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Klang: una fine e i suoi perché

Cristiano Latini racconta gli ultimi mesi di vita del suo club, raccogliendo pensieri e considerazioni, tra disincanto e difficoltà

quartiere Pigneto

Scritto da Nicola Gerundino & Giulio Pecci il 19 ottobre 2022
Aggiornato il 20 ottobre 2022

“Sabato 10 ultimo appuntamento al Klang Roma. La musica in città perde un altro pezzo importante. Ultimo giro di birre al bancone, ultimo giro di bassi in sala e tante domande per la testa”. Scrivevamo così poco più di un mese fa, annunciando l’evento di chiusura del Klang che si è tenuto lo scorso 10 settembre. Qualche giorno dopo è stato lo stesso Cristiano Latini, proprietario e factotum dell’ormai fu locale del Pigneto, a contattarci per provare a rispondere a qualcuna di queste domande e, soprattutto, per porne altre ancora. Attività imprenditoriale, proposta culturale, intrattenimento, fraintendimenti, il panorama romano, le bolle: una lunga conversazione in cui troverete questo e tanto altro.

 

 

Faccio una premessa, dirò anche cose che saranno impopolari.

Non ci tiriamo indietro, anzi.

No è che quando succedono queste cose si dicono sempre le stesse frasi di circostanza, un po’ buoniste. Mi piacerebbe invece riuscire a tirare fuori qualcosa di diverso, per quanto possa essere brutto o impopolare appunto.

Possiamo partire dalla frase che abbiamo scritto su ZERO annunciando la chiusura del Klang, da cui poi è scaturita la chiacchierata che stiamo facendo: "La musica in città perde un altro pezzo importante. Tante domande per la testa". Queste domande si riferivano a una città che vedeva scomparire un altro locale dove suonare e ascoltare musica. Musica che ci piace, ovviamente. Possibile che quella della chiusura sia una fine ineluttabile?

Intanto c’è da dire che le dinamiche sono sempre state molto diverse e specifiche. Se pensiamo, per esempio, al Circolo degli Artisti, a Frissón che ha mutato pelle dopo solo un anno, o ancora all’Init, le motivazioni scatenanti sono state tutt’altro che analoghe.

Certo, infatti come media di città il riferimento è a un quadro generale che, insomma, ha visto anche giorni migliori…

Sì, chiaro. Il quadro generale dice che c’è un’assenza.

Tra l’altro il Klang era ormai al quarto anno di vita, il pensiero comune è che si trattasse di un’esperienza consolidata, che fosse un minimo "al sicuro".

In realtà non è proprio corretto dire che eravamo al quarto anno. Il Klang ha fatto solo un anno intero, il primo, quello di start up diciamo, in cui rodare e assestare la macchina, anche economicamente. Poi per due anni c’è stato lo stop pandemico. Detto questo, sarebbe scorretto dire che il Covid ha ricoperto un ruolo fondamentale nella chiusura. Certo, ha creato difficoltà, ma da un punto di vista pratico si è trattato “solo” di una situazione di mega stand by. Questa quarta stagione doveva essere quella della rinascita, della sostenibilità economica, del dentro o fuori, infatti appena ho potuto ho spinto l’acceleratore al massimo, specialmente per la programmazione musicale. Purtroppo il responso è stato “fuori” e quella del Klang si è confermata un’esperienza economicamente insostenibile.

Economicamente insostenibile per come l'avevi immaginata?

Questa è una domanda ampia, che richiede una risposta ampia. Io ho creato un format che si è rivelato per tante cose efficace, per altre meno. Ad esempio, mi sono reso conto che per la psicologia (italiana e romana) di approccio ai locali, è difficile concepire uno spazio che abbia più anime. Tendenzialmente le persone hanno l’abitudine a fare determinate cose in determinati spazi. È difficile far convivere con la stessa importanza la dimensione food & beverage e quella musicale. Fortunatamente, o sfortunatamente, il Klang ha avuto un lato musicale predominante che ha fagocitato tutto il resto e il resto, che avrebbe dovuto rendere economicamente sostenibile l’attività, è andato in sofferenza. Siamo stati in balia di quello che succedeva da un punto di vista musicale. Nonostante abbia fatto tanta ricerca e investimento sul lato enogastronomico, il Klang non si è affermato come il posto in cui andare a mangiare o a bere “a prescindere da”, la frequentazione è stata sempre al 100% dipendente dal contenuto musicale. Non sono mai riuscito a innescare il flusso inverso. Io volevo far scoprire il Klang anche a chi non aveva nulla a che fare con il mondo musicale ma, essendo venuto a cena e non avendo un biglietto da pagare, poteva interessarsi anche al resto, una sorta di scambio equivalente. Questo aspetto non ha minimamente funzionato.

