Aprire una galleria d’arte a Roma non è mai un gesto facile, meno che mai se fatto prima di aver compiuto i 30 anni. Per questo – e anche per diversi altri motivi – Varsi rappresenta un unicum felice, da encomiare e dal quale prendere esempio. In questi quasi cinque anni di attività la galleria di via di Grotta Pinta ha dato spazio ad artisti italiani e internazionali di rilievo, dimostrandosi di essere non solo un insieme di pareti alle quali appendere dei quadri, ma un luogo vivo, abitato, pulsante. Venerdì 24 novembre (ore 18:30) ci sarà una nuova apertura: la personale Residui di Ciredz. Ne abbiamo approfittato per fare due chiacchiere con Massimo, che di Varsi è il fondatore.
ZERO: Iniziamo dalle presentazioni.
Massimo Scrocca: Massimo Scrocca, ho trent’anni e sono nato a Roma.
Come nasce la tua passione per l’arte: una mostra, un artista, un libro?
La passione ce l’ho sempre avuta, sin da piccolo ho avuto la fortuna di frequentare musei e luoghi d’arte. Questo mi ha aiutato a plasmare un gusto personale, che cerco poi di portare in galleria.
Ti ricordi la prima mostra che hai visto e ti ha colpito particolarmente?
Sì, è stata una permanente alla Fondazione Guggenheim di Venezia, soprattutto la raccolta delle sculture di Marino Marini, insieme a molti altri grandi nomi.
La mostra, o anche l’artista, che ti ha fatto decidere di entrare in questo mondo?
Come tanti miei coetanei sono partito dal mondo dei Graffiti, poi ho iniziato a seguire gli street artist, soprattutto a Londra e a Vitry-sur-Seine, vicino a Parigi. Ne sono rimasto affascinato e ho pensato che volevo contribuire alla diffusione di questo movimento.
Prima di iniziare l’avventura di Varsi, c’era qualche artista o collettivo di artisti di Roma che seguivi particolarmente?
A Roma all’inizio seguivo gli artisti che lavoravano al Forte Prenestino. Loro me ne hanno fatto conoscere altri, che sono poi diventati amici e così il giro si è allargato.
Stessa domanda, ma riferita alle gallerie d’arte di Roma.
Sinceramente poche gallerie mi hanno ispirato, a Roma come all’estero.
Ce n’è una che per te è stata ed è un riferimento? Una a cui hai pensato per modellare Varsi?
Sicuramente la Howard Griffin Gallery di Londra, galleria nata nello stesso periodo di Varsi, con la quale condividiamo una concezione del lavoro molto simile.
Arriviamo alla galleria allora. Come e quando nasce il progetto Varsi? È stata esclusivamente una tua idea o l’hai sviluppata assieme ad altre persone?
Più che una mia idea è stata una mia necessità. Ho fatto studi di architettura di interni e desideravo uno spazio da riempire di arte, continuamente e a rotazione. Ho prima sviluppato l’idea in famiglia e poi con degli amici come Andrea Ciocchetti – di Trasformazioni Urbane – con i quali collaboro saldamente tuttora.
Quanto tempo hai impiegato per trovare la sede attuale in Via di Grotta Pinta?
L’ho vista per caso passando per il passetto che porta a Campo de’ Fiori. Era da tempo sfitta, prima c’era una boutique di abbigliamento.
Avevi già in mente una serie di artisti da coinvolgere nel progetto Varsi e sei riuscito a coinvolgerli già prima dell’apertura?
Come dicevo prima, siamo partiti con grandi nomi dei graffiti, tra cui Skeme e Blade. Poi siamo passati a tutti gli altri: Etam Cru, Herakut, Broken Fingaz, Fintan Magee, Pixelpancho, Run, Borondo, giusto per citarne alcuni.
Ti ricordi la prima mostra, ce la puoi raccontare?
La prima mostra è stata con Skeme. Mi ricordo un allestimento molto più elementare di quelli che sviluppiamo adesso, ma nel momento in cui abbiamo tirato su per la prima volta la serranda la sera dell’opening c’è stata un’emozione enorme.
Tra le tante che avete ospitato ce n’è una alla quale sei particolarmente legato?
Tutte le mostre sono state per me esperienze importanti, per cui non posso dire di essere legato più a una che un’altra. Di certo sono legato alle cose impossibili che abbiamo realizzato insieme agli artisti: il bagno della metropolitana con Solo, le prospettive di scale tridimensionali di Sbagliato, i dipinti e i collage di Herakut.
Quella che ti ha sorpreso di più?
Per la mostra Androidèi di Pixelpancho, abbiamo trasformato la Galleria in una domus romana, sembrava di stare a Ostia Antica, mettendo le stesse piante intorno alle opere e riempiendo il pavimento di foglie e di terra. Il risultato è stato davvero impressionante. Un’esperienza da vivere con tutti i sensi.
Ce n’è una tra queste che ha rappresentato un punto di svolta per la galleria?
Colera, decisamente Colera. Mostra collettiva realizzata in tre settimane di residenza a Roma. Gli artisti – Borondo, Canemorto, Run e Servadio – hanno vissuto dentro la galleria, con un torchio, tanta carta e una passione comune: il monotipo. La produzione è partita lentamente e poi è aumentata sempre di più in complessità e creatività. L’atmosfera di quella mostra rimarrà unica nel suo genere.
