo la cura. E poi anche basta con questa storia del campanilismo. Questa necessità di supportare la musica italiana mi sembra molto simile al “Prima gli italiani” di Salvini. Massimo supporto alla buona musica, a prescindere da dove sia prodotta. Mi sembra molto contraddittorio parlare tanto dei diritti umani, degli abbattimenti delle barriere, dei confini geografici e poi insistere su questo tipo di nazionalismo. Chiaramente questione diversa è parlare dell’industria musicale in Italia, come alcuni più seri invece stanno facendo.

Tra i semi piantati possiamo citare tanti artisti che si muovono molto sui terreni della contaminazione. In "Black Noise 2084" ci sono Tommaso Cappellato e Clap! Clap! e a loro possiamo aggiungere i vari Populous, Go Dugong...

Sì, parliamo di micro nicchie e di macro differenze. Andrea (Populous) è molto pop in Italia perché, oltre a essere un produttore bravissimo dotato di una eleganza pazzesca, centra in pieno il gusto musicale del momento in ogni suo nuovo disco. È un personaggio molto pop e lo è in maniera naturale, senza forzature. Anche i suoi flirt con il “pop post adolescenziale” – che non condivido, perché io e lui siamo molto diversi come stile di vita, percorso musicale e background – risulta molto naturale e si riconosce che è parte del suo essere entusiasta. Andrea è un leader naturale, di nuova generazione, di quelli che non devono mostrare forza, ma grazia. Chiaramente è credibile anche a livello internazionale, ma quello lo è da sempre, perché quando lui faceva i dischi con la Morr Music – e in quel genere, secondo me, dava il meglio – noi ancora ci stampavamo le cassette da soli. Cristiano (Clap! Clap!) è un fenomeno mondiale: è caciarone, jazzista, è uno che sotto banco, senza neanche dirlo a nessuno, fa le musiche per film e mega videogame, vince premi, collabora con i mostri sacri, studia tantissimo. Lui è un vero genio, oltre che un fratello. Ecco, diciamo che in termini di risultati non lo paragonerei con nessuno di noi.

 

 

Giulio (Go Dugong), secondo me deve ancora trovare la sua strada, ma è molto bravo in studio, è un entusiasta e ha il carattere giusto per essere un collettore della scena perché è molto umile, appassionato e sincero. Comunque, effettivamente, ne stanno uscendo fuori tanti, alcuni forse un po’ troppo figli della moda del momento, quindi li aspetto sulla lunga distanza, altri poco consapevoli e quindi ancora poco credibili, altri promettenti. Bisogna dire che la selezione è molto dura, perché in questo ambito ci si trova a competere con chi vive in contesti sociali molto più stimolanti e contaminati dei nostri, quindi il fatto che artisti come Clap! Clap! o Khalab riscuotano credito a livello internazionale è a metà tra il miracolo e la sculata – parlo di questo specifico ambiente musicale, quello “nero”. L’importanza di viaggiare, formarsi, tenersi informati, partecipare attivamente alle scene internazionali è fondamentale. In questo Tommaso Cappellato è un ottimo esempio, ma anche Lorenzo BITW, che io adoro. Ora, la mia sensazione, se conosco bene la scena Italiana e le leve che la muovono, è che sta per arrivare una ondata di rivisitazione della tradizione musicale italiana (quella folk) in chiave contemporanea/elettronica. Chiaramente parliamo di una materia potenzialmente stimolante, sulla quale, per esempio, con Clap!Clap! stiamo ragionando da tempo. Io e lui ci fasciamo molto la testa su queste cose, ma ho paura che anche in questo caso tutto verrà sfruttato senza un grande approfondimento e con dinamiche mordi e fuggi che potrebbero bruciare tutto.

 

Oltre agli artisti italiani che sono presenti sul tuo album, ce ne sono altri che ti hanno catturato?

Tantissimi. I C’mon Tigre, che ho supportato da subito, i Nu Guinea, sin dai loro primi ep, i Mystic Jungle Tribe, Panoram, AD Bourke, Neel, i Phresoul, anche se per un terzo sono inglesi. Macweo, che secondo me è molto promettente, mi piacciono molto le armonie di Godblesscomputers, adoro l’attitudine di Capibara. Nutro molta stima anche per l’attitudine di Motta: mi piace molto musicalmente. Una volta ho chiesto alla sua casa discografica – su loro richiesta di feedback sul disco – di mandarmi solo le strumentali da suonare in radio e mi hanno gentilmente mandato a cagare, ma io volevo solo sottolineare il suo modo di fare bella musica, oltre a essere un cantante.

Io mi lamento sempre che in Italia ci sono pochi canali per far conoscere e ascoltare musica che non sia quella da radio generalista. Uno dei pochi lo hai in mano tu, Musical Box. Che esperienza è stata ed è per te tutt'ora?

Musical Box è un presidio! È una creatura delicata, non facile da tenere in vita, esposta ai mille problemi della cultura italiana, ma, per fortuna, supportata da dirigenti Rai illuminati e da una base sempre in crescita di ascoltatori che le danno la forza di rimanere in piedi. I canali come Musical Box sono a rischio proprio per questa tendenza a seguire sempre e solo quello che produce numeri facili, il mainstream. Al contrario, io credo che la responsabilità di una trasmissione così prestigiosa, su un canale così prestigioso, sia proprio quella di non seguire e assecondare i gusti delle masse, semmai di provare a indirizzarli o per lo meno ad allargarli. Oggi, vista la facilità con la quale si può aprire la propria radio online o il proprio canale Mixcloud – ma anche solo fare il capo redattore della propria pagina Facebook – si tende a sottovalutare l’importanza della commissione. Quando la Rai ti chiede di fare una trasmissione del genere, devi tenere ben in mente la responsabilità che ti sta dando e ogni puntata deve essere fonte di studio, ricerca, selezione altissima e passione.

