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Studi Festival: Claudio Corfone, Vincenzo Chiarandà, Anna Stuart Tovini e Rebecca Moccia

Per la terza edizione di Studi Festival, dal 14 al 18 marzo, abbiamo intervistato i 4 artisti che l'hanno inventato

Scritto da Lucia Tozzi il 12 marzo 2017
Aggiornato il 13 marzo 2017

Foto di Gabriele Gregis

Luogo di residenza

Milano

Per la terza volta Milano si accende di un movimento frenetico che dura 5 giorni, ma non è generato da nessun ufficio marketing, nessuna fiera, nessuna decisione di politici o di qualche grande gruppo che deve “comunicare”: Studi Festival è un “Festival delle mostre negli studi degli artisti”, come recita il sottotitolo ufficiale, e cioè una mobilitazione (quasi) spontanea di artisti che aprono le porte dei loro studi al pubblico con una mostra di altri artisti, senza una regia unica dall’alto. Il risultato è che più di 600 artisti espongono contemporaneamente in decine di mostre distribuite sull’intera superficie urbana, con una predilezione per i suoi margini. Se si conta che per ogni artista c’è una folla di amici, parenti, curiosi, rivali, potenziali collezionisti, si può immaginare la mole di spostamenti che questa manifestazione produce. Abbiamo chiesto ai quattro artisti fondatori, Claudio Corfone, Rebecca Moccia, e Vincenzo Chiarandà e Anna Stuart Tovini (Premiata Ditta, coppia artistica alla base di undo.net), come hanno sviluppato l’idea e come si è modificato il progetto negli anni.

Studio di Sabine Delafon foto di kosticjelena
Studio di Sabine Delafon foto di kosticjelena

Come si è evoluto Studi Festival rispetto agli anni scorsi? Quanti sono gli spazi coinvolti? E quanti di questi avevano già partecipato?
Sono 100 (102), come l’anno scorso. Il primo anno erano 50.
Una sessantina hanno riconfermato, mentre altri 40 sono nuovi. Le mostre negli studi sono una cosa molto effimera, perché dipendono dai soldi che un artista ha a disposizione in quel periodo per organizzare. Ma quelli che sono cambiati molto sono gli spazi e gli eventi. Ci sono no profit che hanno chiuso e altri che hanno aperto e partecipano, e poi ci sono i luoghi speciali che alcuni artisti hanno scelto per l’evento dedicato a Studi. Persino dei luoghi non fisici, come l’evento radiofonico con Gioconda Radio elaborato dal collettivo Ditto, Sono contento che tu sia lì. Forse proprio perché abbiamo definito meglio le tipologie di spazio gli artisti sono riusciti a organizzare meglio quello che volevano fare: oltre agli studi, ci sono gli spazi (no profit, indipendenti, artist-run) e gli eventi (performance, arte pubblica, etc) che hanno una durata limitata, non estesa ai 5 giorni come gli spazi.

Nella distribuzione in quadranti si nota una diversa geografia rispetto all’anno scorso?
No, è più o meno uguale: il centro è poco popolato perché ovviamente è troppo caro per affittare uno studio, mentre la periferia, soprattutto il nord-est (molti nel quartiere oramai noto come NOLO) pullula. In generale comunque è più densa la periferia settentrionale che quella meridionale. Naturalmente ci sono eccezioni lussuose, studi ricchissimi e raffinatissimi, ma per la maggior parte si tratta di pianiterra, sottoscala, garage e magazzini – anche per questioni logistiche. Tra quelli che hanno aderito per la prima volta si trovano alcuni artisti appena trasferiti a Milano, oppure appena usciti dall’accademia, che vedono in Studi l’occasione ideale per debuttare sulla scena.
Un altro dato interessante è che quest’anno compaiono moltissime collettive con tanti nomi, spesso artisti stranieri o che comunque lavorano in altre città. Nelle prime edizioni magari gli artisti venivano a sapere all’ultimo momento del bando, e organizzavano mostre più improvvisate, magari con uno o due amici. Invece quest’anno si vede che erano più preparati, la qualità dei progetti è più alta.

