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Phoebe Zeitgeist

A Corvetto tra miti e antidee i Phoebe Zeitgeist raccontano la loro poetica di deframmentazione del senso

quartiere Corvetto

Scritto da Francesca Rigato il 10 ottobre 2022
Aggiornato il 15 settembre 2023

Ph. Arianna Arcara, Valentina Neri, Maria Elisa Ferraris

Phoebe Zeitgeist, gli alieni di Milano, si stabiliscono nel 2008 nelle lande cementificate di Viale Monza, portando con sé novità, voglia di combattere gli schemi e tanta cultura: il tutto avvolto da un’aria post-punk. Così come il loro nome, un insieme di suggestioni, che viene dal famoso fumetto Le Avventure di Phoebe Zeit-geist, scritto da Michael O’Donoghue e disegnato da Frank Springer, in seguito ripreso da Fassbinder, anche il loro modo di creare la performance non conosce confini, si potrebbe coniare un “le vie del teatro sono infinite”, da concerti a laboratori, da spettacoli a happening fino alla webzine BLUT. Il 16 settembre 2022 alle 22.38 quando il buio ormai invade la città di Milano al Pop di Porta Venezia Giuseppe Isgrò e Francesca Frigoli si raccontano, dopo una lunga giornata di lavoro, ancora carichi e felici di parlare della loro vita e del loro amore per ciò che fanno.

Per noi fare teatro è un’esperienza che si fonda sul dialogo con la città, i quartieri e le architetture, richiamando il concetto di polis greca.

Partiamo dal principio, dalla vostra storia, da Milano e da come questi elementi si intersecano con i vostri ideali e il teatro, qual è il legame di Phoebe Zeitgeist con questa città?

Noi siamo di Milano, siamo cresciuti a Porta Venezia, figli di immigrati. C’è stato un periodo della nostra giovinezza in cui abbiamo viaggiato molto, vivendo anche a Berlino, poi nel 2008 ci siamo stabilizzati e abbiamo iniziato ad allestire la nostra sala in Viale Monza 10, un seminterrato che è un crocevia di esperienze e di prove dove tutt’ora teniamo una grossa attività laboratoriale che ci porta a lavorare sulla comunità, sulle persone e sui giovani

La città per noi è fondamentale, è un luogo scenico, dell’immaginario, dove spesso abbiamo lavorato anche fuori dall’edificio teatrale e dentro luoghi occupati come Macao o Lume. Per noi fare teatro è un’esperienza che si fonda sul dialogo con la città, i quartieri e le architetture, richiamando il concetto di polis greca. Oggi il teatro è diventato un luogo settoriale, soprattutto a Milano, fruito solamente da una certa comunità di abbonati e una nicchia di spettatori, mentre per noi deve continuare a restare un’esperienza militante di incontro con le comunità e con il mondo. Il nostro scopo non è fare prosa ma cercare la transdisciplinarità, entrare performativamente in una combinazione di linguaggi e di arti che comprenda, con la stessa identica importanza, il piano sonoro, musicale, visivo, culturale, lo studio e la ricerca.

Avete lavorato molto a Corvetto, dove con diverse realtà avete creato non solo delle performance ma anche una comunità teatrale, ci raccontate come è iniziato tutto? E cosa vi piace e cosa vorreste cambiare di questo quartiere a cui siete legati?

Nei territori di Corvetto, ai margini del quartiere, abbiamo incrociato la realtà di Terzo Paesaggio e Andrea Perini, un ex organizzatore e curatore teatrale che viene dall’esperienza del CRT, ora si occupa di rigenerazione urbana a base culturale a Chiaravalle, una sorta di borgo incantato, dove sembra di essere in campagna ma in realtà è ancora Milano. 

Anche Corvetto sta cambiando, purtroppo, in una direzione di gentrificazione, ma è talmente resistente che la trasformazione non avviene del tutto. Il quartiere è e rimane un luogo ai margini, che da un lato confina con il territorio agricolo della Vettabbia, dall’altro con le zone più centrali della città e da un altro ancora con lo scolo delle fogne di Milano sud, invase da milioni di gabbiani. Amiamo molto il CIC (Centro Internazionale di Quartiere) un centro culturale senegalese-italiano, poi il Casottel, che è una delle trattorie milanesi più autentiche e tipiche gestita da formidabili novant’anni che cucinano il brasato e la polenta. Adoriamo il cimitero di Chiaravalle e anche il lato della Vettabbia che dà su Rogoredo e sul boschetto dell’eroina, che è una delle piazze di spaccio più grandi d’Europa, confinata in un unico luogo marginale. Corvetto è una “washing machine” che, tra una macelleria islamica e l’altra, racchiude tutto il mondo, è uno dei luoghi più metropolitani e intriganti di questa città dove i bambini giocano ancora per strada con una bella dose di libertà che non esiste più a Milano.