Te ne sei accorto subito o troppo in là?

Sono tutte considerazioni maturate nel tempo ovviamente. Era difficile trarre conclusioni oggettive subito. La pandemia in tal senso è stata “d’aiuto” perché mi ha dato modo di giudicare la situazione a freddo e in modo più distaccato. E infatti dopo un po’ il lavoro è cambiato. Però non ha funzionato lo stesso, ve lo so dire oggi considerando tutto l’arco di apertura del Klang. Credo proprio per un approccio psicologico agli spazi: non vai a mangiare in un posto in cui senti un concerto o a bere lì dove sei andato a mangiare. Lo dico analizzando anche me stesso come fruitore: è un gioco difficile da fare, quando succede è perché c’è un allineamento particolare.

Questa dinamica si è creata anche per come era fatto architettonicamente il Klang (grande ma non grandissimo, quindi due dimensioni in uno spazio forse stretto) o è una questione che pende decisamente dalla parte della percezione e quindi del pubblico?

Sicuramente ci sono stati tanti fattori che hanno giocato un ruolo. La mia convinzione è che non sia stato un discorso di spazio fisico, ma di percezione mentale. Il discorso è che se una sera decido di uscire a cena fuori e andare a vedere il live al Klang, la cena la faccio comunque da un’altra parte. È difficilissimo unire le due cose, c’è la tenenza a vedere gli spazi a comportamenti stagni, cosa che invece volevo abbattere.

Non hai pensato di tagliare una delle due parti per impedire che venisse fagocitata dall’altra?

Sì, certamente. Però per me il Klang era una visione a trecentosessanta gradi, che includeva tutto ciò di cui mi importa tuttora. Qualunque aspetto avessi toccato avrei finito per snaturare quello che volevo fare. C’è stata ovviamente l’ipotesi di togliere la cucina, anche solo per i costi. Ma, tralasciando il fatto che avrebbe voluto dire togliere una parte a cui tenevo molto – i menù li facevo io per dire – sarebbe stato uno spreco come investimento.

Cercare invece di incrementare la parte live? Ad esempio cambiando la politica sul biglietto sempre gratuito?

No, questo non l’ho mai pensato. Per me era fondamentale che i concerti fossero sempre gratuiti: per un mio ideale e una forma mentis politica, pratica e culturale volta alla massima inclusività e totale divulgazione. Volevo veramente far nascere curiosità anche in chi non ne aveva e pensavo che la separazione modulabile degli spazi all’interno del locale mi avrebbe permesso di gestire le cose contemporaneamente e di far incontrare i due mondi, in un’ottica di scambio reciproco. Inoltre, nell’ultimo anno in cui ho cercato di accelerare e dare tutto, ho bucato serate con artisti internazionali di livello importante. Bucato completamente. Senza neanche parlare delle serate “ordinarie”. A un certo punto il meccanismo che si era innescato era “ok, c’è la mega cosa, vado al Klang”, altrimenti no.

 

Hai bucato anche i festival, Sturm und Klang e Sporen?

