Otto giovani architetti, designer e pensatori si sono riuniti in un gruppo chiamato Raumplan, in riferimento ad Adolf Loos. Al Salone 2016 si erano fatti notare con un progetto sui fallimenti del design alla Cascina Cuccagna, Failures. Per il Salone del 2017 rilanciano con Capitalism is over, sempre alla Cuccagna, prendendo in esame la storia più sacra e intoccabile del design italiano, il “caso Olivetti“. Coltissimi e polemici, sono anche animali notturni di forte presenza sulla scena milanese.
Zero: Per i profani che non conoscono il maestro, perché vi chiamate Raumplan?
Nicolò Ornaghi Il Raumplan (letteralmente “piano dello spazio”, spesso tradotto in italiano con l’espressione “sfalsamento dei livelli”) è una pratica architettonica riconducibile ad Adolf Loos. L’architetto viennese introdusse la variazione tettonica come elemento caratterizzante delle sue architetture, dando origine a una rinnovata percezione dell’abitare. La complessità spaziale della pratica del raumplan è la stessa che vorremmo riportare nelle cose di cui ci occupiamo, che sono sempre indagate da più punti di vista per il semplice motivo che siamo in tanti (a volte anche troppi) a farle. In più lo spirito polemico del Maestro ci piace abbastanza, lo troviamo pertinente al tempo in cui viviamo, nel quale si tende invece a dire poco, a essere accondiscendenti, ad evitare il conflitto, o anche solo lo scontro dialettico. Noi invece lo scontro dialettico lo pratichiamo assiduamente, soprattutto tra di noi, e pensiamo anche che sia importante, che sia una cosa da perseguire. Del resto siamo piuttosto distanti dall’idea di “collettivo”: siamo un gruppo di persone a cui è capitato di lavorare insieme e che insieme può fare progetti che da soli non riusciremmo a fare. Nel farlo, alle volte, ci si diverte anche. Per questo, quando mi hai chiesto di rispondere ad alcune domande, l’ho fatto volentieri, ma parlando per me, non per tutti. Io parlo per me e Pietro parla per lui e per nessun altro.
In che senso Raumplan è una piattaforma? come funziona veramente, al di là delle istruzioni sul nuovo sito? chi siete? da dove venite?
Nicolò Ornaghi: Raumplan.info nasce come piattaforma di social publishing per la condivisione di contenuti legati alle arti visive. Poi è diventata altro. Un po’ perché, come detto, siamo in tanti, ognuno con le sue idee. Per esempio io, personalmente, so a mala pena cos’è una piattaforma di social publishing. La verità è che si tratta di un esperimento fallito, probabilmente per via di ambizioni ben più grandi rispetto alle nostre possibilità. A un certo punto ci siamo resi conto che l’unico obiettivo veramente riuscito della piattaforma erano le relazioni umane reali che avevamo creato, piuttosto che un’ipotetica interazione web che in realtà richiede altri strumenti e altre modalità. Di fatto è risultato essere più forte il contenuto veicolato – che in fondo era l’obiettivo primario – piuttosto che la piattaforma che avevamo costruito. Di fatto è risultato essere più forte il contenuto veicolato e l’identità visiva associata al progetto piuttosto che la piattaforma che avevamo costruito. In realtà questo tipo di operazione richiede investimenti di risorse che noi non eravamo in grado di fornire, né di gestire.
Raumplan nasce nel 2013 ed è co-fondato da Pietro Bonomi, Gabriele Donini, Nicolò Ornaghi e Giacomo Scandolara, a cui si aggiungono nel 2015 Andrea De Nicola, Matteo Maggi, Giacomo Viviani e Francesco Zorzi. Siamo un gruppo di architetti e designer. C’è anche un filosofo.
