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Michelangelo Frammartino

Il paesaggio come personaggio di un film.

Scritto da Archimede Favini il 5 settembre 2022
Aggiornato il 7 settembre 2022

Ph: Eniko Lorinczi

In occasione della presentazione de Il Buco, la sua ultima opera prismatica, a Milano al PAC – Padiglione di Arte Contemporanea, all’interno del palinsesto Performing PAC, abbiamo incontrato Michelangelo Frammartino per chiacchierare un po’ con lui. Ci siamo lasciati trasportare nel suo punto di osservazione ideale sul cinema: tutto l’infinito sapientemente lasciato al di fuori dell’inquadratura e caricato di significati nascosti.

Quindi è chiaro che noi umani con le nostre linee rette ci perdiamo il viaggio: l’autostrada e le linee ferroviarie sono efficacissimi modi per perdersi il mondo.

 

Ho letto un’intervista in cui dici che partendo dal cinema cerchi di arrivare a qualcosa che cinema non è più, un cinema che nel suo farsi diventa qualcos’altro. mi sembra affascinante  e contorto, ci racconti di più?

Fin da quando ero un giovane appassionato di cinema mi hanno sempre colpito i film che non erano fatti da cineasti, vedi ad esempio le pellicole sperimentali di Micheal Snow, e poi ero follemente innamorato di “The Way Things Go” di Fischli e Weiss. Mi colpivano questi autori perché, non essendo dei cineasti, era come se sbagliassero e questi “errori” mi hanno fatto capire che coloro che non hanno un approccio cinematografico tradizionale, finiscono per incappare in qualcos’altro.

Poi però c’è un’altra cosa, più personale: ho iniziato ad utilizzare la macchina da presa per filmare pratiche o mestieri che, in qualche modo, hanno una loro sceneggiatura intrinseca e in più hanno la peculiarità di non essere dei temi strettamente cinematografici. Per me filmare i carbonai significava affidarmi completamente a una tradizione antichissima che ha regole e tempi precisi, che, per esempio, non rispettano quelli del cinema. I carbonai, infatti, avevano delle necessità primarie rispetto alle mie, che dovevo del tutto assecondare. Quei momenti lì sono anche i più interessanti: quando il cinema non è in grado governare la realtà.

Questa sincerità di cui parli mi fa pensare anche al tuo lavoro “le quattro volte” dove si genera una dicotomia tra mondo umano e mondo animale e tra il dolore umano e l’ingenuità degli animali che si fanno portatori di una sorta di dignità, forse inconsapevole, innanzi alla sofferenza. C’è una frase di Milan Kundera che mi sembra sintetizzare bene questa visione: “Il tempo animale ruota in cerchio, mentre quello umano avanza veloce in linea retta. È per questo che l’uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione”. Cosa ne pensi? 

Parto col dire che filmare l’animale è per me molto affascinante, perché se ne frega del cinema e questo disinteresse di certe figure, di certi mestieri, guarda caso mi sembra poi produrre gli esiti più interessanti.

Non mi ritengo certo un esperto in materia, ma in pittura la dicitura “paesaggio con figure” fa riferimento alla presenza umana come estranea, se invece ci fossero rappresentati degli animali ci sarebbe scritto solo “paesaggio”. A noi umani è capitato di essere separati dal paesaggio, e devo dire che invidio molto questa appartenenza che gli animali possono vantare.

Ed è anche vero che si muovono in cerchio, perché la linea retta è un’invenzione del tutto umana, figlia degli studi prospettici sacrifica l’andamento qualitativo in funzione di quello quantitativo. Quindi è chiaro che noi umani con le nostre linee rette ci perdiamo il viaggio: l’autostrada e le linee ferroviarie sono efficacissimi modi per perdersi il mondo. In tutti i miei film c’è questo tentativo di far regredire i soggetti alla ricerca di una felicità che si ottiene solo tramite la riscoperta dell’alleanza con il mondo naturale. Quindi gli speleologi de Il buco cercano in qualche modo di diventare montagna, il protagonista de Il dono si seppellisce facendosi terra, mentre ne Le quattro volte, un po’ giocando con la tradizione animista, c’era questo tentativo di confondere i personaggi con il paesaggio. Ho la sensazione che per ritrovare la felicità ci si debba decostruire un pochino, e l’animale in questo può insegnare moltissimo.

Quindi questo processo di “addio al linguaggio”, che si può riscontrare nel tuo cinema, fa sempre parte di questo tentativo di ricongiunzione con la natura?

Si tratta di un tentativo per far sì che la parola non sia la regina dal momento che, esercitando il suo infinito potere su di noi finisce, per risucchiarci, ampliando il rischio di eclissare molti aspetti dell’opera. Allora cerco, non di togliere la parola, perché ne Il buco, ad esempio, si parla parecchio, ma di far sì che, tramite il posizionamento dei microfoni, il parlato non cancelli gli altri suoni e anzi che si sciolga, che si perda in mezzo ad essi.

Trovo sempre molta filosofia nel tuo cinema, ci sono esempi molto conclamati come “le quattro volte” che si basa interamente su un principio pitagorico. Allo stesso modo, parlando di suono, mi sembra molto appropriato accostare la visione dei pitagorici, che concepivano il silenzio come musica d’ensemble universale, e il tuo modo di musicare le pellicole con i suoni della natura.