Sì, anche, o comunque non sono andati come pensavo, affatto. Credevo che, anche con le capienze limitate e quant’altro, con una disponibilità di soli cento posti sarebbe andato tutto sold out nel giro di un giorno. Parliamo di una città enorme come Roma, in cui non succedeva nulla da un anno e mezzo (il primo Sturm und Klang si è tenuto nel settembre del 2021, nda). Invece niente. Tutto questo per dire che ho bucato anche artisti grossi, pensa se avessi messo un deterrente come il biglietto! La cosa assurda è che da settimane sono inondato da parole di supporto, affetto e stima, ma con il Klang ancora aperto tutto questo non si è mai tradotto in partecipazione. Sì, ci sono state le serate potenti, fantastiche e via dicendo, ma ciò che permette a un posto come Klang di sopravvivere, al di là delle belle parole e dei like, è una partecipazione concreta. Ci sono persone che mi hanno detto “Ogni volta che c’è stato un concerto per cui ne valesse la pena io sono venuto”. Ok, quindi io in quattro anni ho fatto solo quattro concerti per cui è valsa la pena essere presenti? Sono super onorato e apprezzo tantissimo le parole che mi sono arrivate, ma non posso non notare la discrepanza tra quella che è un’idea, l’immagine di un club, e poi la frequentazione e partecipazione concreta, anche del singolo, che invece fa la differenza per le sorti di un posto come Klang. A tutti piace l’idea che un Klang esista e faccia quello che fa, ma, al di là di uno zoccolo duro di una cinquantina di persone, non si è andati mai oltre la bellezza dell’idea. Venirci e supportare è stato un altro discorso. L’ultima serata l’ho fatta apposta esplosiva perché volevo un funerale importante. E sono grato a tutti coloro che sono passati, hanno condiviso, scritto etc. Però quella sera sono passate anche persone che da noi non hanno mai visto un live. Quindi mi chiedo, al di là delle parole, della facciata di un certo tipo di passione, la partecipazione dov’è? C’è una grossa discrepanza tra quella che viene declamata come una passione e quello che viene messo in pratica. Ripeto, per realtà come il Klang il gesto del singolo fa la differenza ed è mancato proprio questo.

Non pensi che la pandemia possa aver accentuato il tutto e messo un bel freno alla partecipazione perché ha cambiato le abitudini, a cominciare dalla frequentazione dei locali al chiuso?

Il Covid non è stato un cambio piccolo di paradigma, quello è sicuro. Però vorrei che per una volta il discorso non si riducesse ai soliti archetipi astratti di cause esterne e terze: Roma cattiva, lo Stato, le tasse, il Covid. È ovvio che tutto copre un ruolo nella quotidianità del locale. Però secondo me è sbagliato focalizzarsi solo su quello. È uno stratagemma molto comodo dare una colpa generica a qualcosa di astratto. L’aspetto decisivo non è stato nessuno tra questi, Covid compreso. Poi sì, a causa sua le percezioni e le abitudini sono cambiate, ma non è vero che la gente non esce. Purtroppo ciò che smuove realmente non è il contenuto, che diventa solo una leva, una cosmesi: è il contenitore. La mancanza è nella costanza. Se il Klang avesse fatto un evento al mese o comunque saltuariamente, probabilmente le sorti sarebbero state diverse. Ma quello che non ho mai sopportato da fruitore era proprio l’impossibilità di uscire un qualsiasi giorno della settimana per mancanza di offerta, per cui la quotidianità è qualcosa che ho fortemente cercato di dare: intrattenimento gratuito, costante e valido. Il problema è che il culturalmente valido è inserito all’interno di una scaletta di priorità molto vasta e non è minimamente ai primi posti. Ripeto: conta il contenitore e non il contenuto. Cinque anni fa avrei giurato l’opposto. Farà ridere e sembrerà paradossale, ma se vai al concerto dei Måneskin al Circo Massimo, mediamente trovi persone che ci vanno per cantare e ascoltare le canzoni, a cui in qualche modo interessa il concerto. Quando invece parli di qualcosa che dovrebbe essere molto più viscerale e passionale di una realtà mainstream come quella, ti ritrovi in una situazione che è esattamente opposta. Quando parliamo di spessore, il contenitore diventa più importante del contenuto. La nostra serata di chiusura è stata l’esempio perfetto. Mi hanno detto che c’era talmente tanta gente in giro che abbiamo creato la fila anche nei baretti della Prenestina. Io però sono stato nella sala live per tutte le esibizioni e lì in qualunque momento sarebbero potute entrare almeno cinquanta persone in più. Questo vuol dire che non è la cosa in sé che interessa, ma solo esserci. Non sto scoprendo l’acqua calda eh, all’interno dei miei errori di valutazione non mi sono mai sognato di rivolgermi a milioni di persone, sapevo di proporre cose “difficili”. Ma ho pensato che in un certo tipo di persone questo discorso fosse molto più radicato. Non è così invece. Ho “lisciato” la percezione del mondo da cui poi in fondo provengo, la percezione che la passione musicale sia alta nell’ordine delle priorità. Invece mi sono ritrovato davanti una bolla di sapone su cui ho sbagliato a investire.

