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Maurizio Cucchi

Uno sguardo sull’uomo della Bovisa e il suo divenire prestamente preistoria

quartiere Bovisa

Scritto da Piergiorgio Caserini il 1 aprile 2022
Aggiornato il 8 aprile 2022

Foto di Glauco Canalis

Maurizio Cucchi è poeta e camminatore. È sempre affascinante vedere come le due cose vadano spesso di pari passo. Cresciuto a Milano, abituato ai tenori, i fumi e i rumori della città, Cucchi è cresciuto nella Bovisa industriale degli anni Cinquanta, un quartiere che si apprestava a diventare obsoleto in pochissimo tempo. A cambiare tanto radicalmente da dover chiamare a sé una riflessione sulla memoria, su cosa e come ci si può inventare nei ricordi.

«Il territorio parla attraverso di noi, ne siamo una parte. Credo sia bene esserne consapevoli e cercare di capire, in tutto questo, che tipo di sensibilità può produrre il territorio legato alla nostra esistenza.»

 

Molti dei suoi scritti, tra poesie e romanzi, parlano della Bovisa. Penso al romanzo “La maschera Ritratto” o ai versi in “Poesia dalla fonte”, con l'uomo della Bovisa. Qual è il suo rapporto, il suo ricordo del quartiere?

Io sono stato lì soprattutto da piccolo, tra il ’52 e il ’57. Mio padre aveva una piccola azienda in via Candiani, in quella che all’epoca era la periferia industriale per eccellenza, ed era anche di conseguenza il luogo in cui molti andavano ad aprire le loro officine o imprese simili. Io vivevo in via Imbriani, a ridosso della Bovisa. Una zona che era in fondo già quartiere. Ricordo bene il Cinema Perla, nello stesso palazzo, al 19, venendo da Piazzale Nigra. Ricordo nitidamente le elementari in via Bodio, di cui ho ottime memorie, tra cui il mio maestro Pietro Roda – del quale ho anche conservato le fotografie. 

Poi per me era il luogo dell’infanzia felice, almeno finché non si è spezzata con la morte di mio padre nel ’57. Lì ce ne dovemmo andare. Quando poi ho voluto ritornarci, nella Bovisa, ho visto tutti i cambiamenti che sono intervenuti. Cambiamenti nettissimi, enormi. D’altra parte è passato tantissimo tempo. Infatti, in quella poesia, dicevo: «L’uomo della Bovisa non poteva immaginare che il suo avvenire così presto sarebbe diventato preistoria». Ricordo di aver visto le rovine dei grandi stabilimenti, una ciminiera abbandonata, ricordo i nomi che allora non conoscevo come la Società Smeriglio o l’Officina del Gas, ma che ho saputo dopo andando a cercare nella memoria e tornando sui miei passi.

Nei suoi testi abbondano queste immagini di memoria, che sembrano lavorare su due binari paralleli: da una parte uno scavo di sé, del fare emergere ricordi, dall’altra la loro invenzione. Come se ci fosse un essere chiamati, guidati, dai ricordi verso qualche altro percorso.

Beh, certamente. Nella poesia la memoria certe volte viene ad aggredirci, o perlomeno ci convoca. Ci chiede di intervenire senza che noi l’avessimo previsto o determinato, per cui deve essere così: spontanea, naturale. Rappresenta un bisogno profondo di arrivare lì, perché quelle cose ancora ci chiamano. Poi si possono assumere in modalità diverse, ma è chiaro che l’invenzione, soprattutto nella scrittura in prosa, può diventare altrettanto importante. Ma ciò che importa è che si restituisca lo spirito di ciò che si è vissuto e che si continua a nutrire, che continua a vivere dentro di sé. 

L’impressione è che queste epifanie contenute nei ricordi siano ciò che non produce, ma inventa una biografia, anche attraverso memorie d’altri. È per questo che ricorre spesso il tema della metamorfosi?

Ecco sono stato spesso e purtroppo vittima di equivoci: io non ho mai inteso l’autobiografia nel testo. Perché comunque ciò che è scritto deve avere una sua autonomia, e il lettore stesso non deve cercare di sapere che cosa è accaduto realmente all’autore. è irrilevante. Piuttosto è interessante ciò che c’è dentro e che ti arriva, che poi sia realmente accaduto o sia frutto di invenzione, non importa per un lettore o qualsiasi altra forma d’arte. Io sono poi particolarmente negato nella passione per la biografia. Quello che conta è la forza dell’opera, indipendentemente.