In generale, che ne pensi della comunicazione della musica in Italia? Andremo avanti a podcast di NTS o Boiler Room su Youtube per molto tempo ancora?

Be’, credo che sia normale dipendere da questi media che hanno un bacino d’utenza più ampio e parlano una lingua comprensibile in tutto il mondo. Che problema c’è nel seguire media internazionali? In Italia siamo bravi a fare altro, ecco perché dicevo che molti giornalisti musicali si stanno sperticando nell’elogiare la nuova musica italiana: hanno capito che per loro il vero sbocco può essere lì, dove c’è mercato e dove magari c’è meno concorrenza da parte di quelli bravi che stanno in giro per il mondo, soprattutto in Uk. Non che qui non abbiamo quelli bravi eh, sia chiaro. Poi c’è anche da dire che abbiamo le nostre roccaforti. A parte Musical Box e In The Mix su Radio 2 – Babylon è già in un filone più pop, anche se fatto benissimo – ci sono Battiti su Radio 3, Mauro Zanda su Radio 1 e tante altre piccole radio locali. In streaming c’è l’ottima esperienza di Radio Raheem – la più interessante, che però, forse, sta peccando di poca selezione in entrata – i podcast di Mixology, la romana U-FM, La veronese Rocket Radio, etc. Certo, se mi chiedi se esiste qualcosa di originale rispetto a quello che arriva da Londra o da Los Angeles/New York, quello no. Ma non bisogno per forza essere sempre e solo originali, a volte basta far bene le cose, con credibilità. Comunque, che sia importata o autoctona, è chiaro che la divulgazione musicale sarà sempre più on demand e specializzata e vinceranno quelli che saranno in grado di farla con preparazione, credibilità e visione.

 

A proposito di radio, che effetto fa essere uno dei dischi del 2018 consigliati da BBC Radio 6?

Fa parte di questo straordinario percorso di riconoscimenti che Khalab sta ricevendo a livello Internazionale: fanno piacere, ma sono i suoi, non i miei. Io faccio radio su Radio 2 ed è da sempre un grande onore: è il meglio che ti possa capitare se fai radio in Italia. Khalab fa i dischi e li suonano sulla BBC: ed è il meglio che ti possa capitare in Uk.

Tornando al live, la data di Roma è fissata all'Auditorium Parco della Musica, che per te è stato per un bel po' una seconda casa. Cosa ti è rimasto delle esperienze di Meet In Town?

La barba bianca e i capelli caduti! Meet In Town è stato un’esperienza bellissima. Hai potuto vedere con quanta passione lo abbiamo fatto e con quanti sacrifici. È stato intenso e anche molto formativo, ma sono molto felice di non farlo più.

Come la vedi Roma dal punto di vista degli eventi e dell'offerta culturale? Visto che siamo in tema di Auditorium, io ormai a malapena ricordo com'è fatto perché c'è veramente poco di interessante per la musica da quelle parti e ci vado sempre meno.

Dal punto di vista degli eventi notturni, Roma non saprei raccontartela, perché non la vivo più. Sono sempre in giro per suonare o per seguire vari progetti, le sere del week end ho la radio, poi mettici pure che ho una famiglia con la quale adoro passare il mio tempo… Insomma, poca Roma notturna ormai. Vado a vedere in maniera specifica quello che mi interessa e in orari decenti, ma so quello che succede di notte per sentito dire o perché mi arrivano i comunicati stampa o i vari inviti dei promoter, che spesso sono anche amici. Mi pare che ci siano sempre molte cose da fare. Io personalmente adoro Romaeuropa (soprattutto per la danza), mi piace moltissimo l’offerta e l’approccio de La Fine, vado sempre volentieri al Monk, anche se molto lontano da casa mia, mi manca il Quirinetta in centro, mi ha un po’ deluso la programmazione dell’Alcazar. Non sono un grande fan della street art, soprattutto quando viene messa nei musei o celebrata dalle istituzioni, e sono un po’ infastidito da tutta questa importanza celebrativa che si dà al cibo. Sono un fan del lavoro che Cristiana Collu sta facendo alla Galleria Nazionale (con la quale ho anche fatto delle cosine insieme), sono un frequentatore del MAXXI (dove adesso quei cialtroni che gestiscono la parte bookshop/bar hanno chiuso, quindi il museo è senza un punto importante della sua quotidianità). Collaboro sempre volentieri con il Roma Jazz Festival e condivido con te il rammarico per la programmazione dell’Auditorium anche se, sinceramene, non saprei con chi prendermela. Non saprei se la colpa è di chi programma o della mancanza di curiosità del pubblico che non risponde adeguatamente, facendo smorzare gli entusiasmi. In fondo è pur sempre una questione di mercato, di rapporti tra domanda e offerta e non mi pare che ci sia tutta questa domanda. Vedi il discorso sul pop che abbiamo appena affrontato.

Sarai in giro con il Khalab Trio anche in estate?

Sì, certo. Penso che dopo queste date italiane imminenti annunceremo il resto tour in trio all’estero e i live in solo.

Ultima curiosità, se dico Hyperjazz che mi rispondi?

Ehehehe, nessun segreto! Insieme ad amici, collaboratori e partner di una vita ho deciso di aprire una mia label per completare il cerchio in ambito divulgativo. Faccio il consulente musicale, ho il mio show in radio, faccio i dischi e li suono dal vivo: mancava la label, che è un mio obbiettivo da più di dieci anni, ma ci dovevo arrivare carico e sicuro. Sarà coinvolta una grossa fetta del mio network.