I famosi eventi con dieci persone dove invece ci dovrebbe essere il pienone, che quasi provi vergogna a stare lì, tu che invece comunque ci sei.

È successo mille volte anche a me da fruitore. Il problema è che un conto è scommettere su una serie di appuntamenti un po’ rischiosi, capire che non è andata e via. Un conto è scommettere su una quotidianità e rendersi conto che non è sostenibile e che è difficile da reinventare perché, oltre a snaturarti, dovresti fare dei cambiamenti strutturali. Insomma, non è che cambi così su due piedi e un giorno fai reggaeton, un giorno cover band e un giorno l’artista che ti piace. Magari lo farà chi subentrerà dopo di me, io preferisco andarmene via, perché non è quello a cui aspiro. Volevo essere un gioiellino per un certo tipo di approccio culturale e musicale, ma chiaramente il gioco non ha funzionato.

Pensi che a Roma ci sia un problema culturale di fondo?

Sulla carta no…

Però a volte ci sono delle cose che bucano e creano delle bolle anche grosse. Mediamente c’è poca curiosità e conoscenza e il tuo esempio è lampante: non solo ti propongo delle cose ma te le faccio pure gratis, a te sta solo interessarti.

Sì, infatti l’idea era proprio quella. Lo so che quello che offro è la nicchia della nicchia e che il mio ruolo è provare ad avvicinarti. Però questo gioco si basa anche sulla tua curiosità. Se vieni solo quando suona tuo cugino o l’amico di tizio, o c’è la situazione, evidentemente è un qualcosa che non può funzionare. Aggiungo anche un’altra cosa: guardandomi intorno, soprattutto nell’ultimo periodo, quello che vedo e che mi colpisce di più non è solo la scelta facile, ma è proprio la “NON scelta”. Questa cosa per me è critica e, da fruitore, noiosa, fa cadere proprio le braccia. Non è nemmeno un discorso di ciò che è italiano o locale o, al contrario, fare gli esterofili. Con il Klang ho investito tanto quanto. Per me la “non scelta” è una cosa gravissima, un appiattimento che si alimentata, un ghetto, una situazione stagnante. Lo trovo demoralizzante da persona che frequenta, ascolta e ha tanta voglia di musica dal vivo, prima ancora che da Cristiano del Klang. A un certo punto le cose diventano autoreferenziali in un modo che è deleterio e noioso: culturalmente e anche per una scena, ammesso che esista.

Forse mancano una serie di passaggi che fanno in pochi. Tipo, leggersi le recensioni dei dischi; andare a un festival per intercettare nuove tendenze; frequentare siti di settore o anche e semplicemente andare ad ascoltare quello che un locale di fiducia propone. Le persone che arrivano a un evento con una certa cognizione di causa sono meno di quelle che dovrebbero?

Non so, forse è anche pretenzioso che tutto il pubblico debba avere questo approccio alla musica. Di base le persone si vogliono divertire. Anzi, forse trovarsi di fronte una proposta che è costante non aiuta a fare questo tipo percorso, che già implica uno sforzo importante dettato dalla passione. Poi però, come dicevo prima, se le cose si autoalimentano e i presupposti per ascoltare un suono diverso neanche si pongono, la situazione diventa tristemente stagnante. A me demoralizza e “preoccupa” molto perché comunque rimango un fruitore e non so cosa mi andrò a sentire nei prossimi mesi e dove.

 

Una parte delle “domande per la testa” da cui siamo partiti riguardava proprio questo. Da media, ci sono eventi di cui non parleremo più, da fruitori anche noi, eventi a cui non andremo.