Rimanendo sulle metamorfosi, sull’essere un altro, anche Milano rientra in queste suggestioni. È scritta spesso da lei alla stregua di una cartografia esistenziale. È un girovagare, questo, che sottende dei modi, un’identità?

Io sono un passeggiatore della città. Il libro mio che ha avuto più circolazione è La traversata di Milano, di cui è uscita tra l’altro da poco una nuova edizione. Sono passeggiate milanesi. A me è sempre piaciuto vedere i luoghi, andare a spasso così, come un flaneur, e capire com’è la città. Perché insomma la città è il mio territorio. Ci sono nato, ci sono vissuto, e credo di appartenere alla città come una panchina, una pianta eccetera. Tanto è vero che più passa il tempo più mi viene spesso di dire due paroline in milanese, anche se con me i miei genitori hanno sempre parlato l’italiano. Questo per dire che il territorio parla attraverso di noi, ne siamo una parte, e quindi credo sia bene di esserne consapevoli e cercare di capire, in tutto questo, che tipo di sensibilità può produrre il territorio legato alla nostra esistenza. Farci capire meglio, in qualche modo, la complessità dell’esserci e il mistero della nostra presenza.

Qual è allora, secondo lei, il rapporto tra paesaggio e la scrittura, e la poesia? Tornando anche all'immagine che abbiamo evocato prima della memoria come un qualche cosa che chiama.

Il rapporto del paesaggio determina la nostra sensibilità. Io ho scritto diversi testi sui luoghi che ho visitato nel corso della mia vita – e sono stato un po’ in tutto il mondo. Oramai non esistono più paesi fantastici, perché ogni luogo è raggiungibile rapidamente, e questo diminuisce la portata misteriosa dei luoghi remoti. Sono sempre stato appassionato di geografia, andavo a guardare sull’atlante dove erano i vari posti. Soltanto che una volta per andarli a vedere c’era di mezzo un viaggio, ora casomai un viaggetto, una cosa piuttosto irrilevante. Ma vedo che anche i milanesi conoscono poco la loro città. Stanno sui luoghi comuni, sul sentito dire, e invece è nella minuzia di una quotidiana sparsa che si possono avere prove di esistenza. Si accresce, secondo me, la nostra vitalità. Anche se non capiamo tutto. Perché come sempre l’uomo ha delle risorse di comprensione e penetrazione del reale limitate. Ma se riesce a mettersi in contatto con l’esterno è una gran bella cosa. Io ho sofferto molto quando non si poteva andare in giro. Davvero, questo mette in una condizione per me depressiva.

Dove si trova allora l'altrove, in questa compressione spaziotemporale, nel momento in cui la geografia è sempre prossima?

Accade proprio proprio rovesciando la faccenda. Cercando di stare più attenti agli immediati dintorni, per citare due parole di Sereni. Gli immediati dintorni offrono molto spesso qualche cosa che non sospettavamo. Di conseguenza la minuzia del reale attorno al quale noi ci troviamo, è come essere una formichina. La minuzia è ricca di possibili alimenti. Stando più attenti al nostro territorio, alle piccolezze dei nostri ambiti e delle nostre possibilità, credo si ricavi qualcosa che in genere è quasi trascurata.

Quali sono i suoi posti, da grande attraversatore della città?

Io sono vissuto in vari luoghi della città. Quando sono nato eravamo in Buenos Aires, per cui giravo lì intorno. Questo mi ha dato un sentimento di maggiore adesione alla città che alla natura. Perché la natura per me erano i giardini pubblici. I primi ammonimenti che ho sentito da mia mamma erano: Maurizio stai attento ad attraversare la strada perché ti tirano sotto. Da lì sono passato in altre zone, e in ognuna di queste ho soprattutto cercato di perlustrare i dintorni. Ho avuto incarichi dai giornali di fare dei giretti nei quartieri e di dare conto di quello che vedevo, e questo mi è piaciuto molto. Ce l’ho ancora oggi, per esempio sul Giorno, una rubrica che esce il martedì e il sabato: I giretti milanesi, considerazioni sui luoghi della città. Lo faccio da un sacco di tempo, prima per La Repubblica, poi per il Corriere… e questo mi diverte. Anche il libro, La traversata di Milano, è una parte, una raccolta di questi testi.