Tra tutti i candidati ce n’erano molti che non avevate mai sentito nominare?
Essenzialmente solo quelli che dicevamo prima, i debuttanti, quelli che “non si conoscono neppure loro in quanto artisti”.

Si può dire quindi che Studi Festival agisce anche come un incubatore – perdonate la parola?
Non è proprio così, perché se all’inizio erano i giovanissimi a prevalere, oggi si sono uniti alla manifestazione anche artisti già molto noti.

Spazio Standards foto di Lorenzo Baroncelli
Spazio Standards foto di Lorenzo Baroncelli

Certo, questo è verissimo. E volevo sapere: in qualche modo secondo voi ha influito sul successo di Studi il fatto che gli artisti siano molto più spinti alla curatela rispetto a qualche decennio fa?
Rebecca: In realtà la figura del curatore non viene eliminata da Studi festival, molte delle mostre sono curate da curatori, soprattutto quelle nella sezione spazi.
Vincenzo: il tema è importante. In realtà forse molti, nell’aderire, non pensano prevalentemente alla mostra da organizzare, ma piuttosto alla possibilità di entrare in relazione con altri artisti. La dimensione sperimentale diventa preminente rispetto all’idea di “fare la mostra” come nella galleria. In questo senso si può recuperare l’idea di incubatore cui avevi accennato prima, come occasione per artisti anche non esordienti di potere agire di testa propria, insieme agli amici, liberi dalle mediazioni imposte dal sistema. Magari Studi Festival consente di realizzare un progetto che da anni uno aveva nel cassetto e a cui non aveva mai trovato modo di dare forma. È un contesto in cui si può rischiare di sbagliare, perché non impone il confronto duro col mercato, con la galleria. È come dovrebbe essere il classico no profit, che poi in Italia manca perché i confini slittano sempre.

Voi quattro riuscite a vedere tutte le mostre nei quattro giorni? O ve le dividete?
No, ce le dividiamo: sarebbe impossibile. Ognuno vede un pezzo diciamo 6-7 a sera, con qualche sovrapposizione, ma senza escludere nessuna delle mostre. In realtà lo scopo che noi avevamo pensato, anche per il pubblico più esteso, meno specialista, non è di vedere tutto, ma di scegliere dei percorsi per affinità, o idiosincrasia, o territorialità.
Rebecca: una cosa interessante è che gli artisti più affermati sono meno bravi a fare comunicazione di quelli più giovani: spesso le mostre dei meno noti riescono ad attrarre folle più ampie grazie a un’incredibile potenza di fuoco di locandine, spamming, social.
Anna: come diceva Marina Abramovic, ai suoi tempi c’erano progetti meravigliosi mal comunicati, mentre ora prevalgono progetti inesistenti con una comunicazione straordinaria.

Ecco, lei non fa eccezione.
Claudio: Studi non è una realtà. È una cosa che si fa. Non c’è un’istituzione che preesiste, che disciplina l’operato, ma sono gli artisti a decidere cosa faranno – una mostra già fatta, un esperimento incompiuto, un work-in-progress per un progetto più ampio. L’unica regola imposta dal format è coinvolgere almeno un altra persona, per evitare che diventi una somma di studio visit.
Vincenzo: noi siamo degli attivatori, il processo prevede la partecipazione delle persone come artisti, non come curatori. Noi non cambiamo cappello: è una reciproca attivazione tra artisti. Non seguiamo le mostre, le installazioni, la responsabilità resta degli artisti che fanno le cose. Per ognuno di noi poi questo assume una sfumatura diversa: per me e Anna è una prosecuzione di UNDO, è un’opera d’arte. Ma in ogni caso non siamo tra coloro – e sono numerosi – che escludono di proposito il ruolo di curatore, che propongono esplicitamente l’abolizione della figura curatoriale. Anche perché non risolvono nessuna questione, producono solo un caos indistinto.
Anna: Si, è una situazione completamente diversa perché Studi si fonda sulla saturazione di spazi privati, cioè gli studi, che naturalmente operano un processo di autoselezione, perché è il proprio spazio quello che viene messo in gioco. In qualche modo esiste un’affinità con dei fenomeni come il car pooling o l’airbnb, in cui è una massa di privati a rispondere a una crisi strutturale, rendendo il loro privato più pubblico.
Rebecca: Dal mio punto di vista il proporsi come artisti e non curatori (o direi meglio organizzatori) è motivato dalla convinzione che sia insito nel ruolo dell’artista creare situazioni come quelle messe in atto da/durante Studi festival, è una presa di responsabilità e autonomia necessaria in questo momento, non qualcosa in più, ma una modalità di fare che ci si aspetta da ognuno di noi proprio perché siamo artisti.