Infatti, prima che da proprietario del Klang, sono pensieri che ho da persona normale. Io poi ho sicuramente una preferenza per ciò che ruota intorno all’elettronica e a Roma sembra impossibile pensare un contenuto di questo tipo messo fuori dal contesto clubbing. Speravo di sdoganare qualcosa, ma non ci sono riuscito. Vi dico tranquillamente una cosa che mai avrei fatto e infatti non ho fatto: se avessi organizzato degli after, una o due volte a settimana, probabilmente il Klang sarebbe ancora aperto. Io sicuramente sono troppo duro e puro, non sono sceso a compromessi su niente: avrei potuto mangiarci su, ma sarebbe stato diluire il contenuto per come lo avevo pensato e voluto. Sarebbe stato non un “andare a sentire”, ma un “andare a fare” qualcosa. Per esempio, sono stato recentemente a vedere, sempre a Roma, un’artista che mi piace e che avevo anche proposto anche al Klang: a quella serata hanno partecipato centinaia di persone, anche se nel momento in cui lei ha suonato la sala era piuttosto vuota in realtà. Penso che solo il 5% delle persone presenti fosse lì per il live o sapesse chi era l’artista. Questa dialettica contenuto-contenitore sembra insuperabile, anche quando parli con persone e di cose che dovrebbero essere tutta sostanza. Evidentemente questa sostanza va miscelata e diluita in modi rispetto ai quali non sono pratico o comunque che non mi appartengono.

Sicuramente più un contenuto viene diluito più c'è il rischio che diventi totalmente ininfluente.

Per me è inconcepibile l’idea che tanti artisti che ho fatto suonare nell’ultimo anno, se proposti in un club aperto fino alle quattro o cinque del mattino, avrebbero avuto un pubblico cento volte più ampio. Lo stesso identico contenuto, ma pensato in maniera diversa: da una parte ci fai i soldi, dall’altra io vado sotto. Quanto ha senso quindi investire? Secondo me è questo il motivo per cui i club perdono interesse nel proporre: perché diventa uno sforzo fine a se stesso, soprattutto se dall’altra parte c’è chi offre delle “non scelte” a basso costo che con il minimo sforzo danno il massimo risultato. Vedo uno strano gioco al ribasso, escono line-up che mi fanno chiedere veramente come sia possibile: come non vi viene in mente di non dare anche solo l’1% di diverso da una proposta che è uguale da anni? Poi alla fine sono tutti contenti lo stesso, io invece mi sento sconfitto e amareggiato, perché ho investito in cose in cui mi ritrovo a credere solo io e altre venti persone.

È un gioco che forse può funzionare sul breve, forse medio periodo, il rischio è che non si crei un pubblico “attivo” sul lungo.

E infatti era proprio quello che io speravo e contavo di fare. Paradossalmente prima del Covid c’era un gioco contrario, quasi al rialzo eccessivo e senza senso, una sfida protesa al fare cose. Adesso vedo tutto un non: non-sfida, non-scelta. Con tutto il rispetto e l’amore, vedere festival interamente costruiti sul rooster di una sola agenzia a me fa pensare questo: “Ma che state facendo?”. Poi va tutto bene, sold out etc., sono io che sbaglio. Però da fruitore e lavoratore del settore mi chiedo: che stiamo facendo? Che proposta è? Poi alla fine è un mercato anche questo, quando l’offerta non soddisferà la domanda cambierà qualcosa. Il Klang evidentemente non entrava in questo meccanismo. Non escludo in futuro di organizzare qualcosa da esterno, ma sempre con questi grandi interrogativi, perché bisogna tenere presente che non basta il contenuto e la qualità, ma serve quella cosa in più che potremmo riassumere come hype o “situazionismo” che interessa una massa a prescindere. E che con me non ha nulla a che fare. Quindi l’interrogativo è se mantenere il brand per fare cose esterne o no, perché temo di trovarmi nella stessa situazione. Poi alla fine bisogna pure scontrarsi con la realtà: il pubblico fa quello che vuole, non c’è il dovere di andare da una parte o dall’altra. E i dati reali sono che la mia visione di proposta non è stata contestualizzata nel modo giusto.

Si ritorna a un discorso di qualità dei consumi culturali. Magari in altre città d'Italia o all'estero sono migliori?

