In occasione della mostra in Triennale Italia 1920-1945. Una nuova figurazione e il racconto del sé, abbiamo intervistato Rischa che da quindici anni affianca uno dei più grandi collezionisti italiani, l’avvocato Iannaccone, nel coordinamento di una collezione nata con grande passione inizialmente verso il Novecento italiano e poi con attenzione al contemporaneo italiano e internazionale. Rischa ci racconta come è nata la mostra, con un tono che da iperprofessionale diventa, a mano a mano che il dialogo entra nel vivo dell’arte, degli artisti storici e di quelli giovani che lo studio appoggia con fermezza, sempre più appassionato, svelando una parte importante del mondo del collezionismo, delle gallerie, di lei e di come vorrebbe fosse la sua città d’adozione, Milano. Un bel percorso per una persona che all’inizio sembrava destinata a fare tutt’altro.
ZERO: Ciao Rischa, inizierei chiedendoti della mostra in Triennale. E poi mi racconti un po’ il percorso che hai fatto con l’avvocato Giuseppe Iannaccone e, trattandosi di Zero e di me, parliamo un po’ del contemporaneo? Dato che siete tra le più importanti collezioni in Italia. E partirei da questa domanda: quando ho conosciuto te e l’avvocato, due anni fa, lui mi raccontava di Milano come una grande città, viva per l’arte, ma dove le istituzioni non aiutano quella contemporanea. Soprattutto i musei e luoghi che dipendono dalla pubblica amministrazione. E invece inaugurate una mostra nel più storico museo di Milano – per il contemporaneo e, naturalmente, il design – che è la Triennale. Come mai la Triennale? Siete contenti di questa collaborazione? E come è nata l’idea della mostra sugli anni Trenta?
RISCHA PATERLINI: L’idea della mostra in Triennale è nata dal suo compianto Presidente, Claudio De Albertis, che, dopo aver visto la collezione in studio e aver letto il primo libro sulla collezione, telefonò a Giuseppe Iannaccone e gli chiese di esporla in Triennale. Naturalmente l’avvocato ha sempre desiderato fare la prima mostra con le sue opere degli anni Trenta in Italia e in particolare a Milano, tanto che il primo libro sulla collezione dell’arte italiana tra le due guerre è dedicato proprio alla nostra città – che anche lui considera sua perché, nonostante sia nato ad Avellino e sia un tifoso sfegatato del Napoli, è qui che è nata e si è sviluppata tutta la sua carriera professionale, è qui che sono nati i suoi figli ed è qui che è nato il suo amore per l’arte. Con Triennale, fin da subito c’è stata un’ottima collaborazione: il direttore Andrea Cancellato e il direttore artistico del settore arti visive, Edoardo Bonaspetti, ci hanno da subito messo in relazione con alcuni preziosi collaboratori del loro staff – Violante Spinelli, coordinatrice della mostra, Roberto Giusti del reparto tecnico, Antonella La Seta della comunicazione e Valentina Barzaghi della didattica – con cui quali abbiamo iniziato a lavorare quotidianamente per organizzare al meglio la mostra. Molto importante per noi è stato anche il sostegno dell’architetto Elena Tettamanti, Presidente degli Amici della Triennale, che dal primo giorno ci ha incoraggiato e sostenuto in questa avventura. Amici della Triennale è un progetto nato appena un anno fa, rivolto a privati e aziende per sostenere le attività dell’istituzione: in così poco tempo ha raggiunto risultati straordinari, grazie proprio all’entusiasmo e al grande lavoro della sua Presidente.
Mi viene in mente infatti che all’entrata della Triennale ci sono tutti i nomi dei sostenitori. Una cosa molto all’americana, che negli altri musei a Milano non c’è, perché si leggono principalmente sponsor pubblici e aziende.
Si, qui sono indicati anche i nomi di persone “semplici”, cioè privati che si sono uniti per partecipare e sostenere l’istituzione. La Triennale è infatti, in questo momento, l’unico luogo a Milano, e uno dei pochissimi in Italia, che promuove la cultura contemporanea a 360°: l’arte, l’architettura, il design, e ora con un nuovo impulso anche il teatro (sono una grande fan di Severino Salvemini, e sono certa che lui, il nuovo comitato scientifico e il nuovo direttore faranno un ottimo lavoro).