Studio di Alessio Binda-Foto di Silvia Morin
Studio di Alessio Binda-Foto di Silvia Morin

Statisticamente prevalgono le mostre di collezioni d’artista o le mostre costruite ad hoc?
Nettamente le mostre ad hoc, con un titolo e una preparazione specifica. Alla fine il grande sforzo è quello di rendere lo spazio dello studio – che è delicato, affollato di oggetti, disordinato, riservato – uno spazio agibile, visitabile, aperto alle opere altrui e a un pubblico. Spesso è un’operazione molto complessa.

Dopo fate postproduzione? Ci sarà un archivio di tutte le mostre fatte?
Faremo il blog e metteremo tutte le foto, grazie anche alla fondamentale collaborazione con la scuola di fotografia dell’accademia di Brera diretta da Paola Di Bello. Saranno fotografie autoriali, interpretative, non semplicemente documentarie. Anche i racconti saranno fatti da studenti, della NABA e di Brera.
Anna: Comunque, è importante sottolineare che le mostre di Studi non sono necessariamente mostre finite, confezionate. Ci siamo ritagliati un momento per lanciare delle scintille: in molti casi è successo che poi dalle mostre di Studi siano poi stati sviluppati progetti molto più ampi. Si tratta di un progetto collaborativo in un contesto competitivo come è quello di Milano. È una cosa che risponde a un bisogno diffuso.

Studio di Gianluca Quaglia foto di Alessandro Allegrini
Studio di Gianluca Quaglia foto di Alessandro Allegrini

Questo è verissimo, e probabilmente è la vera eccezione anche rispetto a tutte quelle reti che retoricamente sostengono di essere fondate sull’orizzontalità ma si rivelano sempre organismi piuttosto chiusi e gerarchici. Studi è talmente decentrato da assomigliare sul serio a un grande happening diffuso, dove tutti si incontrano con tutti.
Claudio: Ah si, è vero che tu lo descrivevi come una roba di feste! Ahah

Ma è inevitabile: se si accendono decine di focolai di incontri tra artisti, amici degli artisti, amici degli amici, tutti in contemporanea, non possono che scaturirne decine di feste, no?
Comunque, come avevate concepito questa idea? Come l’avete fatta nascere, come avete formato questo quartetto?

Claudio: io e Rebecca avevamo fatto separatamente due mostre collettive, ognuno nel proprio studio: lei era venuta a guardare la mia e io la sua. A un certo punto ci siamo detti che aveva un senso proporlo alla città, agli artisti milanesi, e Anna e Vincenzo, con la loro opera artistica, con UNDO avevano fatto qualcosa di molto affine. Io li avevo sentiti parlare a una lezione a Brera.

Studio di Rebecca Moccia, Silvia Mariotti, Emanuele Resce, Cosimo Filippini, Claudia Ventola, Foto di Federica Boffo
Studio di Rebecca Moccia, Silvia Mariotti, Emanuele Resce, Cosimo Filippini, Claudia Ventola, Foto di Federica Boffo

In questi anni Studi è stato riconosciuto, vi hanno invitato, coinvolto in altre situazioni affini? Ha prodotto nuovi cortocircuiti all’esterno, nuove occasioni di confronto
Rebecca: si, spesso, ma non è successo tanto a noi, quanto agli artisti. In molti casi artisti sconosciuti che avevano esposto per la prima volta a studi sono stati poi chiamati a esporre, sono stati coinvolti in altri progetti.

