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Thomas Umbaca

In occasione del suo album d'esordio 'UMBAKA' Il pianista anglo-calabro ci racconta il suo rapporto con la musica e con Milano, una delle sue tante case

quartiere Navigli

Scritto da Paolo Cerruto il 6 dicembre 2023

La prima volta che ho sentito il suo nome me lo sono fatto ripetere due volte, non credevo alle mie orecchie; Umbaca è un cognome ritmico e assurdo per la media italiana, mi ricordava l’espressione cara ai cantanti giamaicani “booyaka”, onomatopea che nello slang dell’isola sta per un colpo di pistola. Ma Thomas ha origini calabresi e inglesi, ed è nato e cresciuto esattamente a metà tra le due latitudini, qui a Milano. Me ne parlò per la prima volta Alex Cayuela, percussionista di Addict Ameba, che qualche giorno dopo lo portò in sala prove, dato che il nostro tastierista Francesco Criscione si era trasferito in Sicilia durante la pandemia. È così che ho conosciuto un ragazzo curioso e visceralmente appassionato di musica, tanto che si sposta in bici da un luogo all’altro della città per suonare, come qualche sera fa che dopo aver accompagnato “L’Orazio” al Pacta dei Teatri si è fiondato al Leoncavallo, dove si è esibito con il collettivo delle amebe per La Terra Trema.

Thomas Umbaca (Milano, 1997) si dedica e si interessa fin da piccolo alla composizione e all’improvvisazione, due aspetti che con gli anni si evolvono in un unico linguaggio espressivo. Dopo studi classici presso il Conservatorio Verdi di Milano, frequenta i corsi di pianoforte jazz dove studia con importanti figure del panorama jazz italiano. Nonostante la giovane età, ha avuto occasione di presentarsi per prestigiosi festival e rassegne, suonando in solo o con varie formazioni.

Non faccio musica per un luogo, ma forse nemmeno per un preciso contesto sociale, musicale o di qualunque altro tipo. Provo a essere per tutti, di aprirmi.

Nel 2019 vince il Premio speciale Hermès per giovani talenti al Concorso di PianoCity Milano dedicato a Renato Sellani, al quale partecipa con sue composizioni. Nel 2021 è vincitore assoluto del Premio Lelio Luttazzi nella categoria giovani autori pianisti presso la Casa del Jazz di Roma. Quest’anno è uscito il suo primo disco, intitolato UMBAKA, per Ponderosa Music Records.

Ciao Thomas, qual è il tuo primo ricordo legato alla musica?

Io che tutti i giorni apro l’ultimo cassetto in basso del mobile in cucina, forse l’unico raggiungibile da me (avrò avuto intorno ai quattro anni), in cui ci sono dentro i miei strumenti di plastica; un sax e una tromba in miniatura da cui in qualche modo usciva un suono, un’armonica a bocca, una mini-chitarra sgangherata e diverse piccole percussioni. Nel cassetto accanto, invece, prendevo pentole e coperchi e mi costruivo il mio “set” di batteria e con i mestoli di legno ci davo dentro finché non le ammaccavo. Ho un ricordo meno romantico di reflussi gastrici perché stavo troppo rannicchiato in avanti a stomaco pieno. Adesso invece ho imparato a stare molto dritto quando suono…

Senti, come ti trovi nel tuo quartiere (Ticinese) e più in generale a Milano?

Mah ti direi bene, con il tempo ho capito come trovare un equilibrio dentro a un ritmo che spesso non è allineato al mio, ma mi ci è voluto un po’. Poi non mi posso lamentare, mi piace la mia zona, che anche se sta a pochi metri dalla movida un po’ plasticosa, nasconde sotto un lato più vero, sincero. Alla fine la mattina dopo i weekend impestati di gente mi sembra di stare in campagna tra le cascine. La mia era la zona dei formaggiai. E poi qui a sud c’è Cox18, il BIKO, la Corte dei Miracoli, Peppuccio in Darsena. Insomma, alternativa c’è. Se voglio sentire bella musica e bere una birra easy in zona, anche al di fuori di circuiti più grandi, so dove andare. Poi mi rimane comunque in testa il pensiero che manca una scena musicale interessante nei club, ma quando ci penso, nei luoghi appena citati ho visto cose spaziali. Non lo so, non ho ancora capito. Forse semplicemente non c’è un gran fermento e una continuità, manca un po’ di partecipazione per quanto riguarda le realtà più piccole, c’è un po’ di pigrizia da parte del pubblicopoco interesse per la musica in sé, e troppo di più per tutto quello che ci sta attorno. Ma non voglio generalizzare, non è sempre così. Milano è anche bella.

Uscendo da Milano, che rapporti hai con le tue origini dal sud Italia e dall’Inghilterra? Cosa ti hanno dato?