Con il sito web abbiamo conosciuto tante brave persone con cui ci è poi capitato di collaborare e con cui scambiamo idee e opinioni. In questo senso è una piattaforma. Al momento il sito è uscito in una nuova release (la terza, siccome ci abbiamo messo qualche mese a rispondere alle domande, la seconda di cui parli non c’è più) e come dicevo non ha più ambizioni da social publishing. Adesso ci sono i nostri progetti, una library con collezioni di contenuti curati da noi o da persone con cui collaboriamo e un archivio di immagini che curo io. I progetti che facciamo sono molto diversi tra loro e ci teniamo che in ogni progetto ci sia scritto chi vi ha lavorato; non sono necessariamente espressione di una posizione condivisa. Certo, non sono neanche in antagonismo, ma non sono per forza condivisi da tutti.
Nel 2015 avete fatto una mostra Shipwrecks, e poi Failures, e la prossima sarà Capitalism is Over. Da dove viene questa vostra passione per l’immaginario catastrofico?
Nicolò Ornaghi: L’immaginario catastrofico deriva dalla condizione storica a noi assegnata, che non è delle migliori, almeno per le professioni creative. Io mi sono laureato in architettura e mi capita tuttora di lavorare al Politecnico di Milano. L’architettura come noto è una delle discipline che più ha risentito della crisi del 2008. Stiamo parlando di una professione per nulla redditizia, in cui la domanda supera largamente l’offerta e le condizioni di lavoro sono di precariato assoluto. Forse per questo mi occupo con piacere di scenari catastrofici o ipotesi disfattiste.
Pietro Bonomi. Sì, tra naufragi, fallimenti e catastrofi, mancano solo la morte e le tasse. E – ti anticipo – non è detto che la morte non sia davvero il tema per l’anno prossimo… L’idea era quella di programmare una sorta di “trilogia del negativo” al Salone del Mobile, ovviamente abbastanza distonica rispetto al clima dello stesso. Con Capitalism is Over forziamo ulteriormente la provocazione fino a farla diventare quasi una parodia. Lo scenario è un’immaginaria festa d’addio al capitalismo: i convitati di pietra sono una platea di prodotti iconici figli dell’età dell’oro del capitalismo industriale novecentesco. Ad essi si uniscono i prodotti figli delle condizioni correnti, che rispondono ovviamente a un contesto sociale ed economico radicalmente mutato. Un raduno festoso quanto lugubre, se vuoi un’allegoria del Salone stesso. Alla base del percorso della mostra c’è una considerazione ovvia per chi si occupa di economia, ovvero la natura ciclica del capitale e delle sue riconfigurazioni. Nelle fasi di recessione e di crisi, in cui l’economia capitalistica mostra con più evidenza le sue contraddizioni e le sue criticità, da più parti si levano voci che ipotizzano la cessazione di determinati rapporti di forza. Rapporti che sembrano invece ogni volta trovare la via per ristrutturare se stessi in nuove forme e aggregati. Anche per questo l’annuncio “Capitalism is over” assume un accento di parodia, data la sua frequenza ciclica. Allo stesso tempo però di ciclo in ciclo cambiano molte cose, che bisognerebbe iniziare a indagare. È in questa prospettiva storica che abbiamo cercato di raccontare alcune vicissitudini di Olivetti, attraverso le fotografie che Louis de Belle ha scattato a Ivrea. La tendenza dell’azienda alla resilienza e all’innovazione subisce una battuta d’arresto abbastanza netta in corrispondenza delle crisi degli anni ’70 che, deprimendo gli investimenti nell’innovazione, lasceranno spazio all’economia finanziarizzata che conosciamo oggi. Sappiamo bene che l’Olivetti degli anni ’80 ha incrementato costantemente i suoi fatturati, ma è evidente, al contempo, che la progressiva smaterializzazione del suo “core business” ha di fatto segnato le sorti dell’azienda. Divenuta ormai una holding finanziaria, nel 2003 si è fusa con Telecom Italia e ne ha assunto la denominazione sociale. Il nome di Olivetti sopravvive nelle vesti una piccola società controllata del gruppo Telecom, nel cui profilo è però ormai difficile riconoscere la fisionomia dell’azienda che fu di Camillo e Adriano Olivetti.
Perché ha ancora senso guardare ad Olivetti, oggi, in un salone del Mobile?
