Per chi frequenta i dintorni di via Guerrazzi, Jan è una vecchia conoscenza. Lì c’era la sua prima pizzeria Kabulogna, non una di quelle che passavano inosservate, sia per il nome, ma soprattutto per lui che è una vera forza della natura, dalla chiacchiera facile e veloce. Sorride sempre Jan, anche quando tutto va storto, anche quando l’Hera ci mette mesi ad allacciarti il gas, sia a casa che al lavoro. «Sono uno sfigato», mi dice scompisciandosi dalle risate.
Quand’ancora era un bambino i talebani lo costrinsero a scappare in Pakistan con la famiglia, poi qualche anno in Iran e Turchia, il viaggio in mare e, infine, ancora minorenne l’arrivo in Italia, a Bologna, nascosto in un camion. «Sembra una brutta storia, eppure io mi sento comunque fortunatissimo, perché ho conosciuto tante persone da ogni parte della terra e visto tantissimi posti in questo pezzo di vita…e penso che non ci sia cosa più bella che scoprire il mondo ed entrare in contatto con le sue culture».
L’ho conosciuto qualche settimana fa. Passando da via Saffi mi ero accorto di Kabulàgna al civico 81/C e una sera ci sono entrato per capire cos’era.
È un’italianissima pizzeria, è una bolognesissima trattoria (in menu anche i tortellini), ed è il primo ristorante afghano di Bologna. Jan mi ha raccontato tutto dal principio.
Da dove partiamo?
Iniziamo dal quadro della mia amica Naisha Taide del Buddha di Bamiyan. Quello è il mio angolo sacro perché rappresenta la mia etnia in Afghanistan. Io sono un Hazara, vengo dalla Via della Seta, faccio parte di una minoranza, rispetto ai Pashtun che sono la maggioranza nel Paese. Vivevo nella regione di Ghazni, in uno di quei villaggi sulle montagne nati per scappare dalle innumerevoli guerre e persecuzioni.
E quel Buddha è praticamente un Hazara, aveva gli occhi a mandorla e il naso piatto come me. Prima ci hanno detto che la sua statua poteva rimanere, ma siccome il suo volto rappresentava una sola etnia gli hanno distrutto la faccia; poi sono passati alla parte inferiore perché era senza vestito; infine è stato bombardato dai talebani perché non volevano un Buddha in un paese musulmano. Hanno così distrutto la nostra storia.
Tu sei buddista?
Io sono di famiglia musulmana, ma credo in un Dio che esiste per tutti e ho rispetto di tutte le religioni. Che si chiami Allah, Buddha o Gesù per me esiste un solo Dio. La mia religione è l’umanità.
Quanti anni hai?
Attorno ai 30.
In che senso?
Non so quando sono nato. Mio padre, l’unico che in famiglia sapeva leggere e scrivere, aveva segnato le nostre date di nascita su un foglio, che però è andato perso quando siamo scappati dai talebani. E siccome io e i miei fratelli non abbiamo mai festeggiato i nostri compleanni, nessuno di noi sa quando siamo nati.
Il mio primo compleanno l’ho festeggiato quando ho avuto i documenti, con un permesso di soggiorno provvisorio. Era il 14 agosto 2007.
E come sei arrivato a Bologna? Perché hai scelto di venire qui?
Sono arrivato il 5 maggio del 2007, ma non l’ho scelto, è successo. Perché non volevo fermarmi in Italia, volevo andare in nord Europa o in Inghilterra dove mi avevano detto che c’erano più sussidi e soprattutto la possibilità di poter studiare. E lo studio è ancora il mio più grande desiderio. Forse studierò quando sarò vecchio.
Ti va di raccontarmi il tuo viaggio?
