Ei fu hater per onestà, ancor prima che per professione. Matteo Lenardon, in rete noto – molto noto – come il Bucknasty autore di 7yearwinter, uno di quelli che, fra i primi, hanno fatto di una lingua tagliente come la spada di Darth Vader il proprio crisma su un blog, oggi è cresciuto. E vuol far brutto anche in televisione.
Dopo aver campato scrivendo per le riviste e lasciato sempre il suo marchio di fabbrica – qualcosa tipo la Coca Cola versata sulla vostra ringhiera rugginosa e lasciata lì un paio di settimane – ha curato per Zero, nel 2012, 15 giorni di Open, una residenza ai tempi pensata per riflettere su quanto, la tecnologia, avesse rivoluzionato discipline diverse.
Allora gli lasciammo carta bianca. Forse l’unica che a lui interessi davvero. Ne ottenemmo due diavolerie tecnologiche presentate in anteprima europea, un incontro fra le startup italiane più promettenti e una giornata con dei rapper poco più che quindicenni entrati nell’Olimpo delle rime pochi mesi dopo. Per intenderci, immaginate Gemitaiz e MadMan che chiedevano il permesso di fumarsi una sigaretta. Nemmeno truccata.
In cambio, oltre a un cospicuo assegno, Matteo collaborò per la prima volta con uno dei suoi lettori più accaniti: J-Ax. Proprio quell’incontro diede il proverbiale la alla nuova vita del blogger, fatta di scrittura per la televisione, idee, palinsesti, riunioni coi “creativi” e i direttori di rete. A distanza di 4 anni, dopo aver collaborato a programmi come Lorem Ipsum su Deejat Tv, The Voice of Italy 2 e 3, E poi c’è Cattelan o Sorci verdi, oggi Matteo ci racconta la sua prima vera prova del fuoco: Top Gear, il programma di motori più visto al mondo che condotto da Guido Meda, Joe Bastianich e Davide Valsecchi, debutta stasera su Sky Uno HD. Detta tutta, Zero la sera esce. Ma ‘sto giro i testi sono di Matteo, come quel «piccolo input» che ha permesso al programma di arrivare in Italia. Non potevamo aspettare occasione migliore per chiacchierare con lui, di lui, del suo lavoro, di Milano e tutto quanto.
Zero – Chi sei?
Matteo Lenardon – Sono Matteo e tralascerei il secondo nome – di cui ci permettiamo di svelare solo il genere femminile e il forte rimando spirituale, nda -, un trentaduenne nato a Milano.
Pensavo avessi origini friulane.
Mio padre era friulano, di San Martino Tagliamento, un posto minuscolo vicino Pordenone, e mia madre siciliana di Roccella Valdemone, comune della valle dell’Alcantara.
Veniamo subito al dunque: Top Gear è uno dei format motoristici fra i più noti al mondo. Che cosa puoi dirci in anteprima della versione italiana?
Poco, se no rischio di pagare una penale che levati. Posso però dire di essere stato fortunato, perché tutto è nato da un mio piccolo input: nell’agosto di due anni fa sono a Pescara, su una bella sdraio, e mando al boss di Toro Media, Marco Tombolini, un messaggio tipo: «Non ho mai capito perché in Italia nessuno abbia fatto Top Gear», che è probabilmente la trasmissione più figa al mondo e, da noi, troverebbe un setting naturale. Insomma, in Italia tutti amano o il calcio, o le automobili, o la figa. Visto che la figa non possiamo metterla e il calcio già abbonda, il cerchio si restringe…
Perché «la figa non potete metterla»?
Vabbe’, perché in ‘sto programma non ci sta. Ma non escludo qualcosa di dedicato si possa pensarla in futuro – ride. Comunque, mando questo messaggio che non è nemmeno un pitch e mi immagino una risposta di quelle evasive, tipo «In effetti hai ragione. Non so perché la trasmissione non si sia mai fatta» e invece Tombolini mi scrive: «Sono d’accordo. Lo compro». Non una boutade, sia chiaro: Toro ha prodotto The Voice of Italy, Il più grande pasticcere su Rai Due e mille altre cose. Il socio di Tombolini è l’inventore dei pacchi su Rai Uno, professionisti che fanno televisione da anni.