Ritornando a Italia 1920-1945. Una nuova figurazione e il racconto del sé, quando è nato il progetto? Quando avete iniziato a parlarne e a strutturarlo?
Tra aprile e maggio dello scorso anno.
Quindi è un progetto piuttosto recente?
Sai, la collezione ovviamente esisteva già, tutti i pezzi c’erano. Il catalogo era già in programma e in fase di realizzazione, indipendentemente dalla mostra, e si era già deciso di presentarlo nel gennaio 2017. Si è dunque trattato di organizzare insieme all’avvocato e Alberto Salvadori un gruppo di lavoro. Prima ti ho parlato dei collaboratori di Triennale ma anche il nostro gruppo è molto unito e ha lavorato con grande entusiasmo: Oblò Architetti, We Exhibit, Lara Facco, Mousse, Artshell, i corniciai Romanò, Open Care e Dario Moalli, il giovane collaboratore della collezione. Abbiamo lavorato molto: nove mesi di duro lavoro e la fortuna di avere tutte le opere disponibili. La vera fatica è stata staccarle dalle pareti di casa dell’Avvocato Iannaccone. La moglie ha sofferto, ma si è fatta forza, e con grande tenacia mi ha chiesto di riappendere alle pareti alcune opere di contemporaneo: non voleva che l’avvocato studiasse in sala da pranzo tra le pareti bianche.
Infatti, questo è interessante: come sono state selezionate le opere all’interno della vasta collezione di Novecento dell’avvocato. I curatori siete tu e il super Alberto Salvadori. C’è tutta la collezione degli anni Trenta al completo, o avete fatto una selezione?
La selezione l’ha fatta in origine l’avvocato, costruendo con passione la sua collezione. Lui, fin dal primo quadro comprato, ha sempre voluto opere di grandissima qualità. Non ha mai comprato opere che non fossero all’altezza e, soprattutto, aveva un progetto ben preciso in testa. Ogni pezzo faceva parte di un disegno. Ovviamente quando l’ha iniziata tanti anni fa, mai si sarebbe aspettato di arrivare dove è arrivato oggi.
Quale è stata la prima opera che ha acquistato? Te lo ricordi?
Non collaboravo ancora con l’avvocato, ma me lo ha raccontato molte volte. Il primo dipinto che ha acquistato, nel 1992, è stato il Nudo su divano verde di Aligi Sassu. È la prima opera della collezione. E da li è partito il suo progetto.
Dove l’aveva acquistato?
Se non ricordo male all’asta. Poi, ogni pezzo comprato da quel momento in avanti, diventava una parte di un nucleo più grande. E quindi non abbiamo escluso nulla per la mostra in Triennale: ogni lavoro ha uno scopo preciso all’interno di questo percorso, perché racconta un periodo, un momento. Per cui si parte dal 1920 con l’opera di Ottone Rosai L’attesa, e si conclude per arco temporale con Alberto Ziveri Il Postribolo del ’45. In mostra l’ultima opera che il visitatore vedrà è Il caffeuccio veneziano di Vedova, un’opera che partecipa all’ultimo premio Bergamo, e che rivoluzionerà il modo di far pittura.
Quindi il percorso è cronologico?
In parte è cronologico, in parte abbiamo deciso di fare dei confronti interessanti tra le varie opere. Per esempio, per Ottone Rosai si avrà la possibilità di vedere come il suo gesto cambia negli anni: al fianco di un interno di osteria del 1920 ne troverai una del 1938. Allo stesso modo, nella parte finale la scelta è stata di sviluppare un focus sulla rivoluzione della pittura, ecco perché abbiamo scelto Vedova con il suo Il caffeuccio che è datato 1941/’42 anziché Il postribolo di Ziveri. Il visitatore sarà anche aiutato da un opuscolo che verrà distribuito gratuitamente e da un video realizzato da Mediarevolution che sarà proiettato nell’ultima sala della mostra. Tutti i martedì poi ci sarà un programma di incontri curati da Elena Pontiggia, per parlare dell’arte tra le due guerre che Iannaccone ha collezionato. Lei è stata una delle persone più vicine all’avvocato e a me in tutti questi anni di collezionismo.
