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Niccolò Contessa

Nel pieno del tour estivo di 'Aurora', Niccolò Contessa de I Cani parla della sua passione per i videogiochi. Dall'eterna contrapposizione tra indie e mainstream ai legami con la musica (reali e immaginati)

Scritto da Chiara Colli il 13 luglio 2016
Aggiornato il 23 gennaio 2017

«Vorrei stare sempre così
avere cose pratiche in testa
i soldi per mangiare
i dischi, i videogiochi e basta
».

A giudicare dal trasporto con cui viene intonata dal pubblico durante i concerti, questa strofa l’avranno riconosciuta in molti. Niccolò Contessa la ripete in FBYC (Sfortuna), brano contenuto nel secondo album Glamour che I Cani suonano sempre dal vivo e che, con tutta probabilità, finirà anche nel set del Siren Festival di Vasto, dove saliranno sul palco come headliner sabato 23 luglio, subito dopo i Notwist (qui tutta la line up). In vista di questa e delle altre date del tour estivo di Aurora, uscito a gennaio per 42 Records, avremmo potuto far parlare Niccolò di “soldi” o magari di “dischi”. L’uno troppo volgare, l’altro troppo banale. Abbiamo quindi pensato di fargli raccontare – più o meno per la prima volta – di una delle sue passioni, i videogiochi (l’ipotesi dell’ennesima intervista impegnata in qualità di “icona/portavoce dell’indie italiano” è stata esclusa in partenza).

Che poi, il magico mondo dei videogame altro non è che una delle espressioni culturali più importanti, e per certi versi formative, per le generazioni di chi è nato dagli anni 80 in su; quasi inevitabile che oltre a parlare di quelli che sono i suoi videogiochi preferiti, si sia finiti con l’addentrarci in una contrapposizione non esattamente estranea alla musica, quella tra indie e mainstream, che connota fortemente anche la dimensione videoludica. L’antefatto, è esattamente quello che ci si aspetterebbe da una persona che ha studiato fisica, è laureata in matematica e, beh, fa musica col computer.

«Se fino ai 20 anni mi avessi chiesto cosa contava di più nella mia vita tra i videogiochi e la musica avrei risposto senza ombra di dubbio i primi. Anche dal punto di vista professionale mi vedevo molto di più come un programmatore di videogiochi che come musicista. Mio fratello, di dieci anni più grande di me, aveva questo Amiga 500 – che cominciò a girare nella seconda metà degli anni 80 ed era il successore del Commodor 64 – con cui sostanzialmente l’unica cosa che potevi fare era giocare, perché allora non era chiaro a cosa altro potessero servire quegli schermi, non esistevano ancora neppure cazzate tipo le enciclopedie multimediali… Avrò avuto quattro anni quando ho cominciato col primo gioco, quelli che all’epoca mi hanno segnato di più sono stati Zak McKracken and the Alien Mindbenders e Lemmings, quest’ultimo mi venne regalato per Natale nel ’92 o ’93, quindi avevo 6 o 7 anni. Più avanti ci sono stati periodi in cui pensavo di dover smettere – tra i 20 e i 23 anni ho venduto tutte le consolle che avevo agli amici… Ma poi ho ricominciato».

ZAK-MCKRACKEN-AND-THE-ALIEN-MINDBENDERS-1

ZERO: I videogiochi sono stati anche una specie di “finestra” su altri mondi?
NICCOLÓ CONTESSA: Sicuramente da ragazzino ho avuto un interesse per la fantascienza che è scaturito da quello per computer e videogiochi – in primo luogo per una connessione a livello di immaginario. Entrando più nello specifico, il videogioco di Blade Runner, che è uscito nel 1997, è stato un gioco davvero importante, bello, particolare. Intanto fu un’operazione assurda, perché è uscito 15 anni dopo il film ma ancora non in periodo remake, non aveva un esplicito aggancio commerciale. Grazie a quel videogioco ho visto il film, che mi ha cambiato la vita, è stato un momento enorme. Sempre in tema c’è la saga di Tex Murphy – che è praticamente una versione cyberpunk dei romanzi di Chandler – con cui mi sono appassionato anche alla letteratura noir.