Per farla facile, da lì è partito un processo di acquisizione piuttosto lungo, nel quale, proprio grazie a Marco, sono stato sempre coinvolto e aggiornato, cosa non scontata: dai contatti con la Bbc, proprietaria del format, alle riunioni a Cannes con l’inventore dello show. In Francia ci chiesero cosa volessimo fare del programma e da lì tutto prese una piega diversa, con la chiusura dell’accordo appena dopo.
Perdonami, spiega ai non addetti ai lavori come funzioni una trattativa di questo tipo.
In sintesi il creatore di un programma, o chi ne detiene la proprietà, deve acconsentire all’acquisizione dei diritti. La Bbc è notoriamente attenta a come si tratti il suo brand e Top Gear è il suo prodotto di punta, con un’audience di 350 milioni di spettatori al mondo e un fatturato annuo di 60 milioni di pounds (è nel Guinness dei primati come programma factual più visto della Terra, nda). Sono cifre pazzesche. Motivo per cui proprio per questa licenza l’attenzione è massima e implica una serie piuttosto lunga di vincoli da rispettare.
Descrivi, a chi non lo conoscesse, il programma e quali modifiche avete potuto apportare all’edizione italiana.
L’idea del programma è semplice, mettila così: l’Italia è il posto con le più belle automobili al mondo, solo che da noi chi le racconta è un uomo di mezza età con il golfino cashmere color pastello legato al collo. Una cosa noiosissima; cioè, siamo capaci di rendere noiose persino delle supercar da 800 cavalli. Invece Top Gear è un programma nato in un Paese che, a parte Jaguar e pochissimo altro, non ha mai avuto una tradizione automobilistica affascinante, eppure è capace di coinvolgere chi non provi il minimo interesse per i motori.
Le statistiche della Bbc dicono che il pubblico di Top Gear si divide a metà fra donne e uomini. Ci hanno spiegato il perché dicendo che il programma è «un viaggio nella mente maschile» e la mente maschile è un buco vuoto, una stanza con dentro nulla. Le donne sono affascinate dal vedere le stronzate che fanno gli uomini. Per questo tutti guardano Top Gear.
Interessante; e questo ha implicato qualche ritocco, per donne e uomini italiani, o siete fedeli all’originale?
Considera che il format è diffuso in 230 Paesi, dalla Cina agli Stati Uniti. Noi abbiamo deciso di attenerci fedelmente alla sua versione inglese, con uno studio, assente in America, lo stig – il test driver dall’identità segreta -, i power test su pista e le prove professionali sul nostro circuito.
Dov’è?
È un po’ la nostra Area 51, non posso dirtelo, anche se temo ormai lo sappiano tutti. Ti posso suggerire che è in Piemonte e comunque lo scopri subito se cerchi; il sindaco locale si è vantato pubblicamente di ospitare la trasmissione.
Avete paura di disordini, o di avere problemi di sicurezza?
Non solo. Un po’ di mistero fa parte dell’allure del programma.
Fra i tre host, mi stupisce Bastianich: è un intenditore di automobili?
Ti confesso che Bastianich è stato uno dei nomi che abbiamo usato per vendere il programma all’inizio e nell’avventura l’ho coinvolto io quasi per caso; stavo facendo ricerche su personaggi pubblici, in Italia, che avessero una conoscenza approfondita del mondo automobilistico e ho scoperto che lui è un grossissimo collezionista di auto d’epoca, specialmente Ferrari. Fai conto che quando lo contattammo proponendogli di partecipare al programma, ci rispose che per Top Gear sarebbe stato disposto a mollare tutto, anche Master Chef. Insomma, è noto come un personaggio algido, quasi aspro. In realtà è simpaticissimo e molto appassionato. Forse un po’ monotematico.
Parla solo di auto?
Mmm, no.
Di cucina?
No, parla solo di figa.
Guarda che lo scrivo…
Cosa vuoi che ti dica?, la cosa sarà comunque evidente a chiunque dopo 5 minuti di programma. Diciamo che se da Master Chef è emersa la sua passione culinaria, da Top Gear… mmm, diciamo che Bastianich è un amante della donna. E non lo nasconderà.