In quali sale della Triennale si sviluppa la mostra?
Nel cubo “A”. Quindi, salendo lo scalone sulla sinistra. Abbiamo deciso di aprire le finestre. La luce che alle due del pomeriggio invade la sala è magica.
Dove c’era Ennesima?
Esatto: si parte dall’ingresso di Ennesima fino ad arrivare alla scala di Buren.
E perché avete incluso nel progetto Alberto?
Con Alberto Salvadori ci siamo trovati un giorno a chiacchierare di arte contemporanea. L’incontro è scattato durante la sua mostra di Francesco Gennari al Museo Marino Marini di Firenze. Poi venne a trovarmi a Milano. Ammiravo molto il suo lavoro e quando ci siamo conosciuti di lui ho apprezzato la sua semplicità e la sua grande preparazione dell’arte non solo contemporanea ma anche moderna.
E Gennari, mi ricordo, è un tuo amico, oltre che un bravo artista, e fa parte della Collezione.
Esatto. Francesco Gennari mi parlò così bene e in modo così insistente di Alberto Salvadori che alla fine ci siamo scritti. Con lui ci sono stati un dialogo e un feeling immediati, non solo sul contemporaneo, ma anche sul periodo tra le due guerre. E in quel momento mi è sembrato un extra terreste.
La base di Salvadori è comunque storica, mi pare. A Firenze e all’estero ha respirato quella cosa lì prima di addentrarsi nel contemporaneo.
Infatti quando abbiamo iniziato a parlare del volume sulla collezione il primo nome a cui abbiamo pensato, senza che ci fossimo parlati, è stato quello di Alberto Salvadori. Ci sembrava normale coinvolgerlo. Già dalla curatela del catalogo, a firma di entrambi.
È un bel duo. E infatti adesso vorrei parlare di te. Da quando ti ho intervistata insieme all’avvocato nel 2015 per Giants, mi hai sempre raccontato che è stato grazie a lui che ti sei avvicinata e appassionata all’arte. Ed è lui che sceglie, che ricerca, e tu coordini il tutto. Hai una grande responsabilità, oltre che una forte passione, no? Mi sembra che ormai la Collezione Iannaccone, soprattutto quella contemporanea, rispecchi anche i tuoi gusti. Anche IN PRATICA – il progetto in cui invitate un artista italiano emergente a dialogare con le opere della Collezione – ha molto di tuo: il testo, la maniera in cui interagisci con gli artisti, la passione con cui li segui. Per questo mi ha fatto piacere vedere il tuo nome nella co-curatela in Triennale.
Dunque, ho iniziato a lavorare con l’avvocato nel 2001. Non ho avuto un rapporto con le opere da subito, perché sono entrata all’interno dello studio legale come contabile. Avevo sempre sognato di fare qualcosa nel mondo dell’arte ma, non avendone mai avuto la possibilità, ho studiato ragioneria, i conti, insomma studi legati al desiderio della mia famiglia di farmi lavorare in banca, un lavoro sicuro si diceva un tempo. Quando sono entrata nello studio Iannaccone è stata una magia: vedere quei colori nel suo vecchio ufficio in via Cesare Battisti è stato come ri-nascere. E ogni volta che arrivava un quadro mi avvicinavo all’avvocato facendogli mille domande. Lui con la generosità e la pazienza che lo contraddistingue, ha iniziato a darmi indicazioni su cosa studiare, leggere e i corsi da seguire in università. Mi ricordo quando mi diede L’arte all’ordine del giorno. Figure e idee in Italia da Carrà a Birolli di Vittorio Fagone, dicendomi “Ne ho due copie. Una è per lei”. Poi mi chiedeva di accompagnarlo alle fiere con la scusa di aiutarlo con l’inglese. E così andavo.