Non credo che sia tutto oro quel che luccica, lo dico anche dopo essermi confrontato con chi ha a che fare con altre città e Paesi. C’è una tendenza generale, tutto il mondo è paese. Ti dirò di più, per me il Klang aveva senso metterlo in piedi proprio a Roma, dove sentivo la mancanza di una proposta del genere e quotidiana. Qui c’era una possibilità di sopravvivere maggiore, ma, paradossalmente, anche di diventare superflui.

Effettivamente in città c’era una mancanza rispetto a questo tipo di offerta.

È quello che ho pensato anche io. Purtroppo però, mia opinione chiaramente, penso sia ancora molto diffuso questo pensiero: i suoni elettronici me li vivo solo se c’è il clubbing.

Al Klang ci sono stati anche concerti più “chitarrosi”, in quelle occasioni hai notato qualcosa di diverso?

È difficile fare una statistica perché ho tantissimi numeri sugli eventi elettronici e pochi sugli altri. Certamente in occasione di live elettroacustici/impro-jazz ho notato la presenza di uno zoccolo duro molto dedicato. Forse nella “musica suonata” c’è più un approccio e fruizione del tipo concerto-birra-casa. Però il mio gusto non è quello, mi sarei forzato nel diventare un’altra cosa. Sbagliando, da “bambino ingenuo”, ho fatto quello che mi piaceva e mi andava di proporre.

Tra l’altro, l’elettronica che hai proposto era sempre in forma live.

Sì, infatti. Poi durante la pandemia era diventato più facile proporre dj set e ho iniziato anche con quelli. Avevo adottato una formula che prevedeva sul palco solo performance live e nell’altra sala dj set, per mantenere prima e dopo l’esibizione un certo tipo di respiro e proseguire la serata all’interno del locale. Era un compromesso accettabile, perché comunque non volevo che il Klang diventasse un luogo dove andare a sentire un dj, anche se mi sarebbe convenuto chiudere tanti artisti in dj set perché sarebbero costati la metà. Proporre dei live era una cosa concettualmente fondamentale per me: se un artista lo metti a fare un dj set di solito si adatta e fa ballare, a me interessava l’ascolto. A volte però non ti vengono incontro neanche gli artisti. Si dovrebbe invece avere la percezione del pubblico, dei posti e via dicendo. Senza fare nomi, ma un’artista greca, super carina, simpatica, giusta, attuale, si è impuntata, al di là del cachet, dicendomi che lei non suonava in sale con meno di 700 o 1.000 persone. Tra l’altro mi sono quasi offeso perché voleva le foto per vedere quanto era fico il posto ed eventualmente decidere. Magari a casa tua suoni in posti del genere e li riempi, ma come prendenti di avere la stessa eco a Roma? Non solo fai bucare la serata a me, ma fai una figuraccia tu e non ti diverti a suonare. Questo per dire che spesso gli impedimenti non sono sempre nella risposta del pubblico, ma ci sono tanti altri giochi di specchi e leve.

Rimane il fatto che tu comunque a un’artista del genere ci avevi pensato e con il Klang a disposizione magari la quadratura del cerchio la riuscivi trovare.

Di base il Klang è stata la mia testa di Parnassus, il mio parco giochi, ho chiamato e fatto cose perché volevo sentirle in primis io. Proprio per quello che dite: ho la possibilità e lo spazio: se queste robe non le faccio io, non le fa nessuno. Poi i sogni son belli anche perché ci si sveglia. Altre risorse da investire non ne avevo, sapevo che avrei avuto un calo l’estate scorsa, ma pensavo di avercelo da metà giugno e arrivarci con un tot per ammortizzare. In realtà il calo ce l’ho avuto fortissimo dai primi di maggio. A giugno non avevo una lira manco per pagare gli stipendi. Al di là del fatto che io personalmente non ho mai preso un euro dal Klang, sono sempre riuscito a coprire le spese. In questa situazione a giugno mi sarei dovuto ulteriormente indebitare e non era fattibile.

Le questioni di vicinato non hanno mai influito?