Be’, d’altronde è credenza comune che i due argomenti vadano d’accordo
Attenzione, questa è una cosa importante da far passare: Top Gear è tutto fuorché sessista. Non ci sono battute tipo «ah, le donne non sanno parcheggiare». Questo è uno show che tutti possono guardare e non gioca né scherza su stereotipi e cliché, o sui napoletani che attraversano con il rosso. Queste cose non ci sono. E credo sia questo uno dei motivi principali del suo successo.
Avete coinvolto piloti donne?
Per cercare i conduttori sì, il casting ha attratto miriadi di candidati fra cui molte donne. Alla fine però siamo stati costretti a scartare anche piloti piuttosto noti, o artisti molto affermati anche nel campo della musica.
Puoi dirci chi?
No.
Bravo. Ma torniamo al tuo ruolo: è stato solo quello di “suggeritore” del programma? Quante puntate farete, a proposito?
Saranno 6 puntate, di circa 55 minuti l’una, in onda in prima serata. Per quanto mi riguarda, sono nel team degli autori.
Come ci sei arrivato? La tua storia non parte dalla televisione, anzi. Qualche tempo fa mi sembravi sottolineare in un articolo quanto la tv italiana fosse ridotta male perché troppo buonista. Per alzarne il livello, suggerivi di assoldare hater professionisti. Insomma, stavi mandando il tuo curriculum.
Una volta ho scritto una battuta sul mio blog: «Il sogno della mia vita è diventare autore televisivo e usare così il 3 percento delle mie capacità mentali». Ti dico che fino adesso ne ho usato l’1,5. Scherzi a parte, era davvero il mio sogno.
Chissà cosa ci spetterà quando userai il 2, allora. Comunque, permettimelo, l’impressione è che fino a poco tempo fa la tv fosse in mano a circoli e meccanismi blindati. Ora che ne fai parte, e mi risulta con un ruolo di un certo rilievo nonostante il tuo debutto recente, che cosa ne pensi?
Lavoro da meno di due anni per la televisione e non ti dico le gelosie per ‘sta cosa…
E guadagni molto?
… vuoi sapere come ci sono entrato?
Sei scaltro, vai…
In realtà non saprei rispondere a chi mi chiedesse «come si entra in tv», perché io non ho mai cercato di farlo. È successo che partiva The Voice e J-Ax, ai tempi grande fan del mio blog, mi chiese di diventare autore del programma. Grazie a quella collaborazione, conobbi appunto Tombolini cui mandai la riflessione su Top Gear di cui dicevo prima.
Per dirla altrimenti, ti ha creato Ax.
A dire il vero, nella mia carriera ci sono sempre stati dei rapper, o comunque persone legate all’hip hop che mi hanno preso sotto la propria ala. Quando avevo il blog, il primissimo a segnalarmi a «Vice» fu Fritz Da Cat, nel 2007. Ero partito come grafico – sono perito in Arti grafiche, ho frequentato la scuola della Rizzoli – per un blog su Splinder, Hating Line, dedicato solo al rap. A un certo punto mi chiesero anche di scrivere e lo feci.
In qualche modo il blog cominciò a diventare piuttosto popolare, ma mi stancai e inaugurai una cosa mia, personale, 7yearwinter. Divenne abbastanza seguita e diverse riviste cominciarono a propormi collaborazioni. Con lo stesso meccanismo sono arrivato a Top Gear.
Be’, in mezzo c’è una parentesi non breve, che contiene fra gli altri Sorci verdi
Prima c’è stato E poi c’è Cattelan, non certo un programma mio, ma per il quale scrivevo il monologo iniziale e contribuivo con qualche idea, tipo quella di far usare al povero Alessandro quella cazzo di scrivania, cosa che lo spaventava a morte. A dire il vero, mi sarebbe davvero piaciuto dare di più, magari entrando a far parte della redazione. Ma gli impegni per The Voice non mi lasciavano proprio il tempo. Mi sono solo occupato di dare una forma un po’ diversa al programma e ho suggerito di leggere molti libri sulla stand up comedy americana, fra cui quello di un’ex autore di David Letterman, il migliore di tutti.
Quale libro è?
No, dai, poi così ci copiano – ride. Ok, si intitola Comedy Writing for Late-night TV èd è di Joe Toplyn.
Una cosa mi fa ridere: dopo la prima puntata di Sorci verdi qualcuno scrisse che il programma era fallimentare, un tentativo di scrittura non riuscito. «Non come E poi c’è Cattelan» aggiunse. Peccato l’autore fossi sempre tu.
