Matteo Stefanelli – La parte semplice: per informare, mostrare estratti di opere, approfondire, offrire opinioni. La parte difficile: svolgere queste attività occupandosi di fumetto. Perché nonostante sia passata molta acqua sotto i ponti, scrivere di fumetto e fare critica sono ancora attività che, in Italia, hanno sia risorse che competenze limitate.
«Fumettologica» è nata per occuparsi di fumetto facendo il lavoro del giornalismo culturale, federando “vecchi” blog che venivano da una fase di eccessiva frammentazione e arricchendo l’offerta di contenuti con rubriche originali, grande spazio alle immagini, le principali firme del settore e con l’idea di non tenere separati i mondi di cui il fumetto si compone (dai graphic novel ai manga, dai supereroi alle autoproduzioni). L’obiettivo è offrire una bussola ai lettori, ma anche sostenere con “pari visibilità” le opere di autori e micro-editori, o generare dibattito là dove gli spazi di discussione sono confinati quasi solo a Facebook. Tutto ciò provando a superare la “retorica nerd”, che schiaccia un po’ tutti i prodotti – inclusi i migliori – della cultura pop.
Dopo tre anni posso dire che è un’esperienza ancora nuova, che scopro io stesso mentre la faccio: proporre contenuti sul fumetto che riescano a stare nel mezzo fra news e analisi, serietà e leggerezza. In giro per il mondo siamo pochi a farlo
La specificità che hanno Marvel e DC Comics rispetto ad altri conglomerati mediali è forse una sola: hanno in pancia le più grandi library di properties interconnesse della storia, i loro cosiddetti “multi-versi” di supereroi. Gestire un patrimonio simbolico del genere è facile, perché puoi sempre permetterti di usare o non usare ciò che serve; ma la sua coerenza interna è uno degli aspetti che credo faccia dei fumettisti che lavorano per le due major Usa – sceneggiatori in primis – veri “architetti di immaginari”. Quei fumettisti hanno una professionalità davvero difficile da paragonare a quella di uno storyteller “generico”
E l’Italia come risponde?
L’Italia non risponde come Italia. Più ancora che in altri Paesi, da noi i grandi produttori hanno ciascuno un proprio modello, ancora molto preciso: Bonelli ha il suo, Disney ne ha un altro, Panini Comics produce soprattutto umorismo geek “maturo” (Rat-Man, A come Ignoranza…), Astorina con Diabolik ha un prodotto iper-regolato; eccetera. Da un lato abbiamo nuclei immaginari forti e unici, ma dall’altro c’è un po’ un problema di ricambio storico (Bonelli e Disney non creano nuovi personaggi incisivi da oltre un decennio) e di veste editoriale: i prodotti somigliano ancora troppo a sé stessi 10/20 anni fa. Nell’Italia del fumetto, oggi, il meglio arriva da singole individualità, soprattutto autori, più che da risposte produttive ben organizzate
Che cosa distingue – in positivo e in negativo – la nostra produzione?
In positivo c’è il fatto che abbiamo ancora una produzione di fumetti molto economici (diversamente da Francia, Belgio o Spagna) e una cultura del fumetto in bianco e nero comparabile solo al Giappone. In più, esportiamo autori sia in Francia che negli Stati Uniti, spesso grazie alle peculiari qualità della cultura visiva e fumettistica nostrana: siamo forti in disegno realistico (vedi molti fumetti seriali francesi), in disegno supereroistico (la storica “americanizzazione” italiana ha i suoi lati positivi: per Marvel e DC ci sono più italiani che francesi), in fumetto disneyano (una qualità che resta imbattuta) e molti autori nostrani mescolano questi ingredienti con un eclettismo raro, che lascia intravedere l’eredità della nostra pittura e della grafica (da Sergio Toppi a Manuele Fior, siamo ancora un Paese che esporta Autori)
In negativo: siamo ancora troppo simili al nostro passato e troppo diversi dal presente dell’editoria fumettistica internazionale. Non a caso produciamo tantissimo, ma esportiamo pochi titoli. Nel fumetto d’autore abbiamo conquistato stima, premi e alcuni successi (Gipi e lo stesso Fior), ma sulla produzione di massa il nostro mercato interno è fermo: le serie più vendute sono quasi le stesse da 20 anni, e perdono lettori
Bonelli Editore: una benedizione o una croce italiana?
