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Selva Barni

Tra usi e abusi la fotografia non è mai stata in salute come oggi

Scritto da Irene Caravita il 18 maggio 2023
Aggiornato il 22 maggio 2023

Photo ICTM, Marta Marinotti, Federico Floriani

Foto di Marta Marinotti

Fiorentina di nascita e milanese d’adozione, Selva Barni è curatrice ed editor specializzata nel campo della fotografia. In particolare ha co-fondato il collettivo FANTOM con Massimo Torrigiani e Francesco Zanot, attraverso il quale è stata pubblicata l’importante rivista omonima tra il 2009 e il 2012, una collana di libri e nel futuro prossimo sono attesi due dischi, nati dal progetto Sussurra luce.

«Ci incuriosiva l’errore fotografico, il risultato inaspettato e inconsapevole, le storpiature volute o meno, era tutto parte integrante della nostra ricerca.»

Dove sei nata, che formazione hai e, soprattutto, cosa ti ha indirizzata a lavorare con la fotografia?

Sono nata a Firenze, in una famiglia molto interessata alle arti visive, alla musica, all’architettura; Adolfo Natalini, per esempio, era un caro amico di famiglia. Sono cresciuta molto esposta al mondo della produzione culturale contemporanea. La fotografia era forse l’ambito meno frequentato dai miei, e forse mi ha incuriosita anche perché era un modo per essere più indipendente. Poi, in realtà, sono sempre stata interessata a tutte le discipline, e proprio questa trasversalità sarebbe diventata la base di FANTOM. Quello che mi interessa, da allora, sono tutte le forme espressive, il senso delle cose, le idee… Come le metti in pratica per me va sempre bene. Ho frequentato dei corsi in Storia dell’Arte dell’Università di Firenze – tra cui quello di Mina Gregori, che mi è piaceva molto – ma già vivevo a Milano, dove sono scappata per studiare fotografia allo IED.
Firenze era, nel complesso, troppo radicata nel passato.

Quindi tu fotografi?

Ho iniziato come fotografa, mi piaceva, ero capace, ma trovavo le fotografie degli altri più interessanti delle mie. Ero forse un po’ troppo autocritica. Inizialmente ho usato il mestiere da fotografa per mantenermi, poi basta, andava bene così. L’ho capito quando, dopo la fine dello IED, sono andata a New York a fare uno stage nel dipartimento di fotografia del MOMA, e ci sono rimasta tre anni. Questa esperienza, tra la città e il museo, mi ha convinta, mi ha indicato la mia strada, anche se ho poi preferito slegarmi dalle istituzioni e lavorare da sola. Erano anni molto curiosi, le potenzialità erano tante, e io vedevo con chiarezza la strada che poi mi ha condotta a FANTOM, dove ho unito tutte le forme di produzione delle immagini. Il mio legame con New York è la ragione per cui FANTOM all’inizio aveva una doppia sede, io facevo avanti e indietro, e questo ci permetteva di pescare da un bacino molto più ampio di risorse visive, autori, eccetera.

Mi racconti la nascita di FANTOM?

É una storia che va ben contestualizzata nel 2008, anno della concezione da parte mia in dialogo con Massimo Torrigiani e Francesco Zanot. Era soprattutto una rivista, inizialmente, un periodico trimestrale nel quale raccontavamo la fotografia senza dividerla tra arte, comunicazione, pubblicità, moda, amatoriale o vernacolare. Ci incuriosiva l’errore fotografico, il risultato inaspettato e inconsapevole, le storpiature volute o meno, era tutto parte integrante della nostra ricerca. Il sottotitolo era infatti Sugli usi e abusi della fotografia. L’altro grande tema era l’ambiguo rapporto tra tecnica fotografica e realtà, la linea di confine tra vero, falso, finzione; e dall’altra parte il controllo dello scatto, la creazione della teatralità, la regia, la messa in scena. E infine, ci interrogavamo sulle tensioni tra chi produce la fotografia e chi la guarda, gli effetti che ha sul contesto di ricezione. La rivista è arrivata a dieci numeri poi si è fermata, ci sembrava un corso completo. Avevamo messo a fuoco un pensiero, detto quello che volevamo dire, era cambiato il decennio e tante altre cose. Si è pensato di trasformarlo in un semestrale o annuale, poi abbiamo deciso di chiuderla e dedicarci ad altro, portando la nostra visione in pubblicazioni di libri o progetti curatoriali.

Avete lavorato molto tra fotografia, musica e altri linguaggi. Ora approdate a Sussurra Luce, progetto per FANTOM co-curato da Massimo Torrigiani e Francesco Cavaliere.

Si, sai, essendo un collettivo si seguono di volta in volta gli interessi dei singoli. Come accennavo, sono sempre stata incuriosita da diversi linguaggi espressivi, e Sussurra Luce è un progetto di suono, voci e parole, meno di immagine – se non per le copertine, ma comunque trasversale. Si colloca tra la poesia concreta e sperimentale e le fiabe sonore per bambini, e nasce da una serie di concerti che curammo in Triennale, nella rassegna Parla guarda ascolta fai. I primi due dischi usciranno a giugno, uno con la voce di Ginevra Bompiani e le musiciste Caterina Barbieri alla chitarra acustica e Tomoko Savage; mentre il secondo è Zoomakia Disk 1 di Francesco Cavaliere. È molto divertente spaziare, non rimanere troppo legati alle abitudini, e con questo torno al perché abbiamo deciso di interrompere la rivista. La curiosità si muove, salta di qua e di là.