No, calma. Ho scritto pochissimo per E poi c’è Cattelan e ancora meno per Sorci verdi, di cui mi competeva poco più di un minuto sui 90 totali di ogni puntata. Semplicemente quando sono arrivate le critiche al programma, per chissà quale motivo erano destinate a me. Ho letto che mi si accusava di essere caduto in basso, «dal blog alla tv». In realtà andò diversamente: Cattelan chiese di me per il mio lavoro su The Voice e diedi il mio minuscolo contributo. Appunto, non voglio prendermi meriti non miei. Per la stessa ragione, credo mi riguardino poco le riflessioni su Sorci verdi. Sia chiaro, non voglio togliermi dalle cose, ma così come c’entro poco con il successo di Cattelan, c’entro poco anche con Sorci verdi, che in effetti non è andato benissimo. Per intenderci, a Top Gear lavoro 10 ore al giorno, in ufficio, e con altri 6 autori più il capo progetto, Ettore Paternò.
Quindi se ti chiedessi di dirmi cosa non è andato di Sorci verdi?
Non saprei rispondere, non partecipavo nemmeno alle riprese in studio, ero già su Top Gear
E se te lo dicessi io: tipo che nonostante alcune battute scritte molto bene, J-Ax mi sembrasse spesso poco a suo agio, quasi “fuori parte”?
Be’, cominciamo col dire che la seconda serata non è un orario di picco per Rai Due. Ciò premesso, occorre riconoscere che J-Ax ha avuto grandissimo successo in un campo che non è il suo, la televisione. Credo che il pubblico, per questo, l’abbia guardato aspettandosi una sorta di Sanremo, quando invece Sorci verdi era un programma il cui budget equivale al catering di Sanremo. Peraltro, a giudicare dagli ascolti, non si può dire sia andato male: ha battuto anche il programma di Elio e le Storie Tese, Il musichione, e Scorie, con nomi pesanti come quello di Savino. Ma non mi ricordo le stesse critiche feroci, allora.
Non c’è la voglia, da parte di uno che faccia il tuo lavoro, di passare dall’altra parte della telecamera? Qualcosa à la Louis C.K., che so essere uno dei tuoi riferimenti e che dopo anni a scrivere ci ha messo la faccia.
Credo che per fare il performer siano necessari un certo talento e una certa sicurezza. Fino adesso mi sembra di non avere queste caratteristiche, però appunto Louis C.K. dimostra come dopo 20 anni di comedy writing si possa “fare il salto”. Chi lo sa? Certo che paragonarsi a Louis C.K, non esageriamo.
Figurati, l’ho evocato io, non tu. A proposito, chi sono i tuoi riferimenti?
Charlie Brooker, che mi piace da ben prima che sfondasse con Dead Set e Black Mirror. L’ho sempre seguito, anche come editorialista del “Guardian”.
Per avvicinarmi a un argomento a me caro, sai che la sua tesi di laurea si intitola How Videogames Changed the World?
Certo, e non solo. Brooker ha fatto diverse cose televisive dedicate ai videogame. Ha anche trasformato la sua tesi in uno speciale monotematico. Era un recensore piuttosto continuo di videogame e intrattenimento elettronico.
https://www.youtube.com/watch?v=_PKZCg5okDk
Vada per Brooker. George Carlin?
Mmm, gli ho sempre preferito Bill Hicks, che ora hanno un po’ scoperto tutti. A dire il vero Hicks, che premetto di conoscere quasi a memoria, oggi mi sembra un po’ adolescenziale.
Ricky Gervais?
Be’, lui con The Office ha creato un genere comico che non esisteva e che poi è stato esportato e copiato in tutto il mondo. Anche se i suoi eccessi, pure su Twitter, non mi fanno impazzire. È un po’ un troll.
Perché a tuo avviso questi grandi della stand up comedy non si portano in Italia?
La stand up comedy in Italia esiste, ma fa schifo. Intanto è un fenomeno recente, direi arrivato attraverso Youtube negli ultimi 10 anni, quando la gente ha scoperto Bill Hicks come ho fatto io. A me pare ne stiamo ancora digerendo il linguaggio, ma sono certo che dalle prossime generazioni un grande stand up comedian italiano arriverà. Se fai ridere, puoi fare qualsiasi battuta. Il punto è tutto lì. C’è questa aspettativa, da noi, per cui un comico dovrebbe farti sbellicare mentre rivela i responsabili di Ustica.