Sono partito da Patrasso grazie a un cosiddetto trafficante di esseri umani che in cambio di qualche soldo mi ha fatto salire su un camion per sbarcare ad Ancona. È stato purtroppo un viaggio illegale, perché non esisteva una via legale per scappare dalla guerra e dalla povertà. Eravamo 18 persone, la maggior parte minorenni non accompagnati. Ci avevano consigliato di aspettare due-tre ore dopo lo sbarco prima di decidere se scendere o continuare il viaggio, ma dopo quasi 50 ore rinchiusi lì dentro qualcuno ha iniziato a sentirsi male e a fare casino. Il camionista, che non sapeva nulla della nostra presenza, si è spaventato e ha chiamato i carabinieri, che ci hanno poi portati a Bologna.
Eravamo l’immagine della fame, con le labbra secche e la faccia smunta. Il comandante, che era una donna molto gentile, ci fece portare una margherita e una coca. Io quella margherita me la ricorderò per sempre. E ripensandoci, quello è stato un segno del destino.
E com’è che hai imparato a fare la pizza?
Entrai in un progetto di accoglienza Sprar, grazie al quale ho fatto un tirocinio di qualche mese come facchino in un albergo in zona fiera, ma con la crisi del 2008 mi fecero subito fuori. Avevo iniziato a spendere un po’ di soldi, mi ero iscritto all’autoscuola per prendere la patente…insomma ero disperato, quando una signora incontrata all’ufficio immigrazione mi diede il contatto di un persiano che aveva una pizzeria in via Murri. Andai da lui e gli chiesi se conosceva qualcuno che potesse darmi una mano. Guardacaso proprio lì si stava liberando il posto del suo aiutante.
Mi ha praticamente insegnato tutto Massud, il mio titolare, io non sapevo nemmeno cosa fosse il gorgonzola o la mozzarella.
Ma scusa, in Afghanistan non c’è la pizza?
Sì certo, ma è tutta un’altra cosa, non so se si può chiamare pizza. Pensa che qualche tempo fa ho avuto una discussione di due ore con un amico indiano che sosteneva la pizza fosse nata in India.
Quindi hai iniziato a fare il pizzaiolo…
Sì, ma senti questa: era l’inverno del 2008, nevicava da giorni. Massud scivolò su un lastrone di ghiaccio e si ruppe una gamba. Mi dispiace dirlo, ma quello è stato il mio giorno fortunato perché fui praticamente costretto a occuparmi da solo della sua pizzeria. Dovetti rimboccarmi le maniche e imparare a fare cose di cui non avevo la minima idea, una su tutte la burocrazia. Fai conto che io non ho mai avuto problemi a gestire un’attività, già a 13 anni con la mia famiglia in Pakistan avevamo una calzoleria e riparavamo le scarpe di tutto il quartiere, ma lì non bisogna fare alcun documento per lavorare, non ci sono tasse o licenze legate a un’attività. Quindi, come dicevo, dovetti gestire la pizzeria per quasi due mesi. Quando Massud tornò fu lui stesso a spingermi avanti, consigliandomi di prendere una pizzeria tutta mia, perché secondo lui ero pronto. Gli dirò per sempre grazie per questo. E, così dopo aver prima gestito un’altra pizzeria, ho deciso di aprire la mia Kabulogna in via Guerrazzi.
Come mai quel nome?
Rilasciando un’intervista per un libro (Il confine dei diritti di Gustavo Gozzi e Barbara Sorgoni) avevo fatto una battuta: chissà se Bologna, che è una città dove si incontrano tante culture, avrà una pizzeria Kabul.
Tornavo da una conferenza all’Università di Ravenna per la Giornata mondiale del Rifugiato del 2008, dove c’era anche Laura Boldrini come portavoce dell’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu e tanti altri ospiti. Giorgio, la persona che mi aveva intervistato, fece un disegno di me in treno: fuori dal finestrino c’era la fermata Kabulogna. Quel nome l’ha inventato lui.
Cos’è successo poi alla pizzeria?
