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SIlvio Betterelli

Sartoria, fashion e sfilate in immagini sfuggenti

quartiere Centrale

Scritto da Federica Amoruso il 7 febbraio 2022
Aggiornato il 17 febbraio 2022

Foto di Luca Grottoli

Silvio si orienta tra panorami tessili destrutturati e iper-superfici. Lì in mezzo nascono giochi di ruolo indossabili e non, suggestioni di tessuto a cavallo tra arte, moda, design. A muovere le progettualità di Silvio, è un pensiero fluido che trova le sue forme affini nelle immagini sfuggenti dei ricordi, tra Sardegna e Milano, tra la vividezza di una vecchia sensazione e una strana nostalgia del futuro. Il suo laboratorio e il suo showroom stanno in Centrale: nel crocicchio per eccellenza di culture, dove le risacche del mare di storie della Stazione si infrangono su Milano.

«Qui c’è la famiglia bella del fare e del pensare e dell’immaginare.»

Una biografia di Silvio Betterelli: raccontami di te e del tuo percorso.

Sono a Milano da vent’anni, sono venuto qui per studiare in Naba e per poi finire, attualmente, dall’altro lato della cattedra, come docente. Arrivavo dalla Sardegna, da un Istituto d’arte in cui mi sono formato nell’arte del tessuto, una formazione che è rimasta costante nelle mie ricerche. Qui ho intrapreso da subito la mia carriera grazie al premio speciale della giuria ‘’Who Is On Next?’’ di Vogue Italia e Altaroma vinto nel 2009. Così ho potuto esordire presentando la mia omonima etichetta prodotta da SpS manifatture all’interno del calendario ufficiale a Milano Moda Donna.

Grazie a questa scuderia di giovani talenti ho trovato subito un produttore, un mecenate, che investe e collabora a tutte le fasi del progetto, dalla parte economica a quella logistica. Ruolo importante anche per partecipare a fiere e individuare showroom colmando le lacune di tutti gli stilisti indipendenti agli esordi. Mi sono ritrovato così a sfilare nel calendario ufficiale della settimana della moda di Milano. Ad oggi collaboriamo ancora ma il mio lavoro è molto cambiato: collaboro prevalentemente con artisti e musicisti, di recente mi sono occupato dei costumi del tour di Vinicio Capossela e Malika Ayane. Rimane sempre l’idea di ripartire col mio brand, ma con dinamiche nuove: i linguaggi di oggi sono differenti e anche l’approccio dev’esserlo.

L’ultima collaborazione col mondo dell’arte è stata per il Museo Nivola assieme ad Alterazioni Video, sempre in qualità di costume designer. Per alcuni anni sono anche stato direttore creativo del dipartimento moda al progetto di etica e sostenibilità FASHION B.E.S.T di Cittadellarte fondazione Pistoletto a Biella, mi occupavo di scrivere i progetti per i designer ospiti delle residenze. Insomma, ho sempre avuto le mani in pasta con l’arte. A Milano è semplice trovare la maniera di incrociare più discipline, e questo mi piace. Al momento mi sto occupando del rilancio della collezione di Borbonese, disegnata da Dorian Tarantini e Matteo Mena.

Qual è il peso e l’influenza delle tue origini all’interno della tua metodologia e progettualità?

Ovviamente ci sono dei richiami dell’isola che fanno capolino nel mio lavoro. Come ad esempio i progetti che includono le tecniche di tessitura tradizionale sarda: ho realizzato assieme a Nodus una collezione di tappeti molto particolari. Nell’abbigliamento invece preferisco accennare solo piccole ombre, non incorporo il vero e proprio folklore. Volumi e frange appaiono sui capi assieme a damaschi grazie alla tridimensionalità, ma non si tratta mai di richiami urlati, non quella è la mia storia. L’immaginario con cui sono cresciuto è quello delle ombre nere delle vedove, pensa che il paese di mia madre, Modulo, è il più piccolo della Sardegna: 200 abitanti. Sono attratto dalle immagini che vedi di sfuggita, dai volumi, dalle costruzioni e dalle linee. Nelle mie creazioni ho sempre cercato di far dialogare suggestioni poetiche, tecnologia e tecniche di taglio moderne. Assieme ad Otolab abbiamo realizzato una sfilata di carattere interattivo in cui l’incedere delle modelle attivava il sonoro attraverso sensori. Insomma, il mio lavoro in questo momento è ibrido, fluido, e mi piace così.

In quali altre declinazioni hai sfruttato le tue capacità nel corso di questi anni?

Un po’ di anni fa ho fondato il collettivo Smog, con cui progettavamo e producevamo oggetti di design. Ci siamo fatti trascinare da quell’onda per cui a Milano tutti fanno design e per le vie strabordano le design week. Abbiamo unito le nostre diverse competenze e ha funzionato molto bene, finché ognuno è tornato ai propri percorsi, perché il tempo non era abbastanza per dedicarci alle nostre attività individuali e al collettivo contemporaneamente. Anche qui, manualità e ricerca rimangono due focus del mio percorso. Nel mio laboratorio ho allestito una sartoria completa, tra tavolo da taglio e macchina da cucire. Qui posso produrre un capo dall’inizio alla fine, dedicarmi a prototipia e ricerca, e colleziono enormi quantità di sample tessili che vengono da mercatini, viaggi, esperienze di ogni genere. Raccolgo tutto ciò che mi incuriosisce e stimola la riflessione progettuale.