No, argomento della stand up comedy possono essere anche stronzate assolute: ti sei scopato una con una tetta più grossa dell’altra? Perfetto, è un monologo. In Italia credo per ora la stand up non funzioni proprio per l’ansia di dover necessariamente incentrare tutto su argomenti politici. In America, nasce come “observational comedy”, un modo di guardare e spiegare il mondo che chi ascolta non abbia mai sentito prima. Che ne so?, prendi questo tavolo, potresti scrivere un pezzo su quanto ti ricordi la bara di Michael Jackson. Le persone devono dire: «cazzo, non ci avevo mai pensato. Eppure sì, guardala lì, è proprio la bara di Michael». E ridere, ovvio.
Mi pare che i tuoi riferimenti siano tutti esteri. Milano ha influito in qualche modo sulla tua carriera?
Be’, sono nato e cresciuto qui. Milano ha influito in tutto. Ho vissuto anche altrove, a Roma, brevemente pure a New York per seguire le elezioni di Obama nel 2008, ma Milano è la mia città preferita. Ci sto bene perché è introversa come me. A Roma ti chiedono l’ora quando hai le cuffie addosso, lo detesto. Milano ti ignora.
Non mi sembra una gran cosa…
Per me è bellissima: mi dà fastidio che la gente mi rompa i coglioni – ride – seriamente, diciamo che mi devo fidare molto di una persona per darle confidenza. Milano da questo punto di vista è fatta per me, ci somigliamo.
Pensi che dal punto di vista creativo questo ti abbia stimolato?
Credo di sì. Per definizione, un introverso è una persona che riflette prima di fare qualsiasi cosa.
Eppure si dice Milano, almeno dal punto di vista professionale, sia molto accogliente e aperta
Verissimo; a Milano lavorano persone provenienti da tutta Italia. A Roma lavorano solo i romani. Questo mi fa dire che Milano non è affatto chiusa. La città accoglie davvero tutti. Solo che le persone si fanno gli affari propri, non ti giudicano perché hai i capelli viola. Anzi, a pensarci meglio, Milano ti giudica di continuo, ma lo fa sottovoce. Potrai considerarla una cosa negativa, ma per me questo fa la differenza.
Mi ricordi una cosa che mi disse Morgan: Milano è una città bellissima, ma discreta. Devi cercarla nei suoi cortili, invisibili all’esterno.
Concordo. Diciamo che ognuno può vivere Milano come vuole. E Milano ti permette di viverla come vuoi. Per avere successo a Roma devi per forza andare a tutte le feste, a tutte le stronzate di networking, agli aperitivi. Se no, muori, perché questo fai se non incontri le persone. A Milano puoi costruirti una carriera o la tua vita senza assecondare certe dinamiche.
Ed è ancora vero che la televisione si fa a Milano e il cinema a Roma?
A dire il vero credo che entrambi fossero a Roma. Adesso però, in un momento in cui le series tv sono ben più importanti della produzione cinematografica, gli equilibri sono cambiati, perché le series si producono qui, per quanto poi magari si girino altrove. Per fare qualche esempio, Sky è a Milano e Gomorra o 1992 sono di Sky.
E tu vivi Milano o vivi la tua Milano?
A me piace andare da Cucchi, perché vado lì, mi metto in un angolo e scrivo per i cazzi miei. Non vorrei suonasse pretenziosa – «hey, io vado al bar a scrivere» -, ma è una cosa normalissima: ti bevi un cappuccino o il tuo Negroni e scrivi. Anche perché se sei un freelance e ti occupi di scrittura, stare chiuso in casa è la morte. Devi uscire e respirare un po’ l’aria.
Quindi tu lo fai?
Diciamo che ora, per la prima volta in vita mia, non sono un freelance e mi tocca andare ogni mattina in ufficio…
Cosa che detesti?
Tantissimo. La vita d’ufficio è complicata, soprattutto se la scopri dopo i 30 anni, come me. Però è stata un’esperienza utile, io la ignoravo completamente.
