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Raw Messina

Gabriele Stabile e Pax Paloscia e l’insieme vago della cultura post urbana

quartiere Chinatown

Scritto da Federica Amoruso il 4 settembre 2021
Aggiornato il 20 settembre 2021

Foto di Carolina López Bohórquez

Gabriele mi parla dai dintorni della campagna lucchese. È lì per documentare un simposio segreto di super chef. Non posso fare a meno di immaginare orde di super cuochi con arti fantascientifici che si sfidano a battaglie di cucina aliena, riparati da occhi indiscreti dalle frasche toscane. Con la sua parlata apolide e generosa Gabriele mi racconta del piccolo pezzo di cortile, paese, studio, galleria, zona franca che gestisce assieme a Pax Paloscia in Via Messina, Raw Messina.

«Un avamposto per chi avesse voglia di condividere e stare assieme, senza per forza fare uno squillo di tromba per ogni passo fatto.»

Ciao Gabriele, come mai a Lucca? Cosa stai documentando?

Mi trovo qui per lavoro ma sono tra amici storici. Quando vivevo negli USA, nel 2009, creammo con amici un magazine a tema food, Lucky Peach. Ebbe un successo enorme e inaspettato, anche mio malgrado [ride], mi sono trovato catapultato in questo mondo della food photography. Era una cosa del tutto nuova, al tempo non circolava ancora la cultura della fotografia di cibo sbragata e punkettona, siamo stati abbastanza i primi.

Gestisci assieme a Pax Paloscia lo spazio di Raw Messina. Come è nato il progetto?

È tutto iniziato per nostalgia: sia io che Pax abbiamo vissuto per tredici anni a New York. Prima di partire avevamo un artist run space a Roma, all’interno del quale organizzavamo show con artisti di street e post art. Vivevano e dormivano lì, e pensa che abbiamo beccato un sacco di artisti poi diventati famosi agli albori della loro carriera, è stato molto figo e con alcuni siamo ancora amici.

Dopo la parentesi newyorkese ci siamo detti che sarebbe stato il caso di aprire un nuovo spazio in Italia e la scelta di Milano è arrivata un po’ per scelta un po’ per caso. 

Pax è scappata di casa quando aveva 17 anni ed è finita a Milano, e le era rimasta nel cuore la voglia di tornarci. Altra coincidenza, una mia cara amica che lavora da Fornasetti mi disse: non ti preoccupare, conosco una agente immobiliare che assomiglia a Jessica Rabbit che ti può aiutare. Il caso ha voluto che si fosse liberato questo spazio in Via Messina con finestre a bocca di lupo su tutti i lati, in un cortile interno, un po’ protetto, in una dimensione un po’ carbonaia ma con una luce meravigliosa e un’atmosfera unica.

 

Ma insomma di dove sei?

Non me lo ricordo più: sono nato a Palermo, i miei genitori fricchettoni mi hanno fatto crescere alle Egadi, che erano popolate ai tempi solo da quattro capre, due cani e dalla mia famiglia, lo sconsiglio fortemente a qualsiasi adolescente. Mio padre scriveva e all’epoca fu assunto da Repubblica, che era ai suoi albori, motivo per cui ho trascorso l’adolescenza a Roma. Da lì la musica, la radio [non vuole confessarmi in quale gruppi suonasse e per quale cantautore di Sanremo abbia suonato la chitarra] il lavoro, tra cui quello per il New Yorker, e un pellegrinaggio all’estero di circa quindici anni.

Quando siamo tornati in Italia lo abbiamo fatto perché ci mancava davvero moltissimo.

E vi ha ripagati questa scelta?

Milano è una città magnifica e lo dico da outsider, dopo aver vissuto fuori per quindici anni, tredici a NY e due a Londra. È un posto dove c’è un buon mix di situazioni di respiro internazionale restando ancora a misura d’uomo. È una città che tende sempre a rinnovarsi, a darti un po’ di linfa nuova, e questa qualità è quasi unica. 

Quindi sì, assolutamente, questa scelta ci ha decisamente ripagati. E stava per ripagarci ancora di più: noi abbiamo aperto lo studio un anno e mezzo prima della pandemia e in questo poco tempo abbiamo fatto moltissimo, abbiamo anche partecipato a entrambe le edizioni di Photo Week, si era creato una bellissima dinamica. 

 

Abbiamo deciso di essere Hyperlocal da sempre, non ci interessava avere migliaia contatti e mille pubblicità, ci ripaga molto di più la chiacchierata sincera e l’essenza di quel che si costruisce assieme. Sofia Masini e Giulia Zorzi, owner/founder di Micamera, passavano spesso da noi e noi amavamo passare il tempo con loro, con tutti gli artisti e gli amici che capitavano lì per lavorare ma soprattutto parlare bevendo un caffè, e tanti progetti sono nati così.