Tutto il tuo lavoro ruota molto sulla parte di ricerca.

Non posso essere altrimenti, pensa che oltre a questa materia in divenire che custodisco, riservo un’area del mio studio all’archivio, alla memoria. Qui è possibile vedere i pezzi della mia collezione che sono stati industrializzati e venduti, tra cui quelli realizzati con taglio laser ad acqua. Sono le mie produzioni d’età più giovane, e sono quelle che giocano prevalentemente sui toni cupi e sul nero. Con la maturità ho iniziato a dare una valenza al colore, alle sfumature cromatiche. Anche il colore è una scelta. Tra i capi dell’archivio conservo anche un lavoro realizzato per Eva e Franco Mattes, un progetto su una centrale nucleare giapponese blindata di cui sono state prodotte alcune immagini, ed io mi sono occupato della parte tessile. Nessuno può più vedere le immagini di quelle carte da parati di quelle case, e l’operazione artistica giocava con l’idea di restituirle criptate tramite diversi linguaggi. Del resto, la moda è la disciplina principale che utilizzo come mezzo, ma tutte le altre discipline si intersecano tra loro. Spesso oggi mi trovo a riflettere rispetto ai tempi della moda stessa, e alla voracità con cui questa consuma oggetti e persone. Invidio in modo genuino la modalità di lavoro degli artisti. Nella moda ogni stagione ti costringe ad uscire con qualcosa di nuovo a causa dell’industrializzazione. Mi piace l’idea che un artista lavori su un progetto per anni, seguendone i ritmi naturali di evoluzione e crescita senza forzature innaturali di mercato. Nella moda non puoi non seguire i tempi senza esserne stritolato, e senza una certa potenza economica e una struttura, non è possibile non ritrovarsi schiacciati dalla macchina stessa. E questo a Milano è un sentire generalizzato ancora più forte.

Cosa rappresenta Milano per te?

Come chi capita qui per caso e ci rimane, c’è forse un innamoramento per i quartieri e ne fai parte per sempre. Non saprei dirti esattamente cos’è Milano per me e per gli altri. Non ho ancora il privilegio di rallentare i ritmi o tornare in Sardegna. C’è chi arriva a un livello tale per cui può permettersi di lasciare Milano, io per ora sono legato all’università. Lasciare Milano è anche un atto politico, di visibilità. Le cose che mi accadono attorno, a parte alcune, sono qui. Questa in fondo è una città generosa. Sono arrivato accanito, e Milano è un posto in cui se hai voglia di far succedere le cose, quelle cose succedono, e così è stato per me: sono grato a questo luogo. Mi sono ritrovato a sfilare tra Armani e Prada alla mia prima sfilata, e lo devo a questa città. Sicuramente c’è una malattia dell’hype, ma non è del tutto negativa.

Io sono cresciuto tra Modulo e Macomer, tra l’entroterra e il mare. Il mio percorso è stato a tappe, dal paesino, a Sassari a milano. Se mi chiedessi adesso dove voglio stare, ti direi il più piccolo di tutti, tra il mare e il vento. Intercettando tanta gente geniale di rientro che torna nella propria terra. Che cosa abbia ancora per me Milano è una tematica inevitabile nel bilancio annuale. Qui c’è la famiglia bella del fare e del pensare e dell’immaginare, certe situazioni, sinergie e progetti, ovviamente, possono accadere solo qui. Io sono malato di mare e di pesca. Il mio obiettivo per quest’anno è decisamente l’upgrade di questa passione: la patente nautica.

Quale valore assume per te il quartiere in cui vivi e lavori, centrale?

Questo quartiere è bellissimo. È sia una porta d’uscita che d’entrata. Qui mi sono integrato subito, pensa che il mio dirimpettaio è Vinicio Capossela. Il quartiere vive e si vive in modo naturale, e anche vivace, essendo l’immediata periferia di Nolo. A differenza di tutte le altre zone di Milano, qui si percepisce un’essenza di crocevia, un melting pot che è impossibile ritrovare in qualsiasi altro punto della città. Purtroppo anche tanti ragazzi inciampano nella stazione e rimangono qui a dormire nelle strade, ce n’è uno in particolare che è il “nostro”, un ragazzo sardo naufragato qui. La stazione è assurda: le persone sono come satelliti e vi ruotano attorno, gravitano qui. Abbiamo anche un’associazione di quartiere che si occupa di aiutare chi riscontra difficoltà di ogni genere e tipo in zona. È nato tutto in modo molto spontaneo, senza forzature. Il quartiere ci ha regalato tantissimo, e abbiamo provato a restituirgli qualcosa.