Che rapporto hai, come proprietario di una galleria d’arte, con Roma? È una città che risponde a quello che proponi?
Se non credessi in Roma non ci avrei mai aperto una galleria d’arte. Volevo, e voglio ancora adesso, contribuire alla sua bellezza millenaria con qualcosa di attuale e aperto al futuro. Le persone rispondono abbastanza bene alle nostre proposte, ma si percepisce ancora la difficoltà economica della città.
È una città che, in generale, sa rispondere alle proposte artistiche e sa promuovere l’arte?
Se parliamo del nostro pubblico, direi che risponde bene. L’amministrazione pubblica, invece, è semplicemente assente, in ogni fase del nostro lavoro: niente sostegni, niente promozioni, praticamente inesistente.
Hai mai pensato di spostare Varsi in un’altra città?
Più che spostare Varsi in un’altra città, mi piacerebbe in un futuro aprire anche in altre città. Comunque è davvero troppo presto per parlarne.
A proposito, che tipo di mercato è quello di Roma? È il mercato principale per Varsi o lavorate più con altre città italiane e magari con l’estero?
Varsi lavora soprattutto con l’estero. Come dicevo, nonostante l’interesse manifestato dai visitatori romani, si percepisce una crisi che è tutt’altro che finita.
Che rapporto avete con l’estero?
Ottimo. Abbiamo molti riscontri e stiamo iniziando a lavorare con gallerie straniere.
Ti faccio un’altra domanda sul mercato, ma stavolta in relazione all’età: chi ha tra i 20 e i 30 anni – diciamo non ancora 40 – che ruolo ha? È parte integrante del mercato o rimane confinato alla proposta e alla comunicazione. Detto altrimenti, ci sono acquirenti “giovani” o i giovani sono quelli che creano l’arte e al massimo la comunicano tramite media? Qual è la tua esperienza?
Chi ha tra i 20 e i 30 anni in Italia non è parte integrante di nessun mercato. La mia generazione sta facendo una fatica spaventosa a inserirsi nel mondo del lavoro e lo stesso vale per il mondo dell’arte. I giovani acquirenti italiani sono davvero pochi e con grande fatica comprano serigrafie od opere non eccessivamente costose, pur avendo molto interesse per l’arte.
Torniamo alle mostre. La prossima sarà una personale di Ciredz, ce ne puoi parlare?
La mostra con Roberto (Ciredz), sarà ad oggi forse una delle più belle scommesse che Varsi affronterà, un artista che seguiamo da tantissimo tempo e con cui abbiamo un rapporto speciale. Sono sicuro che i suoi lavori saranno una sorpresa per tutti.
In generale, come nasce una mostra da Varsi? Mi incuriosisce sapere come dialogano galleria, curatore e artista per arrivare poi al risultato che il pubblico vede.
Una mostra di Varsi nasce circa un anno prima dell’apertura. Con Chiara Pietropaoli, la curatrice, scegliamo un artista e poi sviluppiamo insieme il tema della mostra. Io mi sto occupando sempre di più dei contenuti perché ho individuato meglio cosa voglio offrire al pubblico.
E per la scelta degli artisti invece? Siete voi che fate scouting o conta anche il sapersi proporre di un artista?
Contano sia le nostre ricerche che le proposte degli artisti. Comunque, è soprattutto girando per le fiere ed eventi all’estero che individuiamo gli artisti da proporre in galleria.
Alcune volte le vostre mostre sono state accompagnate anche da opere su muro in città. Quanto è importante per voi portate all’esterno il vostro lavoro?
All’inizio della nostra attività i muri erano molto importanti, soprattutto per far conoscere gli artisti stranieri. Abbiamo lavorato a stretto contatto per anni con quartieri come Torpignattara e Primavalle e rimane ad oggi un periodo meraviglioso per la crescita di Varsi.
È più difficile organizzare una mostra in galleria o far realizzare un murales?
Entrambe. Un murales è delirante per tutte le incognite dei condomini, del tempo, dei bracci meccanici, delle reazioni di alcune persone – mai degli abitanti del quartiere. Una mostra in galleria può presentare difficoltà inaspettate se ci sono di mezzo installazioni, oppure per l’arrivo dall’estero di opere o tante altre incognite ogni volta nuove.
Nel 2018 che mostre vedremo? Ci puoi dare qualche anticipazione?
Per il 2018 avremo la fortuna di ospitare artisti come Daniel Munoz (San), per molti il padre della street artist spagnola, poi collaboreremo con il grande Dem, Sebas Velasco, Waone (della crew ucraina Interesni Kazki), Andreco e una collettiva con 108, Sten Lex, Graphic Surgery, Zedz e Tellas.
Nel 2018 Varsi compirà anche 5 anni: progetti speciali in vista?
Arrivare al sesto anno.
Avendo carta bianca, che artisti ti piacerebbe ospitare?
Ho tantissimi artisti con cui vorrei collaborare: alcuni forse irraggiungibili, ma sono fiducioso sul nostro potenziale.
Sempre avendo carta bianca, a quale muro di Roma ti piacerebbe consegnare un’opera di un artista di Varsi?
Sono aperto a qualsiasi proposta.