Qual è la prima fiera, te la ricordi?
Basilea, nel 2003. Ho iniziato col botto!
Ti ricordi cosa avete comprato?
Quello no. Ma mi ricordo che mi sembrava di essere in paradiso. Non conoscevo niente e nessuno, arrivavo dalla provincia, da un paesino che non aveva neppure un museo, quindi sperimentavo qualcosa che non avevo mai visto. Onestamente non mi ricordo se quell’anno comprò qualcosa, ma mi ricordo che alcuni artisti che sono ora in collezione li abbiamo visti in quegli anni, dal 2003 al 2005, come Andro Wekua, Lynette Yiadom-Boakye, Hernan Bas. Era un mondo molto diverso Basilea, vinceva il mercato: non c’era la cura da parte del gallerista nello spiegarti le opere, non ne avevano bisogno. E allora era l’avvocato che me le raccontava. Adesso le cose, con la crisi, sono cambiate: il rapporto gallerista-collezionista si è ristabilito ed è bellissimo passeggiare in fiera e chiacchierare degli artisti con i galleristi.
Devono corteggiare di più i galleristi oggi.
Esatto. Mi ricordo una volta, sempre a Basilea, c’era Jeffrey Deitch che aveva un trittico di Raqib Shaw, una sorta di pala d’altare. Salimmo le scale per raggiungerlo al piano superiore del suo stand per chiedergli i prezzi, e lui, neanche ci spiegò l’opera, ci disse “questo vale cento, questo cento e questo cento” (ipoteticamente). L’avvocato rispose “ci penso un attimo”. Tornò e ne avevano già venduto uno. Adesso non è più così. Comunque, tornando alla tua domanda: sono molto felice, dopo 17 anni che lavoro con l’avvocato, è una gioia vedere che il sogno dell’avvocato si sta avverando. Sono stati anni di grandi sacrifici, per lui e anche per me. Oggi sapere che Iannaccone mi ha scelto per affiancare Alberto Salvadori nella curatela di una mostra in Triennale con direttore artistico Edoardo Bonaspetti è per me una gioia difficile da raccontare. È vero che la collezione in un certo senso mi assomiglia, ma è stata scelta pezzo per pezzo dall’avvocato, dunque mi assomiglia perché io sono cresciuta intorno alle opere scelte da Iannaccone e quindi il mio gusto è simile a quello dell’avvocato. Non sempre però il gusto è uguale: a volte ci sono opere che piacciono a me e non a lui e viceversa, ma è normale.
Due personalità e generazioni diverse. Immagino che questo venga fuori sulla collezione contemporanea, o mi sbaglio? Mi sembra che ti stai concentrando sulla generazione di giovani italiani, penso a IN PRATICA con Monaldi, Luca De Leva, Andrea Romano…
Devi sempre pensare che l’avvocato fa, appunto, l’avvocato. Non ha dunque il tempo per ricerche forsennate e per dedicare le sue giornate a organizzare trasporti, allestimenti e tutto quanto riguarda la gestione di una collezione, ma si alza sempre prestissimo la mattina e dedica qualche fine settimana allo studio del materiale relativo all’arte che insieme a Dario Moalli, il nostro collaboratore, raccogliamo. Il progetto IN PRATICA è nato da un’idea dell’avvocato e una delle sue richieste è stata quella di presentargli anche artisti che apparentemente non sono vicini alla sua sensibilità ma che, come nel caso di Francesco Gennari, possono poi stimolare in lui nuove visioni. Alle volte gli artisti sono più vicini alla sua sensibilità, altre volte alla mia. Però ripeto, essendo “cresciuta” con lui la mia sensibilità si tocca con la sua in molti punti. Abbiamo fatto Davide Monaldi e Luca De Leva. Ora avremo Andrea Romano che inauguriamo in occasione di miart 2017 e poi proseguiremo con altri artisti.
Con Romano come procede il lavoro insieme? So che sta producendo, è sempre nel suo studio, ha anche un’altra mostra a breve.