Entrambe le cose, senza dubbio
Sei un’autorità critica del fumetto in Italia, te ne occupi da anni. Anzitutto quando e perché è cominciato questo rapporto amoroso?
Come tutti: leggevo tonnellate di Topolino da piccolo, insieme con vecchie raccolte del Corriere dei Piccoli dei nonni (per me allora tra l’incomprensibile e l’affascinante). Da preadolescente ho smesso e persino rifiutato – con tipico snobismo da teenager – di guardare cose che mi sembravano banali come i supereroi. Poi, nell’arco di pochi mesi, qualcun mi parlò di Dylan Dog, Martin Mystère, X-Men, e leggendoli restai talmente sorpreso che mi tuffai in un mare di letture. Non ne sono più uscito
E oggi come procede?
Bene. Perché il bello è che si tratta di un campo esplorato ancora poco e male, se pensiamo a quanto lunga e varia sia la sua storia. E perché studiare il fumetto è studiare un medium che ha un’identità molto più paradossale e ambigua degli altri campi espressivi: è più antico di cinema, radio e tv eppure continua a sembrare più “giovane”; è stato a lungo un medium di massa, ma anche un tipico ambito subculturale; è nato come prodotto per adulti, poi si è ampiamente “infantilizzato”, quindi è tornato adulto; è disegno, ma anche parole, grafica e calligrafia; è considerato semplice eppure è snobbato dai sistemi educativi. Insomma, costringe a ragionare in modo spesso diverso e controintuitivo. Il che mi pare quasi un lusso.
Ogni tot si leggono saggi che spiegano, ora, quanto il fumetto sia maturo, ora, quanto sia vicino alla sua fine: qual è la tua opinione?
Che è vero, ma anche che è un dibattito tutto interno al settore e quindi un po’ noioso. Anche sul cinema si legge lo stesso, così come, ormai, sulle serie tv (e sull’arte? e sulla fantascienza? Da quanti decenni si parla di “morte”?). Si tratta di questioni ormai poste in modo troppo generico, che generano domande sbagliate.
Il fumetto, dagli anni Novanta in poi, si è demassificato, frammentato in sottosegmenti, librarizzato, ri-polarizzato fra prodotti di ricerca e nuove formule mainstream (il graphic journalism, l’autofiction disegnata, i travel comics, le “biografie in soggettiva”). Penso però che queste domandone vaghe facciano bene nella misura in cui costringono a rilanciare dubbi, a rinnovare le risposte, a scontrarsi su idee diverse di fumetto. Sono discussioni “da bar”, insomma, ma di quelle che ha senso continuare a fare. Sapendo che non servono in sé
In SuperGods Grant Morrison affianca i supereroi a istanze precise – tendenzialmente legate a una visione eversiva e spesso ottimistica, speranzosa – dei periodi storici che li hanno visti nascere. Dopo Alan Moore, oggi è ancora così?
La visione di Morrison è interessante, ma è “a tesi”. Ed è filtrata dalla sua prospettiva di (ex) outsider all’interno di un settore esso stesso outsider. Sui supereroi si è detto di tutto, ma penso che oggi la realtà sia che, paradossalmente, l’idea di supereroe si è sfarinata in una idea di post-umano ormai privata dell’accento di “super”. Oggi non sono più veicoli ideali, ma metafore delle più diverse forme (anche tecno-) antropologiche, che convivono nel nostro presente, di cui esaltano un po’ la dimensione conflittuale e un po’ quella performativa. La loro mutevolezza, come corpi e come identità sociali, ne fa ancora degli ottimi dispositivi simbolici, ma la tensione “mitica” e “ideologica” si è in gran parte esaurita
Thor a breve sarà una donna, Iron Man anche, Spider Man sarà un afro americano: che cosa sta accadendo al fumetto mainstream e perché?