L’idea era quella di costruire un avamposto per chi avesse voglia di condividere e stare assieme, senza per forza fare uno squillo di tromba per ogni passo fatto. E in realtà di cose, in questo modo, ne abbiamo fatte moltissime in questo piccolo lasso di tempo, tra cui tre collettive e due simposi con ospiti stranieri: in Italia, puoi farlo solo a Milano. 

L’ultimo progetto che stavamo per lanciare prima della pandemia e che realizzeremo a breve è una mentorship per 4-5 persone (sempre con questi piccoli numeri) e poi offrire lezioni gratuite per i ragazzi cinesi di seconda generazione del quartiere.

Bellissimo! Mi stavo giusto chiedendo dove trovare questo tipo di attività qui…

Ci vuole un po’ per entrare in confidenza e creare un ponte con la comunità cinese. Anche il nostro studio di NY si trovava in Chinatown, e posso dirti che le comunità cinesi all’estero sono molto insulari: ti immagini di averci a che fare solo quando ordini il cibo o vai al negozio fetish a comprarti la parrucca. Nella realtà dei fatti, se fai lo sforzo di rivolgere una parola a Mike dell’Amico Bar piuttosto che a qualsiasi abitante della zona, il riscontro è immediato e profondo, le amicizie nascono subito. Ho scoperto qui tantissime persone che si aprono in modo spontaneo.

Una cosa che è mancata in questo periodo particolare e di cui credo avremo bisogno nel post pandemia, è quella di smuovere questa massa di ragazzetti che abbiamo relegato nelle loro solitudini, e questo è un mio obiettivo: portare persone che non parlano la mia lingua in una città che amo a fare qualcosa di creativo. In questa realtà urbana un po’ maciullante le occasioni di socializzazioni sono rare e vorrei riuscire a farlo, come facevamo nel Bronx coi ragazzi portoricani che uscivano da scuola e venivano a fare fotografia.

Il vostro focus è sulla fotografia e sulla pittura?

A noi piace il linguaggio fotografico e la pittura relativa alla cultura post-urbana, indaghiamo vagando all’interno di questo spettro molto ampio. Ci innamoriamo delle storie e quello che fa la differenza è il tipo di relazione che instauri e quanto le persone siano disposte a condividere, dare e ricevere.

Magari questo non è un pitch di marketing perfetto, ma il mondo è già pieno di situazioni del genere, noi invece ci innamoriamo di quello che sentiamo davvero. Il primo pop up show si chiamava “Occhi di cane azzurro” ed i partecipanti erano tutti fotografi emergenti, il secondo, “Plant Kingdom” era tutto sulle piante. Adesso saremo al padiglione off ad Artissima col lavoro di Pax, fondamentalmente ci piace uscire dai ranghi.

Forse è questo il futuro? Il lusso di creare del senso al di fuori dalle regole di mercato?

Le cose succedono in modo naturale, conosci persone e situazioni. Allo stesso modo è capitato per caso, con una ragazza, Valeria, che lavora per D de La Repubblica che mi ha fatto un discorso (per me indigeribile) sui frattali assieme alla nostra amica Valentina e da lì sono nate mille nuove connessioni e se non avessi fatto quella cosa per puro senso del piacere della condivisione, non sarebbero nate le nuove opportunità che stiamo avendo adesso.

E dire che siete qui tutto sommato da poco... si sente che siete invece veri abitanti di quartiere.

Sarpi è accogliente: quando vado al Vecchio Porco sono a casa, si è creata una fitta rete familiare. Ci sono posti di ragazzi cinesi in cui il caffè costa 60 cent, è un quartiere pieno di risacche inaspettate. Senti di non conoscerla mai tutta, è fluida: ogni tot appare un nuovo bugigattolo da esplorare.

Col covid io ho smesso di andare in giro coi mezzi e molto di più a piedi: io da outsider mi sono innamorato di Farini, e se ti perdi nelle zone di Cagnola o andando verso la sede della Rai, è tutto figo. Ci sono queste propaggini del mio quartiere che ti fanno pensare di andare da un’altra parte. E ti rendi conto di quanto sia importante stare in un quartiere in cui la lingua principale non è italiano. Dietro Milano trovi questa piccola goccia di verità, che ci appartiene solo in parte.

"AND I KNEW THAT WHENEVER I GOT THERE HE WOULD BE THERE. AND THEN I WOKE UP”. Come mai questa cit di McCarthy nel sito di Raw?

Hai visto il film libro No Country per old men? Sia libro che film mi hanno segnato molto. Quando sono andato a vedere il film ero a NY da poco, non ho capito un cazzo (il film era tutto in texano). Mi ha colpito, comprai il libro e, cercando le parole nel dizionario, piano piano capii tutto. Nella scena finale viene raccontato un sogno. Probabilmente Cormac McCarthy mi sparerebbe una doppietta sul piede lasciandomi morire a bordo dell’highway per El Paso a sentire questa interpretazione, ma io la vedo così: ci illudiamo che una parte di noi sia sempre pronta a salvarci quando ci avventuriamo in terreni poco familiari, ma in realtà, siamo comunque soli. E c’è un Tommy Lee Jones pazzesco.