Nicolò Ornaghi. Il “caso Olivetti” ci consente di verificare come l’economia finanziaria abbia modificato gli assetti di un’azienda che si era distinta sino ad allora per la sua resilienza e per la sua capacità di innovare: Olivetti perde progressivamente la sua vocazione produttiva/innovativa diventando, in buona sostanza, un vettore di investimento finanziario. La storia aziendale di Olivetti, che seguiamo dal secondo dopoguerra fino al 2003, ci conduce alla situazione odierna, in cui nuove condizioni si associano a una finanziarizzazione sempre più spinta e per nulla intaccata dalla crisi del 2008. In questo contesto, lo spettro di una fine del capitalismo (almeno per come lo abbiamo conosciuto finora) viene oggi evocato in molti ambiti. Locuzioni amichevoli e altisonanti come “sharing economy”, “collaborative consumption” o “peer economy” suggeriscono scenari post-capitalistici; nel frattempo però la condivisione, la collaborazione, la comunità convivono con un potere finanziario sempre più monopolista e oligarchico che alimenta fortissime e crescenti disuguaglianze. Anche il mondo del design è attraversato da queste contraddizioni, in un mercato polarizzato fra nicchie iper-specifiche e giganti della produzione e della distribuzione che monopolizzano il mercato grazie a costi marginali sempre più ridotti. Questa transizione si rispecchia anche negli oggetti: la mostra mette a confronto i fantasmi di prodotti iconici del passato (ritratti solo in fotografia) e gli oggetti figli del contesto contemporaneo. Scoprendo forse, che non si tratta più o per lo più di oggetti: al centro della produzione non c’è più l’oggetto, ma gli spazi, le reti, i sistemi. In linea, in questo senso, con la “smaterializzazione” finanziaria dell’economia.
Pietro Bonomi. Il corrente dibattito sul platform capitalism si gioca su una contraddizione evidenziata da molti teorici neo-marxisti: da un lato la tendenza allo scambio di merci e di lavori immateriali e intangibili, dall’altro il materialissimo lavoro che all’interno di queste strutture assume i tratti di un taylorismo spesso più radicale di quello storico. In attesa che tali mansioni siano sostituite dalle macchine – più adatte di un essere umano a venire incontro alle necessità organizzative imposte dalla fugacità e dalle imprevedibili esigenze del capitale finanziario – rimaniamo nel mezzo di un periodo ambiguo, in cui le persone, nella loro singolarità, sono sempre più inessenziali e ricoprono per lo più mansioni di cui non è futuribile immaginare la scomparsa nel breve periodo. A fronte di benefici condivisi e ormai irrinunciabili (la macchina a noleggio, la casa in affitto temporaneo, il social wall per condividere e pubblicizzare a costo zero idee e iniziativa, la possibilità di ricercare miliardi di informazioni sul web) ci sono da una parte guadagni stratosferici e dall’altra rischi sociali da tenere in considerazione.
La logistica avanzata è senza dubbio uno degli ambiti più interessanti e controversi dell’assetto tecnologico/economico corrente e presenta caratteristiche dirompenti che hanno un impatto pervasivo nel mondo delle merci – non escluso, ovviamente, il design di prodotto. Gli oggetti, la loro qualità, i loro autori diventano sempre più secondari. Le merci e le persone lasciano spazio alle reti di informazioni e ai sistemi di distribuzione dove non conta “che cosa” o “chi”, ma “quanto velocemente” e su quale scala. Pertanto le foto degli stabilimenti logistici di Amazon e Ikea scattate da Delfino Sisto Legnani rappresentano una realtà in constante crescita, che modifica radicalmente il mondo della distribuzione e del commercio del design imponendo nuove regole, nuove velocità a cui attenersi o con cui andare in contrasto.
Tra i giovani architetti milanesi chi sono quelli che hanno più relazioni con voi e con quello che fate, nel bene e nel male?