Un po’ è frutto della spasmodica ricerca di nuovi pubblici con cui supplire alla “fuga” dei vecchi lettori. Un po’ è autentica strategia culturale: la composizione sociale del mondo cambia e il fumetto mainstream segue. Non tutto gira bene, ma Ms. Marvel è un esempio felice che spiega la sensatezza dell’operazione: un fumetto semplice ma intelligente, pimpante e artisticamente di qualità
Ritieni il successo di Lo chiamavano Jeeg Robot abbia a che fare con i gusti di un pubblico cresciuto ad anime e fumetti?
Ni; nel pubblico di questo film non ci sono stati solo nostalgici di robottoni. C’è anche una più trasversale attrazione per il patchwork fra classicità (Roma, i monumenti) e action internazionale, che la nostra industria del cinema fatica da tempo a frequentare. Ma certamente gli italiani delle ultime due generazioni sono stati fra gli occidentali che hanno consumato più immaginario visivo giapponese
I bilanci delle case editrici crescono. Quindi benino. Ma le vendite diminuiscono, quindi maluccio. Questo per quanto riguarda il mercato.
Sul piano dell’immaginario, invece, penso che il panorama sia positivo: se ne parla e se ne mostra (penso a “Corriere” e “Repubblica”, per citare due testate pur sempre cruciali) con maggiore attenzione e più ecletticamente rispetto anche solo a 10 anni fa. Le candidature allo Strega sono, per me, soprattutto sintomi di tutto ciò, più che fatti rilevanti nella storia letteraria italiana.
L’informazione televisiva e la scuola, invece, sono ancora molto fermi e faticano a dedicare attenzione non sporadica e non appiattita su vecchi stereotipi o pochi fenomeni (Pratt, Pazienza, i supereroi, Zerocalcare, i manga intesi come un tutt’uno…). La vera sfida – e il vero problema – è forse più sul fronte degli immaginari. Al di là di Zerocalcare, e in parte Sio (per i pre-adolescenti), editori e autori faticano a costruire proposte davvero trasversali, fresche e non incastrate in una visione da “cultura del segmento”. Un nuovo fenomeno alla Dylan Dog anni 90 non è progettabile a tavolino, ma di certo su questo fronte le idee languono assai
Dove compri i fumetti, libreria o rete?
Jimmy Corrigan di Chris Ware: una affascinante ma disturbante epopea familiare, in cui l’architettura risuona con le relazioni umane, raccontando e facendo percepire visivamente cosa sia l’alienazione.
E per l’Italia?
Zio Paperone e i tapirlonghi fiutatori, di Rodolfo Cimino e Giorgio Cavazzano: perché ero bambino, e – posso dirlo? – mi fece sognare e divertire, regalandomi la prima esperienza consapevole di “riconoscimento stilistico” di un fumettista
Roberto Saviano che pubblica per Bao Publishing, il caso Zerocalcare, Gipi: fenomeni che contribuiscono alla crescita, alla legittimità e al mercato del fumetto italiano o eventi straordinari che, come tali, incidono poco?
Sul progetto di Saviano, ancora troppo di là da venire, ho poco da dire. Su Zerocalcare e Gipi invece penso che sì, danno un contributo straordinario e prezioso. Trovo anche molto bello che i fumettisti italiani più visibili sui media siano due autori tanto diversi: insieme offrono uno splendido ritratto dell’energia creativa che c’è in questo campo. Penso in particolare che Gipi abbia un temperamento da artista che nel fumetto italiano mancava dai tempi di Hugo Pratt. Le sue opere, così come i suoi comportamenti pubblici, ne fanno ai miei occhi uno dei maggiori artisti italiani viventi
3 promesse del fumetto italiano. Meglio, milanese
Nella stessa logica: Vincenzo Filosa, Spugna, Lorenza Natarella
I tuoi 3 fumetti preferiti usciti nell’ultimo anno, quelli che dovremmo leggere appena possibile
La Terra dei figli, di Gipi (Coconino Press), perché è una divertente ma radicale allegoria sulle derive della società online. Viaggio a Tokyo, di Vincenzo Filosa (Canicola), per tuffarsi nella versione esagerata dello spaesamento di un occidentale (e fumettista). The Art of Charlie Chan Hock Chye, di Sonny Liew (Pantheon), una specie di fuoco d’artificio sul fumetto stesso, mascherato da mockumentary su un ipotetico autore di Singapore