A proposito, mi permetto di dire che dai tempi del blog sei stato uno fra i primi, e forse più sinceri, a utilizzare un registro espressivo caustico, oggi di moda ovunque e a mio avviso ormai sterile. Adesso tutti dispensano l’uscita ficcante o il tweet velenoso. Non credi che l’escamotage in fondo nasconda una competenza carente, che insomma tutto si regga solo sull’abilità retorica e la voglia di tirar bordate a destra e a manca, senza conoscere nessuna delle due direzioni?
Non ritengo sia solo una questione di questi tempi: se sono fini a se stessi, l’ironia gratuita o il sarcasmo facile non hanno alcuna consistenza. Se non c’è sostanza in quello che dici, son solo parolacce. Di mio ho smesso il blog anche per questo, ma non solo: uno, non ci ho mai guadagnato un euro. Due, mi annoio con facilità e, tre, non amo ripetermi. Preferisco accettare una sfida senza sapere se sarò in grado di affrontarla. Come per The Voice: mi chiami, non ne so nulla di scrittura televisiva, ma accetto perché voglio provarci. Chissenfrega? A dirla tutta quando spiegai che non avevo alcuna esperienza nel campo, mi tranquillizzarono dicendo che tanto gli autori tv sono così pietosi, che il mio contributo sarebbe stato comunque utile. «Tranquillo, anche se fai schifo, farai meno schifo di loro» – ride. In realtà non è vero per niente. Ci sono signori professionisti. Anzi, ti dico una cosa molto democristiana: in tv ho trovato le persone più stupide e più intelligenti della mia vita. Ci sono imbecilli inarrivabili così come persone che in un attimo sanno dirti perché una cosa andrà male o bene. E da 30 anni ci azzeccano.
Secondo me, il motivo per cui costantemente la tv italiana produce soprattutto cose mediocri è da imputare al fatto che la filiera sia così lunga da soffocare il talento di quei due o tre molto portati con l’incompetenza degli altri.
Per rispondere alle critiche, non ti senti un “venduto” quindi?
Il “vendersi” è una sovrastruttura inventata da chi ha i mezzi economici per mantenersi “puro” e sentirsi così culturalmente superiore a chi deve lavorare per vivere.
È un sistema inventato per impedire l’autodeterminazione e l’accesso al sistema culturale del Paese ai poveri. Puoi scrivere, o fare musica, o fare l’artista. Però devi farlo rimanendo invisibile. Se guadagni dalla tua creatività sei un “venduto” e sei estromesso dalla possibilità che il tuo ingegno possa essere ritenuto intellettualmente valido. L’unico modo per evitarlo è impegnarsi solo in situazioni fighissime e che coinvolgono emotivamente solo le persone che hanno sostituito le erezioni con il camminare con copie di «IL» sottobraccio per strada. Tipo scrivere di musicisti footwork polacchi su riviste cartacee rilegate a mano in 200 copie da suicidegirl di Bergamo pansessuali e distribuite in secret party ogni otto mesi. Nessuno ci guadagnerà mai un cazzo, ma almeno le persone che sanno abbinare il giusto modello di ciabatte Adidas ti seguiranno su snapchat.
È anche un modo per chi ha i soldi di sostituire la mancanza di talento: ti chiudi in una pseudo-elite che si auto-celebra in continuazione. È affascinante come questo ragionamento sia praticato, di solito, da persone ideologicamente di sinistra e che può essere quindi riassunto in «Puoi essere povero e celebrato, oppure pagarti da solo l’affitto e uno stronzo». Non è previsto nel sistema culturale italiano pagare la Tasi a un bilocale e avere la stima dei propri colleghi.
Fortuna che i tempi stanno cambiando. Una volta era la norma pensarla così, ora chi fa questo ragionamento lo si può contare fra i lettori di «Linus» e le dita di una mano monca.
Ottimo; credi che il futuro sia promettente?
Certo. Sono ottimista, secondo me le persone che oggi hanno 30 o 40 anni e che cominciano a raggiungere ruoli decisionali possono cambiare le cose. E sono anche certo stiamo vivendo l’età d’oro della tv italiana. Quando mai si sono viste cose come Gomorra, appunto, o Master Chef, The Voice o X-Factor, che potranno anche non piacere ma sono programmi di altissima qualità, realizzati molto bene. Fino a 10 anni fa, la nostra televisione erano 10 tipe nude pronte a miagolare e condite con 10 ore di canzoni anni 60. Finita lì.