Con Andrea va bene. Si, sta lavorando molto per entrambi i progetti e mi piace questa intervista per il catalogo dove gli faccio molte domande anche per scoprire un po’ della sua intimità, ma lui è molto riservato. Non ama parlare di sé, ma delle sue opere. Quindi stiamo cercando un punto di incontro. Secondo me IN PRATICA n. 3 sarà una bella sorpresa.
Senti, penso a Milano, anche perché Zero è focalizzata molto sulla sua città, credi che a livello culturale quello che state facendo qui dentro allo studio – e qui torno all’inizio del nostro discorso in cui si diceva che le istituzioni appoggiano poco gli artisti emergenti italiani, anche se vedo che, almeno guardando ad alcune gallerie, la situazione stia un po’ cambiando – penso alla generazione tra i 30 e 50 anni a cui le gallerie stanno dedicando attenzione, guarda cosa hanno inaugurato De Cardenas, Minini, De Carlo, o le giovani Fantaspazio, T-Space, o in Triennale con la mostra a cura di Marco Scotini dei suoi studenti di Naba, etc. -, sono tutti italiani! Finalmente. Ecco, credi che sia a livello di mercato – perché queste cose smuovano un po’ le acque – che artistico, IN PRATICA sia utile per la città?
Principalmente spero e credo che quello che facciamo qui serva agli artisti, giovani, per farsi conoscere. Questi progetti sono interamente sostenuti da Giuseppe Iannaccone: alla fine lui paga il catalogo, organizza le serate, l’ufficio stampa, ma se gli artisti vendono il guadagno è tutto loro. Questo sostegno, che diventa anche economico, aiuta gli artisti a sviluppare nuovi progetti sia in Italia che all’estero. Luca de Leva è una grande gioia: il 4 febbraio farà una performance al Castello di Rivoli. Mi rendo conto che la città è assetata di questo. Me ne rendo conto perché quando facciamo le mostre – e i nostri ingressi devono essere a numero chiuso perché è uno studio privato l’afflusso è enorme, centinaia di persone si prenotano e visitano lo studio, e ad altrettante dobbiamo dire di no: significa che la gente ha voglia di vedere cose giovani e nuove. Forse però si pretende troppo dai mecenati. Ben vengano le fondazioni private, ad esempio, Prada, Trussardi, Hangar Bicocca, Carriero… e spero di non dimenticarne nessuna. Quello però di cui c’è bisogno a Milano è un museo d’arte contemporanea che racconti l’arte con sguardo obiettivo, attraverso le opere il momento che stiamo vivendo. Se ci affidiamo solo ai privati, avremo solo visioni private, sicuramente belle, importanti, di qualità, ma private, come è giusto che sia.
Ma certo, è soggettivo.
Non è solo soggettivo. Sarebbe importante che la città di Milano dedicasse più risorse e attenzione all’arte contemporanea e che riorganizzasse la struttura direttiva dei musei. L’arte di oggi sarà la storia di domani.
Sperando che la città costruisca un comitato scientifico che non abbia visioni appunto univoche, ma “collettive”.
Ecco, dal Comune di Milano mi aspetto che qualcosa si muova. Sarebbe bello che Milano prendesse coraggio e facesse il museo, creando un board e lavorando con i giovani, per i giovani aiutandoli. Penso sempre ai giovani artisti. Penso a Thomas Berra, Cleo Fariselli, Tony Fiorentino solo per citarne alcuni. Questi ragazzi hanno bisogno di luoghi dove lavorare con serenità, di studi con affitti sostenibili, di luoghi dove confrontarsi e crescere, e lo stesso discorso vale per i giovani galleristi.
Tu pensi che luoghi come Via Farini/Docva facciano un buon lavoro? Alla fine è l’unica realtà di residenze a Milano.