Nicolò Ornaghi. Con Parasite abbiamo fatto diverse cose, siamo amici anche se la pensiamo in modo diverso su tante cose. Anche con Fosbury ci vediamo spesso. Antonio Buonsante, che è uno dei loro fondatori, è l’organizzatore del calcetto settimanale al campo in via Cadibona, dove peraltro hanno anche l’ufficio. Entrambi stanno collaborando alla mostra che ci sarà in Cuccagna. Poi Ganko, ovvero Guido Tesio e Nicolò Munaretto.
In realtà abbiamo molti rapporti che esulano dal campo dell’architettura, anche perché tra i fondatori solo io sono architetto. Giacomo e Gabriele sono grafici e hanno appena fondato uno studio che si chiama Giga Design Studio insieme a Pablo Galbusera (web developer), che ha programmato tutte le versioni del nostro sito. Quindi per esempio abbiamo relazioni con con alcuni grafici, per Capitalism is Over abbiamo richiesto alcuni lavori a Matteo Gualandris e Bianca Fabbri, mentre l’anno scorso hanno collaborato a Failures realtà più sperimentali come il collettivo Recipient o Alessandro Iacobino e Karol Sudolski.
Come è nato il rapporto con Esterni e Cascina Cuccagna?
Nicolò Ornaghi. Un nostro socio, Matteo Maggi, gestisce lì gli eventi. Altri hanno lavorato li dalla fondazione della Cuccagna. I rapporti con Esterni sono ottimi, loro sono gentili, e hanno un fantastico bar che frequentiamo assiduamente.
Vi piace Milano? In cosa? potete darci una bella lettura della città in termini di fallimenti/successi? sarebbe stupendo
Pietro Bonomi: Potrei partire da un paragone con Roma, dove tra l’altro stiamo organizzando una mostra in una galleria che si chiama Campo, con altri architetti sia milanesi sia romani. Roma è una città di eterna, lenta e gaudente decadenza, un’immagine di eternità: Roma nella storia recente non ha riportato né grandi successi, né grandi fallimenti (le ultime vicissitudini delle amministrazioni non mi pare abbiano la dignità di veri fallimenti). Milano invece è il risultato di un susseguirsi di grandi fallimenti e grandi successi, miracoli (non solo economici), distruzioni e ricostruzioni, grandi successi che si tramutano in fallimenti e viceversa. Dalla guerra a Craxi, poi Mani pulite, Forza Italia… Lo stesso si può dire poi per le grandi aree urbane in trasformazione – City Life, Porta Nuova ecc – aree centrali nella storia della seconda metà del novecento milanese che oggi si sviluppano tra fallimenti e successi, fautori e detrattori.
Riprendiamo il libro Failures: come si è evoluto rispetto alla mostra? c’è stato un leggero slittamento di posizione?
Nicolò Ornaghi: Il libro non è propriamente un catalogo e, partendo dalle opportunità fornite dalla mostra, vuole registrarne i risultati e al contempo esplorare in modo più approfondito, attraverso interviste e saggi critici, il tema del fallimento dal punto di vista teorico e progettuale. Sicuramente c’è stato uno slittamento: noi facciamo le mostre non per trasferire una tesi a un ipotetico pubblico, ma con un deliberato intento conoscitivo. Ci interessa creare uno spazio in cui sia possibile anche per noi capire qualcosa in più del tema scelto e attrarre attori, esperienze e relazioni che fanno sì che dopo che l’hai fatta non sei allo stesso punto di quando l’hai progettata. L’obiettivo è quello, e il libro registra appunto tutto ciò che si è aggiunto strada facendo, grazie all’esperienza della mostra. Non pretendiamo di avere nulla da divulgare né da dimostrare; abbiamo solo un lavoro fatto da mostrare e da discutere e quando progettiamo una mostra cerchiamo di mettere in moto un processo che possa essere giovevole e proficuo a livello conoscitivo ed estetico. Per noi, per i visitatori e per gli espositori coinvolti.
Voglio sapere il nome di tutti gli editori indipendenti e delle riviste che leggete. Come vi muovete in Europa? che reti avete? chi e che cosa sorvegliate?