È ovvio che un vicinato con un locale del genere accanto non è contento, parliamoci chiaro. Ti manda le guardie etc. Però al Klang era veramente tutto al 100% in regola. Anche quando sono venuti a fare il controllo “brutto”, poi sono sono sempre andati via con un “arrivederci e grazie”. Poi diciamoci la verità: se ricevono la chiamata devono intervenire per forza, ma nel 90% dei casi vengono per guardarsi intorno, una volta che il posto è tranquillo e pulito ti dicono fate piano e buon lavoro. Hanno chiamato anche l’ARPA per fare i rilevamenti dai piani del palazzo, ma il Klang era completamente insonorizzato, quindi quello che usciva era nei limiti di legge. Poi la multacchietta arriva, l’esposto ce l’hai, la signora che ti guarda in cagnesco e innaffia i fiori quando arrivano i clienti pure. Sono tutte cose che influiscono sulla serenità di gestione e che si aggiungono ai problemi, però sarebbe sbagliato annoverarle fra le motivazioni di chiusura. Come, ripeto, il Covid.

Quindi era proprio…

Una mancanza di frequentazione. È mancata una partecipazione costante. Il Klang è stato un investimento molto importante, ma non sono stato un pazzo scriteriato che ha buttato soldi senza senso. C’era un business plan rigoroso e uno studio attento. Il Klang per sopravvivere decentemente avrebbe dovuto fare di media trenta o quaranta coperti di cena a sera. Non stiamo parlando di numeri alieni, ma di cifre che altri locali fanno nella prima mezzora di apertura, non c’era bisogno del sold out quotidiano. All’interno di uno scenario dove entrano in gioco tante variabili, la mancanza di partecipazione attiva per me ha influito almeno per un buon 60%. Non è una colpa chiaramente. Mi viene in mente una frase (fatta) che utilizzate anche in una vostra rubrica: “A Roma non succede mai niente”. Per me, appunto, è una frase fatta, radicata e comoda, perché così ci si può lamentare e continuare a dire “non possiamo farci niente”. È un luogo comune, un mantra da ripetere. Le scelte del singolo invece cambiano tanto. Dopo la chiusura, a caldo, mentre mi piovevano addosso manifestazioni di fedeltà e amore e tante persone si chiedevano come fosse possibile, ho scritto che mi sarebbe piaciuto regalare tanti specchi. Il punto non è chiedersi perché o ragionare sugli altri. Tu sei gli altri, voi siete tutti. C’è sempre la tendenza al ben pensare e credere che sia responsabilità altrui. Se l’idea di Klang piace tanto, ma non viene supportata, rimane un’idea. Se posso chiudo con un’ultima considerazione scomoda.

Ovvero?

Al netto di tutto ciò che ho detto sul pubblico e le sue scelte, dal punto di vista degli artisti, specialmente romani e italiani – anche se non di tutti ovviamente, ci tengo a specificarlo – l’appoggio e supporto è stato meno che zero. Durante il Covid abbiamo sempre provato a capire come fare qualcosa, pur di fare qualcosa. È sempre stato un no. Non c’è un artista che non abbia pagato – secondo me anche decorosamente – ma non c’è stato il minimo supporto o venire incontro, mai, soprattutto da parte degli artisti romani.

Cosa intendi per venire incontro?

Mi riferisco a una visione generale delle cose, ai momenti in cui avresti bisogno di supporto artistico e trovi invece solo muri. Sono anche questi i fattori che vanno a cambiare un bilancio finale: venire a suonare per quanti soldi, per quale situazione. Robe di ghosting, di “sotto quella cifra non esco”. Persone anche molto vicine umanamente e amiche. Mi sarei aspettato un supporto, non nel senso di fare le cose gratis, ma di venirci incontro per farle, insieme, anche in condizioni avverse. Invece questa disposizione a mantenere viva un realtà, dei collegamenti, non c’è stata. È una cosa che fa riflettere e per me è molto brutta. Penso sia dovuta principalmente a un complesso di inferiorità atavico che c’è in questo mondo, che poi viene riportato nella dimensione della proposta artistica per darsi rilevanza: una serie di cose da fenomenite, di divismo. Un rifiuto del tentativo di alimentare un piatto comune. L’ho trovato molto triste.