Esatto, loro sono bravissimi, ma che fatica fanno con i pochi fondi che hanno? Devono partecipare a tanti bandi. Ci sono anche le residenze di via Piranesi, ma si tratta sempre di realtà private. Si tratta di eccellenze che dovrebbero essere maggiormente sostenute, all’interno di una visione di insieme. Mi piacerebbe che il sindaco, insieme all’assessore alla cultura, davvero prendessero coraggio, anche se non ci sono tanti fondi, per creare un museo d’arte contemporanea e per dedicare maggiori risorse ai giovani e alla cultura, con un piano strategico di medio e lungo termine. Come succede nelle grandi capitali internazionali. Credi che collezionisti come Iannaccone, quelli che a Milano sostengono l’arte, non aiuterebbero il nuovo museo d’arte contemporanea?
Senti Rischa, che luoghi frequenti per la cultura a Milano? Dove vai a vedere le mostre, o a fare ricerca?
I luoghi sono quelli dove andiamo tutti, dove ci sono le belle mostre: Fondazione Prada, Hangar Bicocca, Triennale o Fondazione Trussardi quando organizza i suoi progetti. Ieri, ad esempio, mi è capitato di andare alla Gam per la mostra di Luca Massimo Barbero: vado dove so di trovare delle belle opere, che mi interessano. La Fondazione Carriero fa un bel lavoro di ricerca. Fantaspazio mi piace. E poi le gallerie private come Gio’ Marconi, Monica De Cardenas, Francesca Kaufmann, Raffaella Cortese, Giulio Tega… magari non le visito nei momenti degli opening, però mi piace sempre mantenere i contatti e parlare con i galleristi. E poi il lavoro di ricerca lo faccio anche attraverso gli amici galleristi che mi segnalano gli artisti. Recentemente ho visto la mostra di Cleo Fariselli da Clima, bellissima. Segna una svolta importante secondo me nel percorso dell’artista.
Sono bravi da Clima, fanno una bella ricerca tra italiani della loro generazione – trentenni e più giovani – e americani. Come Fantaspazio, di cui siamo entrambe fan, che lavorano con artisti del loro background.
Esatto, sono bravi: pensare che dei ragazzi che lavorano in galleria dal lunedì al venerdì, facendosi “un mazzo tanto”, poi durante il week end o la notte facciano ricerca, allestiscano etc…, è davvero bello. Pensa al progetto con Roberto Fassone, con le figurine da appiccicare all’album. Insomma, lo fanno con passione. L’avvocato ed io siamo loro fan.
Non parliamo più di lavoro. Dove vai quando non sei chiusa qui dentro in studio, o in giro per mostre? Anche con tuo figlio…
Con Lorenzo, il mio nanetto, andiamo agli autoscontri di Porta Venezia, ma poi in cambio me lo trascino a una mostra. Poi mi piace molto l’Osteria del biliardo ad Affori, ci vado a mangiare e qualche volta provo anche a giocare a biliardo, ma non sono molto brava. Mio marito mi ci ha organizzato la festa per i miei quarant’anni. Non esco molto, quando ho un po’ di tempo mi piace dedicarlo a Lorenzo, a volte vado durante la bella stagione al caffè dell’HangarBicocca e a quello della Triennale. Mi piace molto leggere libri, spesso mi rifugio nelle biblioteche, quella del mio quartiere, Affori, è molto ben organizzata. Ieri sono stata alla nuova Feltrinelli, piccola ma confortevole.
E, parlando di biblioteche, in quali vai?
Bazzico poco ultimamente, se riesco vado a quella del Castello, o ad Affori.
Quindi non leggi solo libri d’arte?
No, mi piacciono molto anche i romanzi. Anche se quando cerco di leggerli, poi mi viene in mente sempre qualcosa che ho sul comodino che magari parla di ceramica, scultura… ahah non stacco mai. Ora sto leggendo “Crocevia” di Mario Vargas Llosa. Poi sono tra i pochi che legge Pagina99, lo adoro.
Ah no, guarda che è letto, più i quanto sembri. Altre riviste?
Lettera43, che mi ha consigliato un amico. L’Internazionale. Mio marito vorrebbe buttarmi via tutte le riviste per fare spazio ai suoi fumetti che ci tiene a dire sono d’autore. La casa è piena di libri, fumetti e oggetti che troviamo durante i nostri viaggi.