Andava bene, ma mi risucchiava completamente. Soffrivo il fatto di non avere più una vita sociale, di non riuscire a stare più con la gente e con gli amici. Allora l’ho venduta al mio aiutante e ho trovato un lavoretto senza troppe responsabilità in un ristorante, che mi consentiva di avere più tempo libero.
Mi dicevi che hai fatto anche il mediatore culturale, però. Questo quando?
Subito dopo! Un giorno una mia amica che lavorava presso lo Sprar mi chiese se potevo aiutarla con un ragazzo afgano di 16 anni molto depresso che stava facendo dei colloqui per ottenere lo status di rifugiato. Lui era un hazara come me. Parlammo un po’ e capii che le cose in Italia iniziavano a farsi più complicate rispetto a quando ero arrivato io: era disperato perché non riusciva ad avere un interprete di cui fidarsi. Gli avevano assegnato prima un iraniano – e lui il farsi lo conosceva poco – e poi un pashtun. Ma come poteva parlare male dei pashtun con un pashtun? Era convinto che non l’avrebbero creduto.
Quella notte non dormii e decisi che dovevo aiutare quei ragazzi che stavano attraversando quello che era già successo a me. Mandai così tantissimi curriculum per fare il mediatore culturale e venni contattato da un’associazione dopo poco. Lasciai così il lavoro di cameriere e iniziai a lavorare con i minorenni. Lavoravo perlopiù di notte, facevo l’autista, ma non mi venne data la possibilità di fare di più. Quindi dopo due anni, decisi che era ora di ritornare in pizzeria.
Incredibile…
Nemmeno tanto. Da me c’è un detto che dice: l’imam gira gira, ma poi torna sempre in moschea. Vale anche per i pizzaioli credo: girano girano, ma poi ritornano in pizzeria.
Perciò Kabulàgna...
Sì, eccoci qui. Questo è il posto dove tutta la mia vita trova un senso: è un ristorante afgano ed è una pizzeria sì, ma voglio che sia anche e soprattutto un luogo di integrazione e contaminazione, dove tutti possono sentirsi a casa. Il mio socio è italiano e in cucina ci sono un iraniano e un senegalese. Kabulàgna è soprattutto un luogo di incontro.
Raccontami un po’ i piatti afghani.
Ho scelto di partire con pochi piatti, che sono quelli più importanti della cucina nazionale. Il Qabuli, un piatto unico composto da riso al vapore mescolato con spezie, uvetta, carote e agnello (non temete dell’agnello, ha un sapore molto delicato come lo facciamo noi); Mantu, ovvero ravioli ripieni di carne macinata e speziata che vengono cotti al vapore con un po’ di salsa yogurt sopra (di questi abbiamo anche una versione vegetariana ); Ashak, gnocchi bolliti riempiti con verdure speziate e conditi con carne macinata e yogurt; Bolani, una sorta di panzerotto afgano, un pane piatto cotto al forno con un ripieno di verdure; e il kebab, che non è il Doner con il panino, ma un piatto con degli involtini di carne molto teneri.
E perché in menu hai messo anche i tortellini?
Perché, come ti dicevo, oggi sono soprattutto un bolognese e perché amo questa città, nonostante non sia ancora cittadino italiano (in realtà, lo sarei già senza il nuovo decreto sicurezza, ma ora dovrò aspettare altri tre anni).
Quali sono i tuoi luoghi preferiti di Bologna?
Mi piace tantissimo il parco Lunetta Gamberini, ho passato giornate bellissime lì, con gli amici, giocando a pallavolo. Quando devo bere qualcosa vado al Modo se sono in zona universitaria o al Macondo se sono al Pratello; uno dei ristoranti dove torno più volentieri è l’africano della Bolognina, Adal.
Mi piaceva tanto anche Piazza San Francesco, quand’era viva e piena di musica, così come mi piaceva Piazza Santo Stefano per lo stesso motivo, ma oggi le piazze stanno morendo e questo è un peccato.