Nicolò Ornaghi. Personalmente mi interessano alcune cose, principalmente europee. Seguo il lavoro di molti architetti svizzero-tedeschi, tedeschi, belgi e inglesi. Di conseguenza le case editrici che li pubblicano, per esempio, tra le altre, GTA Verlag, Park books, Niggli, Quart Verlag, Ruby Press insieme ai classici editori delle univesità tipo Bedford Press, Princeton Architectural Press e le pubblicazione interne dei corsi dell’ETH, che sono molto interessanti e segnano la distanza tra le nostre università, certamente senza soldi ma spesso anche senza idee.
Poi mi piace la fotografia quindi seguo alcuni editori che si occupano di fotografia di autore, tipo APE books, MACK, Etudes Studio, Archive books, Self Publish Be Happy, Spector Books, GHOST Editions, Libraryman, Mörel Books, Nazraeli Press, Editions du LIC, Peperoni Books, Silas Finch.
Anche Apartamento mi piace.
A Milano ci sono tante cose interessanti, dovendo citare solo alcune cose citerei il lavoro di gallerie indipendenti come Tile o MEGA e editori come Humboldt e San Rocco, con cui collaboro e che, dopo la fine della rivista, avrà un nuovo corso come editore di libri su architettura e città.
Pietro Bonomi. Beh io essendo filosofo di formazione leggo anche cose molto più noiose. Per quanto riguarda la filosofia Aut Aut, Nòema (rivista online diretta da Carlo Sini, per cui ho anche scritto), Anfione e Zeto, Filosofia Politica, Rivista di Ermeneutica di Vattimo e altre più specificamente accademiche. Anche l’americana Semiotext(e) e la francese Critique, fondata da Bataille. Poi Pagina 99, Limes e i blog di alcuni economisti italiani. Sempre online Doppiozero, il Tascabile, Minima&Moralia, Prismo, Zeroundicipiù. Fra gli editori citerei Mimesis, Spirali e Albo Versorio.
Tirate fuori i nomi di almeno 4 bar e 4 ristoranti di milano che vi piacciono
Nicolò Ornaghi. Ognuno di noi frequenta posti diversi, ma quando ci vediamo tutti insieme (che non capita spesso) siamo quasi sempre nel bar di Esterni in Cuccagna, altrimenti frequentiamo un pò di locali a Porta Venezia tipo il Love, dove Luigi ha fatto le foto per Capitalism is Over e dove il mio amico Paolo Forchetti fa una serata il giovedì sera che si chiama Bravo. O il Rainbow. Poi a Isola a Piazzale Archinto. A Isola ci vado anche a mangiare, al Ratanà o a Casa Ramen. Poi in via Lombroso vicino all’ufficio di Cadibona di Fosbury e di Ganko vado al Nuovo Macello, che è il mio posto preferito. Poi possiamo metterci anche i simpatici vecchi della Coloniale. E sicuramente il Pravda, dove negli anni ho passato tanto tempo. Poi mangio la pizza in un posto che si chiama ‘A Tarantella in zona Palmanova. Il mio socio Francesco Zorzi quando si ubriaca va sempre il giorno successivo da Attilio in via Teodosio, dice che gli fa bene. Io non credo, credo gli piaccia solo la pizza di Attilio. Piace anche a me.
Pietro Bonomi. Beh al Pravda ci ho passato del gran tempo anch’io insieme a Nicolò… Oltre ai locali di Porta Venezia che ha citato lui, ogni tanto il lunedì vado alla Buca di San Vincenzo a sentire il jazz, mi piace ascoltare le jam stando a poche decine di centimetri dai musicisti. Qualche volta il Plastic, un tempo andavo al Bitte, quando abitavo con Nicolò lì accanto in via Watt. Tra i ristoranti Al Mercato Noodle bar, Wang Jiao, l’Erba Brusca. E poi vorrei citare la pasticceria-laboratorio-bar Camminadella, nascosta in un palazzo privato vicino a Sant’Ambrogio. Ci vado spesso a leggere d’estate.