Prima citavi le consolle vendute agli amici: ricordo i miei regolarmente infognatissimi dal liceo con i videogiochi di sport, calcio o macchine, che facevano dei veri e propri tornei. Una dimensione sociale e agonistica abbastanza lampante. Immagino sia una delle categorie di videogamer, tu di quale hai fatto e fai parte?
Da bambino ero estremamente chiuso e timido, al limite del patologico, per me parlare con uno sconosciuto che fosse anche un negoziante è stato molto difficile fino a 12/13 anni. Quindi anche questo tipo di interesse l’ho vissuto in maniera totalmente individuale e così è ancora oggi. L’aspetto sociale dei videogiochi è legato perlopiù a quelli di calcio, in genere esiste un tipo di maschio che gioca solo a Fifa e Pro Evolution Soccer, ma è il tipo opposto di videogiocatore rispetto a me.

Videogiochi che, per quanto ne so, possono essere considerati la parte emersa, diciamo mainstream, del mondo videoludico.
Sì, si tratta di franchise super commerciali e mainstream, che potrebbero essere paragonati ai film sui super eroi, con dietro dei costi e dei team di sviluppo enormi: stiamo parlando di centinaia, a volte migliaia, di persone al mondo che ci lavorano, magari con 300 persone in Canada che poi fanno fare parte della grafica a 150 cinesi che lavorano con altri fusi orari. Sono ormai degli studios paragonabili a quelli cinematografici più grandi. Questo volto dei videogiochi, come secondo me sta accadendo per Hollywood, inizia un po’ a mostrare la corda, nel senso che comincia a essere un po’ tutto uguale, privo di anima, perché costa talmente tanto da non potersi prendere nessun rischio a livello “artistico”. Parallelamente però c’è un’industria indipendente, di giochi piccoli fatti da team ristretti composti a volte da una, due persone o al massimo un team di quindici, dove succedono cose super interessanti e che paradossalmente 20 anni fa non si sarebbero potute fare o sarebbero state molto più difficili da distribuire: non essendoci internet il mercato dava meno possibilità, i giochi per venderli dovevi averli fisicamente.

«Dove succedono cose super interessanti»: la scena indipendente dei videogame, a tuo avviso, dà forma a prodotti – per varie ragioni – culturalmente rilevanti/interessanti?
Nel 2012 è uscito Indie Game: The Movie, un documentario che ha innescato una piccola mitologia intorno ai videogiochi indipendenti, a mio avviso per certi versi equivalente a quella creata nella musica indie americana dal libro Our Band Could Be Your Life di Michael Azerrad. In questo film si parla di tre giochi, Super Meat Boy, Fez e Braid. Gli ultimi due sono tra i miei preferiti in assoluto, sono usciti tra fine Duemila e primi Anni Dieci e sono dei videogiochi spartiacque nel mondo indipendente, realizzati da due/tre persone. In generale, si tratta sicuramente di prodotti culturali interessanti e ti faccio l’esempio di Minecraft, nato nel 2009 e tra quelli che più hanno segnato il panorama dei videogame indie. Il creatore è lo svedese Markus Persson, un nerd che ha realizzato questo videogioco da solo, nel tempo libero, creando un impero in pochissimo tempo. Si tratta di un gioco in cui sei in un mondo generato casualmente, composto da blocchettoni di vari materiali, roccia, sabbia, legno… E puoi andare in giro a creare delle costruzioni, praticamente come giocare ai lego, ma al computer e in un mondo virtuale. Beh, tutte le persone under 15 che conosco ci giocano: Microsoft ne ha comprato i diritti nel 2014 per due miliardi e mezzo di dollari, dicendo di avere proiezioni di recupero per quellla somma in circa nove mesi, alla luce dell’indotto economico incredibile che stava creando. E volendo c’è pure un legame con la musica: dopo aver fatto questa vagonata di soldi, Persson ha battuto Jay Z in un’asta per comprare la casa più costosa di Beverly Hills (70 milioni di dollari).