E invece cose che avete voi imparato in questi anni?
Anna: moltissimo, anche perché noi siamo i primi a non sapere esattamente cosa aspettarci, cosa ci sarà nel display, siamo spettatori. E quindi ho conosciuto una quantità di artisti che non conoscevo, ho capito molte cose sulla città e i suoi spazi, come vengono usati, perché questo è in primo luogo un progetto a scala urbana, in dialogo con Milano. E ho capito molto sulla situazione artistica di questo momento storico, sulle nuove proposte.
Rebecca: mi ha molto colpito un confronto tra artisti e pubblico del tutto inedito, impossibile nel circuito delle gallerie normali, e le relazioni tra artisti per una volta liberi dalla logica del contatto figo, della convenienza. Quando vedi che una collaborazione nasce per stima, per affinità intellettuale ed emotiva, ne scaturiscono prodotti artistici completamente diversi. Si sposta qualcosa, c’è un confronto incredibile.
E poi la facilità con cui potevamo entrare in contatto con artisti di ogni genere, anche quelli che erano i nostri miti.
Claudio: ho imparato a organizzare meglio le cose. Ho anche capito che non voglio essere considerato curatore, non voglio farlo neanche. Dopo tre anni mi è diventato chiaro che voglio essere, senza ambivalenze, visto come un artista, e basta.

Casa studio di Francesco Maluta e Serena Vestrucci foto di Alessandro Allegrini
Casa studio di Francesco Maluta e Serena Vestrucci foto di Alessandro Allegrini

Una cosa che mi colpisce del vostro incontro è che mentre Claudio e Rebecca sono emersi in un’era in cui le pratiche relazionali, l’arte interattiva, in rete, era già molto popolare, Vincenzo e Anna hanno cominciato a fare queste cose in un momento in cui Achille Bonito Oliva promuoveva internazionalmente la transavanguardia, che incarnava tutti i valori opposti, in tutti i sensi. Come vi siete trovati?
Anna: Bonito Oliva ci aveva invitato a La tribù dell’arte, in cui avevamo coinvolto tutti gli artisti dellal rete di UNDO. Lì capì meglio che facevamo delle operazioni che espandevano il campo, che avevano un carattere virale, e che al tempo stesso coglievano le contraddizioni al suo interno. Lui diceva che eravamo “i suoi ragazzi magici”, non era lui quello strano ai tempi, ti assicuro che ce n’erano ben altri.
Rebecca: poi in realtà anche dire che oggi c’è un contesto di rete tanto sviluppato è molto relativo, essere giovani artisti oggi è veramente complicato.
Claudio: si, secondo me alla fine la situazione non è così diversa, anche negli anni Novanta e anche ora la situazione è molto competitiva, esclusiva.

Beh, delle differenze radicali esistono. Sicuramente nelle retoriche. Le teorie elaborate negli anni Ottanta italiani erano innegabilmente le più reazionarie mai sentite dal dopoguerra. Erano stati di chiusura fortissima rispetto a tutti gli anni Settanta. Poi certo, allora nonostante tutto – e soprattutto a Milano – c’era ancora un modo e un desiderio di incontrarsi, di stare insieme che oggi non esiste probabilmente.
Vincenzo: Gli anni Novanta a Milano o a Firenze sono stati uguali, hanno sempre tenuto da una parte quelli che attivavano dei processi e dall’altra il mondo dell’arte, un sistema inscalfibile, strutturato con determinati meccanismi. Lo scontro tra questi due meccanismi è sempre stato fortissimo, un cozzo tra due modi di intendere la cultura. A noi è sempre interessato il discorso del fare: e questo fare è portato avanti dagli artisti. Il resto della struttura o partecipa alla divisione anche economica o arriva sempre in ritardo rispetto a questo fare.