Devo dire che in materia filosofica sono un autodidatta: ho studiato architettura, anche se qualche volta mi capitava di passare in Statale a seguire estetica, quindi sì, sono sicuramente un appassionato ma di certo non ho tutti gli strumenti. La struttura della lezione pitagorica così come ci viene tramandata è molto affascinante: gli allievi di Pitagora, detti acusmatici, trascorrevano cinque anni in silenzio e venivano chiamati così perché la parola del maestro giungeva a loro da dietro una tenda. In questi cinque anni il loro compito era dunque sviluppare una grande forza immaginativa e lo stratagemma dello schermo era in realtà simbolico e metafisico: serviva ad insegnare agli allievi che l’importante non è la cosa da vedere ma la cosa che nasconde.

E così nel mio cinema: per Le quattro volte tutto questo è stato importante perché le immagini e i corpi erano in qualche modo il vestito di qualcos’altro, lo schermo stesso voleva essere “pitagorico”. Nel concreto, con grande preoccupazione della produzione e del sound designer, è stato deciso di utilizzare il 5.1 (N.d.R. nome comune per i sistemi audio con audio surround a sei canali) solo nelle scene buie, mentre per il resto c’è solo un suono frontale che proviene da dietro lo schermo. Rispettando la lezione pitagorica, lo schermo è un velo che nasconde qualcosa e questo qualcosa è segnalato dal suono.

Così come per la natura, anche il paesaggio ha un ruolo e un’identità particolare nei tuoi film: sembra quasi assumere una dimensione di totale sospensione, a metà tra luogo del cinema e luogo dell’anima. Mi chiedevo se questo effetto fosse dato dal tuo sguardo o se fosse invece l’espressione del tuo attaccamento emotivo con la Calabria.

La questione del paesaggio mi interessa moltissimo, mi riallaccio a ciò che dicevo prima: sento la necessità di fondere l’uomo con il paesaggio. Trovo che il paesaggio abbia l’insostituibile capacità di saturare appieno le immagini, tanto che, nei miei film, l’inquadratura stessa diventa personaggio.

Questa è anche la ragione per la quale tendo a riproporre le stesse inquadrature per conferire e delineare i caratteri del personaggio. Un altro tema che entra in gioco a questo punto è la presenza. Considero infatti il mio maestro, anche se non sono mai stato a bottega da lui, Paolo Rosa dello Studio Azzurro: una delle ossessioni di Paolo era la presenza, in particolare la presenza dell’immagine. Chiaramente nei lavori dello Studio Azzurro, essendo installazioni interattive, le immagini erano delle presenze perché ti rispondevano. Provo quindi a traslare questo concetto di presenza nel cinema, mettendo lo spettatore davanti a un’immagine che lo fronteggi e che gli imponga di relazionarsi con essa.

Quindi si potrebbe in qualche modo associare questo processo a quello di regressione dell’umano, alla fine tutto nel tuo cinema si fonde in un sistema paritario che tende a mettere sullo stesso piano natura, territorio, paesaggio e suono.

Esatto, tanto è vero che io cerco di non lavorare nella direzione della rappresentazione ma appunto della presenza. I miei attori infatti non recitano, ma svolgono degli esercizi, delle pratiche: se praticano il loro mestiere la cosa sta realmente accadendo. Mi ispiro molto ai quadri di Jasper Johns, perché i suoi quadri mettono in crisi il concetto di rappresentazione. Prendiamo ad esempio “target”: quel quadro trascende la rappresentazione di un bersaglio, ci puoi giocare a freccette!

Nell’immaginario comune la prima cosa che si associa alla Calabria probabilmente è il mare, ma tu nei tuoi film hai sempre deciso di raccontare l’altro volto della regione, l’interno, come mai?

Devo confessare che vengo da quaranta giorni di mare con mio figlio in Calabria che ormai è diventato un pesce, è innamoratissimo del mare calabrese e spero che questa cosa sia il passe-partout perché si innamori della Calabria in toto. In ogni caso vado dritto al punto: la Calabria è una regione introversa, sono pochissimi i luoghi che testimoniano una tradizione marittima o di pesca. Tutto ciò è anche e soprattutto per ragioni storiche, le strutture attuali sono sorte dopo le alluvioni novecentesche: la costa non ha storia e non ha genius loci. È assurdo pensare che a dieci chilometri dagli abitati costieri fatti a griglia si trovino dei borghi medievali che sono dei veri e propri grovigli; la costa è dritta mentre l’interno è un dedalo che si fonde con il paesaggio.

Ultima domanda, forse un po’ provocatoria…Trovo che la critica spesso non si prenda la sua parte di responsabilità, procedendo talvolta ad osannare e talvolta a gambizzare una pellicola, senza effettivamente porre le uniche domande necessarie (ben venga se senza risposta). Sei o sei stato almeno un po’ diffidente davanti al successo di critica avuto da Il Buco?

È chiaro che se il film riceve una risposta troppo positiva e unanime qualche sospetto ti viene: ad esempio riguardo a Le quattro volte devo dire che ho faticato a trovare un dissenso. Ma riguardo a Il Buco devo confessare che questa cosa non l’ho percepita, o almeno non inizialmente: quando abbiamo presentato il film a Venezia avevo la sensazione che fosse più incerta l’opinione della critica, anche se poi effettivamente con il tempo è andata assestandosi e dopo un po’ ho capito che il film era stato accettato e apprezzato. Ma ripeto, all’inizio le opinioni in merito mi sembravano più conflittuali e credo che questa sia una buona cosa, soprattutto se si parla di un film come Il Buco che ha una modalità di costruzione particolare, perché è un film denso di materia e di una dimensione del tutto ingovernabile.