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Lorenza Bravetta

Svincolarsi dall’idea di documentazione per ripensare la fotografia come strumento di crescita

Scritto da Irene Caravita il 18 maggio 2023

Photo ICTM, Marta Marinotti, Federico Floriani

Lorenza Bravetta, torinese, è nel Consiglio di Amministrazione di Triennale Milano dal 2017, ed è poi passata al Comitato Scientifico, con l’incarico di occuparsi di fotografia, cinema e new media. Si definisce «curatore e consulente strategico nel campo dell’immagine e della fotografia», e oltre a Triennale collabora con diverse realtà italiane come il MAST di Bologna, la Fondazione Querini Stampalia di Venezia e lo IED di Torino.

«L’immagine meccanica ha determinato una trasformazione del processo stesso della creatività e dell’idea del fare arte, aprendo a un nuovo dibattito sull’immagine e sulla rappresentazione.»

So che tu non vivi a Milano, ma già da diversi anni lavori con Triennale.

Si, sono ormai da due anni nel Comitato scientifico, ma per cinque anni ero stata nel Consiglio di Amministrazione. Ho potuto letteralmente vedere – e vivere –, la trasformazione dell’ultimo periodo, con la presidenza di Stefano Boeri e questo nuovo comitato scientifico che è in forze dall’anno scorso, ma anche con il subentro di Carla Moragallo come Direttrice Generale.

Come sei arrivata ad occuparti di fotografia?

Mah, in verità per caso! Posso ricordare un momento preciso però: avevo diciannove anni e studiavo all’università. Durante un’estate, complice una pena d’amore, decido di unirmi a un’amica che andava a Parigi a fare uno stage alla Magnum. Era lei la vera appassionata di fotografia, ma lei è tornata dopo tre mesi e io sono rimasta diciotto anni.
Magnum è diventata così una seconda famiglia – d’altronde ero una ragazzina quando ho iniziato. È stato un lungo e ricco percorso professionale, cominciato con uno stage alla direzione dell’agenzia di Parigi, con deleghe sull’Europa continentale, il Medio Oriente e l’America Latina. Mi ha dato veramente l’opportunità di crescere, toccando diversi settori corporate, dalle relazioni istituzionali, alla pubblicità, passando poi per l’editoriale, gli archivi (che abbiamo iniziato a digitalizzare allora), fino alla galleria, nata proprio negli anni in cui ero lì. In quegli anni la fotografia stava vivendo un periodo di grande trasformazione e Magnum è stato sicuramente un punto privilegiato per assistere e partecipare.
Dopo anni, anche se Magnum in fondo non smetteva di insegnare e dare, ho sentito l’esigenza di tornare in Italia. Avevo quasi quarant’anni e avevo voglia di esprimere un punto di vista personale, di impegnarmi diversamente in una vita non solo artistica e culturale ma anche sociale e politica, nel senso apartitico del termine. Così sono rientrata a Torino, dove con Francesco Zanot ho fondato Camera, che ho diretto per un anno e mezzo. Da lì mi sono spostata al Ministero dei Beni Culturali, dove ho seguito un progetto di censimento degli archivi e delle realtà fotografiche d’Italia, che ha dato vita a un piano strategico di sviluppo della fotografia in Italia (oggi incardinato alla Direzione Generale della Creatività Contemporanea). In questo passaggio a Roma, l’allora Ministro della Cultura mi ha chiesto di rappresentare il MIBACT nel CdA della Triennale, che entrava come partner nel Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo. E così siamo tornate alla mia esperienza con la Triennale, che è proseguita anche dopo la fine del mio incarico ministeriale, conseguente al cambio di governo, con una transizione da un ruolo più strategico e istituzionale a uno più operativo.

Ed è stata la tendenza verso un maggiore impegno civico, a cui accennavi prima, a condurti verso le istituzioni?

No, in realtà, l’idea originale era Camera [a Torino], quindi una piccola realtà che voleva rimanere tale, tra mostre e ricerca, che anche se oggi ha cambiato corso ha raggiunto un grande successo. Per quanto riguarda l’impegno, lo intendevo a livello politico, anzi: impegno civico è più esatto; l’usare la fotografia e l’immagine come strumento di crescita, per una società che possa essere sempre più consapevole nell’utilizzo e nella lettura di un linguaggio indubbiamente sempre più diffuso – cosa che in Italia ha forse faticato un po’ ad affermarsi.
La mostra che inauguriamo la settimana prossima [Reversing the Eye. Fotografia film e video negli anni dell’Arte Povera] vuole proprio essere una dichiarazione di quest’ultimo concetto: che negli anni Sessanta e Settanta nel contesto delle neo-avanguardie, in Italia e nell’Arte Povera soprattutto, l’immagine meccanica ha determinato una trasformazione del processo stesso della creatività e dell’idea del fare arte, aprendo a un nuovo dibattito sull’immagine e sulla rappresentazione, di fatto svincolandosi definitivamente e inequivocabilmente da una mera concezione documentaristica. Ecco, io credo che questo sia ancora uno scoglio in Italia, dove ci si chiede ancora se la fotografia sia arte, documento o entrambe le cose. È un dibattito che deve essere attualizzato nel chiedersi oggi quale sia il ruolo dell’immagine al di là dei significati che trasmette.

Sembra però che il pubblico abbia sempre sete di mostre di fotografia, in Italia.

Sì, il problema è la fotografia che facciamo vedere – e come la mostriamo. La fotografia non spaventa, e infatti la frequentiamo tutti: siamo tutti un po’ fotografi come siamo cantanti quando canticchiamo sotto la doccia o in macchina. La grande sfida oggi, nel nutrire il pubblico di fotografia, è non abbassare il livello delle mostre, non farne un vacuo intrattenimento che rischia poi, tra le altre cose, di avere una deriva antidemocratica. Si deve insomma provare e imparare a fare produzione culturale.

Tu fotografi?

No, lavoro con la creatività e con gli altri. Anche se non ho mai curato mostre, se non piccole (certo ora forse ne avrei le competenze), non ho una formazione da curatrice. Mi colloco più su un piano organizzativo, gestionale, metto in dialogo fotografi e curatori: è questa la mia inclinazione.

A proposito dei tuoi studi, prima accennavi che studiavi all'università quando sei approdata a Magnum: che indirizzo avevi scelto?

Era Beni Culturali, sotto Lettere Moderne. Ho una formazione non prettamente orientata alla fotografia.

Si, ma nemmeno al management, come stavo iniziando a pensare.

No, no è una cosa che ho appreso sul campo! Da Magnum mi sono sempre trovata nella posizione di dover rendere i fotografi in grado di lavorare al meglio, realizzare i propri progetti, le proprie mostre e cataloghi.

Dicevamo che non vivi a Milano.

Esatto, sono pendolare da Torino, con una consuetudine di due o tre volte a settimana. Devo dire che la Triennale è un luogo particolarmente piacevole, non solo per la sua ubicazione fortunata, ma proprio perché c’è una sorta di leggerezza nel fare, nell’accezione ovviamente positiva del termine. Pur con tutte le problematiche che un’istituzione così grande può avere, io non percepisco mai una tensione che tiri verso il basso – merito indubbio delle persone con cui lavoro. C’è una gran bella energia.