Forse il concetto di trasversalità, e quindi la natura ambigua e doppia della fotografia, la sua pervasività sono i fili rossi che guidano le tue attività. Cosa ne pensi?

La fotografia forse non esiste, tanto che il progetto, e la rivista, si chiamano FANTOM, fantasma. Volevamo proprio indicare questo aspetto della fotografia, che ferma un’immagine di qualcosa che non esiste già più un momento dopo, ed è comunque molto parziale, non è reale nel senso più completo del termine. Parafrasando Godard, sintetizzo, l’immagine non è il riflesso della realtà ma la realtà di quel riflesso. È quel momento, quell’immagine lì, non è la verità. Questo rapporto ambiguo con la realtà e la verità ci ha sempre interessato molto, insieme all’essenza effimera della fotografia, il suo essere negativo, oggetto che nasce in una camera oscura, e addirittura ora con il digitale è completamente smaterializzata… quasi non esiste più!

Oltre a FANTOM, segui dei progetti personali?

Sì, faccio diverse consulenze, tra cui collaboro con Orbital Cultura al premio che hanno istituito per Miart, con l’obiettivo di scegliere un fotografo che documenti uno storico museo italiano, per dotarlo di immagini contemporanee e aggiornate, in un dialogo di sguardi tra passato e presente. La prima edizione, lo scorso aprile, è stata vinta da Francesco Jodice, che lavorerà sugli Uffizi. Poi seguo lo sviluppo di progetti editoriali fotografici. Per esempio ora sono impegnata su un libro di Paola Pansini sul Teatro Grande di Brescia, dal quale vogliamo far emergere la teatralità della fotografia stessa, il suo rapporto con la messa in scena.

Hai dei fotografi o progetti preferiti, tra tutto quello che hai costruito negli anni?

Senz’altro devo menzionare Guido Guidi e Takashi Homma, ma anche Brice Dellsperger, del quale ho allestito in Marsèlleria un lavoro di reinterpretazione in chiave queer dei thriller più iconici della storia del cinema, da De Palma a Hitchcock.

So che insegni alla NABA: come vedi il rapporto dei giovani con la fotografia, e il suo futuro, in rapporto alle evoluzioni frenetiche della tecnologia?

Mi pare che la fotografia stia benissimo, ha preso il sopravvento. A me diverte vedere come si modella sui nuovi strumenti, penso anche che siano tutte fasi. I ragazzi e le ragazze la usano in modo molto naturale, sono nativi, guardano e parlano per immagini, il che è un grande potenziale ma forse anche un limite. Durante il corso io non chiedo che producano nuove immagini, ma che lavorino su quelle esistenti: il problema della sovrapproduzione è sentito da tanti anni.
Ripensavo ieri che Instagram è nato nel 2010, noi abbiamo fondato FANTOM un anno prima, e il libro a cui faccio spesso riferimento, Why photography matter as art as never before di Michael Fried, è uscito nel 2008. Guardando indietro, sembra un momento chiave durante il quale la fotografia, sempre ritenuta un mezzo secondario, ha trovato il suo palcoscenico. Noi, progettando FANTOM, eravamo guidati dall’attrazione per l’immagine, pubblicavamo tanta fotografia amatoriale, ci interessavano gli errori, la libertà, come ti accennavo. Anche adesso se ci pensi i lavori più interessanti sono costruiti su fotografie preesistenti, d’archivio, manipolate, ricomposte.

Che rapporto hai con Milano?

La mia relazione con Milano è ottima, diciamo che in Italia non penso che potrei vivere altrove. Mi trovo bene, anche se mi piacciono le città ancora più grandi, ho passato del tempo a Shangai e a Tokyo, mi piace il senso di spaesamento, cerco sempre l’altrove. Ma Milano mi ha sempre ben accolta, sebbene non mi senta di Milano, qui mi sento a casa. Vivo nella Torre al Parco di Vico Magistretti, che è speciale, e tutto il quartiere soddisfa la mia passione per l’architettura. Cammino tra palazzi sobri, solidi, eleganti, in via XX settembre è illustrata la storia dell’architettura milanese del secondo dopoguerra. Mi piace guardare, sono una voyeur, guardo i palazzi, le persone. È una bella zona da guardare, con pregi nascosti. Oltre al parco ovviamente, che, avendo io un cane e un figlio, sfrutto tantissimo, li sguinzaglio qui entrambi! E c’è poi la Cascina Nascosta, che amo già per il nome, e accanto, in Triennale, il Teatro dell’Arte, dove vado spesso. Ultimo dettaglio: i treni! Li vedo da casa, e ci sono molto affezionata, e non sono affatto d’accordo con i progetti di copertura.