L’ho capito relativamente tardi, ma penso che mi abbiano dato la cosa più bella che – dopo all’esperienza surreale del volo diretto Londra-Lamezia Terme – è l’idea di appartenenza a diversi posti, che potrebbe sembrare scontato ma invece è una grande fortuna (e oggi è un concetto sicuramente lontano dal nostro vivere). Mi sento a casa a Milano come in UK come in Calabria (lo so che la Calabria è in Italia, ma è come se fosse un mondo a sé – lo dico anche in senso buono).
Questa percezione di trasversalità si estende oltre confini più ampi ancora. E questo cerco di portarlo anche dentro la mia musica. Non faccio musica per un luogo, per un Paese, ma forse nemmeno per un preciso contesto sociale, musicale o di qualunque altro tipo. Provo a essere per tutti, di aprirmi. O perlomeno questo è il mio obiettivo e la mia direzione. Poi non si può mai essere per tutti davvero.

Come sei arrivato al tuo primo album solista?

Può suonare semplicistico, ma ti risponderei facendo quello che ho sempre fatto da sempre: suonando, inseguendo un’idea e un’idea di suono. È stato un processo abbastanza naturale. Più concretamente direi grazie all’incontro con Titti Santini di Ponderosa e alla sua visione. Ho sempre creduto molto nella musica. Nell’essere musicisti. Mi fido molto di chi ascolta, e di chi si fida a sua volta.
Io comunque sono cresciuto guardando l’esempio dei miei genitori (mio padre è un artista visivo, mia madre lavora nella moda) che prendono il “mestiere” artistico in modo serio, non come un gioco, ma un po’ come una ragione di vita. Mi hanno passato l’idea che nella vita si può fare arte, ma mi rendo conto che chi non ha questa fortuna è più difficile che trovi il coraggio di esporsi in un certo modo, di andare avanti con determinazione… Come sempre gli esempi ci muovono, e purtroppo in Italia spesso il modo con cui si guarda agli artisti non è proprio un grande esempio… A tratti sono apprezzati, ma fare arte nella vita sembra ancora una scelta assurda, un privilegio solo per fortunati appunto perché a livello istituzionale non si investe in cultura e nei suoi attori, ma al contrario si tagliano i fondi…

Hai perfettamente ragione…Cosa vuoi comunicare con la tua musica?

Apertura, accoglienza, vita, ombre, luce… Mi piace pensare di “liberare” qualcosa che è già lì, la musica sta tra le persone, va soltanto vista e tirata fuori.

Per chiudere, come vedi la nuova scena jazz nazionale e internazionale?

Domanda complessa… A livello nazionale sento alcune cose molto belle, ma a volte ho l’impressione che siano uno spiraglio timido; mi spiego meglio, secondo me qui c’è un po’ di paura. E il mondo del jazz, e dintorni – ma forse direi in generale della musica su tutti i fronti – richiede coraggio, idee… bisogna mettersi in gioco, e lo abbiamo visto dai personaggi che hanno dato linfa a questa musica.
Spesso noto un po’ la tendenza a nascondersi dietro allo strumento, che sta a sua volta dietro ai famosi “grandi del jazz”, ai “giganti del jazz” (espressioni che mi ha sempre un po’ annoiato, perché avvicinano queste persone più a delle statue, a dei santi da venerare, che poi è l’ultima cosa che erano davvero), sui quali ci si accomoda un po’.
Senza dilungarmi in una questione più complessa, anche a livello didattico per esempio mi piacerebbe che ci fosse più interesse a stimolare la personalità dei ragazzi che si avvicinano a questo mondo, e il discorso è sempre il solito, e molto italiano: “prima impari bene l’esempio, dopo, in futuro, potrai metterci del tuo”. Quando me lo dicevano impazzivo. Penso che le due cose dovrebbero sempre andare insieme, anzi con l’esempio che fa da contrappeso a una propria ricerca di sé, più che il contrario. Il linguaggio nella musica va reso personale, “attualizzato”, se no sembriamo un po’ dei pazzi…
Penso che la musica e il suono stiano più nella vita che nelle note in sé, e non sarò certo l’unico a pensare che in Italia a volte manchiamo di un po’ di spiritualità. Se non vivi esperienze e non le ascolti in un certo modo forse è difficile farsi un’idea delle cose, e poi esprimerle in suono. Forse ci vuole la lucidità, a volte, di staccarsi un attimo dallo strumento, io direi meno studio ossessivo e più vivere la vita – Ride, NdR. Poi lo strumento ci aiuterà, sarà il nostro migliore alleato, ma non può tenerci al guinzaglio, siamo noi a doverlo far suonare.

Bonus track: 5 album che ti hanno (tras)formato.

Mi vengono in mente anche alcune cose che ho trovato in casa e che mi porto sicuramente dentro.
Protection dei Massive Attack, Portishead dei Portishead, Untrue di Burial, Pre-Millenium Tension di Tricky, per vagare in quella profondità della pulsazione lenta…  Poi direi almeno un disco di energia del 2nd Quintet di Miles Davis: Miles Smiles o Nefertiti, oppure The Shape of Jazz to Come di Ornette Coleman, un suono pieno di vita. O Jimi Hendrix Experience, Blackstar di Bowie (l’ultimo ma come rappresentante di sue altre cose magiche), Lezioni di Tarantella (una compilation di Eugenio Bennato che contiene un suono familiare, l’energia della musica del meridione). Con la scusa dell’ “oppure” ho sicuramente sforato i 5, ma lascia tutto dentro, dai!