In un’intervista avete citato Artaud, dicendo il vostro fare teatro è “un’eterna battaglia tra corpo e parola”, vi chiederei andando oltre, di riflettere sul corpo come elemento inserito nello spazio e dunque qual è lo spazio ideale, se esiste, per i Phoebe Zeitgeist? E cos’è per voi lo spazio?

Lo spazio è un luogo da riempire di immaginario e da risignificare, da riscrivere, da interpretare e in cui stare, in cui resistere e fare diventare habitat, è un luogo da conquistare, da disegnare. L’analisi sullo spazio è sempre molto accurata e va a ricercare i punti di conflitto, quelli di interesse e le particolarità. A Corvetto, lavorando con il Polo Ferrara, un centro polifunzionale, abbiamo condotto un laboratorio con bambini di 8 nazionalità diverse creando una striscia di carta scenica lunga 20 metri, che è diventata un allestimento scenografico per la parata urbana e performativa finale. I bambini erano trasformati in fantasiose creature marine.

So che da anni portate avanti un lavoro e una ricerca molto sperimentale, che sta ai confini del teatro stesso. Avete una definizione che vi rispecchia in qualche modo? Quali sono i capisaldi della vostra poetica?

Non vogliamo avere una denominazione di genere troppo fissa: il post punk viene fuori spesso perché si lega alla nostra urgenza di ridefinire le nostre origini ma anche alla nostra cultura musicale. La nostra generazione, sia come esseri umani che come artisti, è legata al fatto di risignificare gli anni in cui siamo nati, che cadono in quel passaggio epocale, avvenuto tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80, dove da un ideale collettivo legato prima al boom economico e poi alla partecipazione e all’impegno politico, si passa a un ideale immaginifico e privato, individuale e romantico, che inizia negli anni 80 e poi continua nei 90. La fine del pensiero collettivo è un passaggio epocale che ha cambiato radicalmente il teatro. Dentro questi cambiamenti nasce la nostra poetica con tematiche legate alla fantascienza di J.G. Ballard e di P. Dick, ovvero la fantascienza come metafora politica e l’arte militante inserita in un territorio. Ci interessa molto anche il tema del doppio ricatto e della doppia seduzione, rappresentato, per esempio, nel mito di Demetra e Persefone, che noi rileggiamo in una chiave che potremmo definire Fassbinderiana, dove la figlia (Persefone) rappresenta una figura metropolitana e dark che ha a che fare con questo immaginario legato al ricatto emotivo e al potere, è un’antidea, bizzarra e capricciosa che decide quando e quanto darsi. Un altro dei nostri topos si ritrova nel pensiero di Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica che noi ricolleghiamo ereticamente alla figura fondamentale di Andy Warhol e alla sua idea di Factory, di comunità trasversale e bislacca insieme all’idea di manifesto, di immagine, di icona, di sintesi e di alterazione.

Dalla scelta di cosa mettere in scena alla modalità di fruizione, come si sviluppa il vostro processo creativo?

Sempre attraverso un meccanismo desiderante che si lega alle nostre fonti, ai nostri immaginari e ai nostri corpi. Molte volte abbiamo messo in scena testi che sono stati scritti apposta da drammaturghi come Francesca Marianna Consonni, che è la terza parte di noi, o Michelangelo Zeno per Malagrazia, sempre facendo riferimento a un mondo fatto di immaginari esplosi, mai fissi che innescano un meccanismo di deframmentazione del senso. Non vogliamo fare un teatro che sia spiegante e didascalico, non vogliamo fornire storie concluse, al contrario cerchiamo di stimolare sensorialmente, politicamente e culturalmente. Vorremmo sviluppare dei saperi nuovi, delle consapevolezze. Ecco perché preferiamo ambiguare il segno piuttosto che concluderlo, definirlo o inscriverlo.