Non credi, per dirla con Marracash e rimanere sempre nell’ambito hip hop a te caro, che comunque anche chi oggi riesce a emergere grazie a formati e mezzi nuovi punti sempre e comunque ad arrivare ai canali tradizionali, come la tv o la radio?
Certo, chi parte dal web vuole sempre finire in televisione, semplicemente perché lì ci sono i soldi. Checché se ne dica e per quanto sia tanto fico, il web oggi muove una frazione dei soldi spostati dalla tv. Ed è tutto spiegabile con una parola sola: pubblicità. Quando i proventi pubblicitari di internet e tv si equivarranno, allora il web avrà la stessa importanza della televisione. Per ora siamo lontani. MA capiterà di sicuro.
Oppure sei Netflix, fai pagare i contenuti e ci guadagni così. Sia chiaro, per me Netflix ormai è indistinguibile dalla tv.
E a proposito di rap, tua prima passione, come sta a Milano e in Italia?
A chi insiste nel dire sia morto o una moda passeggera, faccio notare che sono 10 anni che il rap domina il mercato e le preferenze musicali dalle nostre parti. Un po’ lunga come moda. Sono convinto sia peraltro destinato a durare. Che poi la stampa istituzionale non se ne accorga, o lo racconti poco è un altro discorso e dice di come, in Italia, certo giornalismo mainstream non capisca il momento e non sia in grado di rappresentarlo. Come mai Gemitaiz, un rapper da disco d’oro in una settimana, è molto meno noto di Michele Zarrillo, che viene invitato tranquillamente in prima serata, ma un disco d’oro ormai lo fa magari impiegandoci mesi, anni?
A proposito di capire il mondo, uno come David Bowie nel ’97 dichiarava che avesse avuto lui 19 anni all’epoca, non si sarebbe mai interessato alla musica, ma a internet e ai videogiochi. Ritieni che i media stiano cambiando?
Rispondo con un dato: mi risulta che in Italia i videogiochi fatturino un miliardo di euro l’anno, quasi dieci volte quanto fa la musica, eppure lo spazio a loro riservato è immensamente inferiore. È lo stesso discorso di prima, insomma, ma sono certo che presto questo vuoto sarà riempito da qualcuno.
Fra le tue passioni so esserci anche la cucina; dove mangi a Milano?
Prima che se ne andasse il loro chef, mi piaceva andare Al pont de ferr. Non che ci mangiassi ogni giorno spendendo 70 euro, sia chiaro, ma quando mi succedeva qualcosa di davvero figo, diciamo due o tre volte l’anno, ci cenavo. Mi fa molto Milano andare all’Osteria del Binari; ogni domenica mangio il ramen da Osaka, mi sembra il massimo del comfort food…
No dai, anche il comfort food, no.
Ma sì, ti sei spaccato il culo tutta la settimana, la domenica vai lì, ti siedi al bancone o con qualcun altro al tavolo e mangi roba buonissima. A proposito, e poi adoro Shanji, in zona Moscova, semplicemente il migliore ristorante cinese di Milano e quindi d’Italia. Sono specializzati in cucina sichuan, quindi piccante e molto saporita. C’è anche il Ristorante Tesoro, in via Rosmini, altro cinese che fa una hot pot clamorosa, una zuppa senza nulla in cui puoi cuocere a piacere quello che preferisci. Conviene farsi accompagnare da cinesi, se no è anche difficile trovarla. Devi attraversare un cortile, poi salire una scala e via di difficoltà assortite…
E a bere?
Vado spesso al Doping Club, anche se a mio avviso ha perso qualcosa di recente. Sono molto bravi al Lacerba, ma si sa. Andrei volentieri anche da Gin012, posto eccellente che ho scoperto grazie a Zero, se non fosse che il proprietario è un po’ troppo pretenzioso.
In che senso?
Che quando gli chiedi: «preparami il tuo drink preferito» ti risponde «No, non esiste il mio drink preferito. Sei tu a dover scegliere fra i miei 240 gin in base…» e via di questo e di quell’altro. Sembra quasi tu debba raccontare la tua vita e quel trauma infantile irrisolto, per avere un drink – ride; ma dai, sono stanco e ho voglia di farmi un bicchiere. Prepara qualcosa di buono e non rompermi i coglioni.
Continuavano a chiamarlo Bucknasty.