Azzardo un parallelo con la musica: è possibile che gran parte dei “giovani” oggi abbia modo di identificarsi, trovare un’aderenza alla propria realtà e pure un senso comunitario molto più nei videogiochi indie che nella musica indie? I videogiochi sono un’espressione culturale con maggiori potenzialità di “intrattenimento”/coinvolgimento della musica?
Personalmente non la vedo così, non mi sembra che la categoria di “videogiochi indie” in sé rappresenti chissà quale fenomeno identitario di massa. È vero che Minecraft ha un successo straordinario presso un pubblico giovanissimo, ma non mi pare che venga percepito come “videogioco indie” – tra l’altro ormai come ti dicevo è Microsoft -, né che chi ci gioca si senta di prendere parte al “movimento dei videogiochi indie”: semplicemente c’è un botto di ragazzini che stanno in fissa con Minecraft. È comunque possibile che in tal senso ci siano dei fenomeni che ignoro… Riguardo al discorso “non esiste più la musica indipendente/alternativa come fenomeno identitario presso i giovani”, secondo me anche questo non è vero, va solo cercata dalla parte giusta. Ad esempio, rimanendo in Italia, vedo una generazione nuova di rapper (Ghali, Sferaebbasta, etc.) che fa una roba assolutamente alternativa, nel senso che non puoi immaginare in radio né tantomeno in televisione, ma che comunque ha una portata grossa, fa numeri grossi sia su internet che dal vivo. E che mi pare estremamente più rilevante per gli adolescenti italiani rispetto al fenomeno videogiochi indie, che sostanzialmente non vedo.

Domanda inevitabile: prima parlavi dell’interesse per la fantascienza in parte derivato da quello per computer e videogiochi. A un certo punto, non c’è stato anche un legame diretto tra la musica per videogiochi e la tua musica?
Di getto direi di no. Il fatto è che se ti devo dire i dischi che mi hanno formato sono tutti strapieni di chitarre – Nirvana, Smashing Pumpkins, Sonic Youth – però è anche vero che quando mi sono messo a fare musica è stato davanti a un computer, senza una chitarra ma con un sintetizzatore. E suppongo che come approccio derivi anche da quella passione lì… Sono uno di quelli per cui comporre musica significa stare davanti a uno schermo.

Indicaci cinque tra i videogiochi che ti piacciono di più, estendendo la “dimensione ludica” a un parallelo con la musica, del tipo “Se fosse un musicista sarebbe…”

Fez è stato uno dei videogiochi di cui ho atteso di più l’uscita e non ha minimamente deluso le mie aspettative, anzi. L’ho trovato commovente, forse perché ha un’estetica che mi ricorda molto la mia infanzia. La colonna sonora è di un tipo che si chiama Disasterpeace ed è una sorta di “reimmaginazione ambient” delle colonne sonore classiche dei giochi di fine anni ’80 e primi ’90.
SE FOSSE UN MUSICISTA SAREBBE: azzardo i DAFT PUNK, per l’uso emotivo della nostalgia

The Witness è l’ultimo gioco di Jonathan Blow, un tipo che fa giochi di logica/rompicapo con un perfezionismo quasi esasperante. C’ha messo sette anni a finire questo gioco. Il risultato però è così bello che vorrei cancellarmi la memoria per poterci giocare da capo senza sapere le soluzioni. Non c’è colonna sonora – con delle eccezioni -, perché la filosofia di Blow è quella di eliminare qualunque elemento che non sia completamente essenziale ai fini del gioco.
SE FOSSE UN MUSICISTA SAREBBE: SCOTT WALKER

Hotline Miami è una sorta di versione grottesca e iperviolenta di Drive, con un’estetica anni 80 acidissima rispecchiata dalla colonna sonora – memorabile, con pezzi anche di Sun Araw. È un gioco così rapido e istintivo che è impossibile pensare mentre si gioca, quindi paradossalmente lo trovo molto rilassante.
SE FOSSE UN MUSICISTA SAREBBE: GESAFFELSTEIN

Peggle è stato uno dei pochi giochi a cui sono riuscito a fare appassionare la mia ragazza. È essenzialmente il pachinko, cioè una sorta di flipper dove si vince per il 99% totalmente a culo, ma – forse proprio per questo – dà una dipendenza inaudita. Inoltre era uno dei pochi giochi che funzionava sul computer della sala prove dove lavoravo, quindi ci ho passato un sacco di tempo. Da segnalare l’uso di musica classica sopra le righe nella colonna sonora, tipo l’inno alla gioia quando finisci il quadro.
SE FOSSE UN MUSICISTA SAREBBE: ABBA

Stephen’s Sausage Roll è uscito pochi mesi fa ed è un gioco di logica in cui bisogna cuocere delle salsicce. È un gioco che non fa nulla per piacere: ha un’estetica molto lo-fi, costa parecchio ed è difficilissimo. Superato tutto questo, è una delle cose più profonde e curate che abbia mai visto in vita mia. La colonna sonora credo che sia seriale/generativa, realizzata in tempo reale da un algoritmo.
SE FOSSE UN MUSICISTA SAREBBE: POP X