“Avevo sedici anni e la mattina pulivo i bicchieri sporchi di vino che mio padre e gli artisti, che erano stati in litografia fino a notte fonda, lasciavano vicino al tavolo da lavoro”. Romolo Bulla racconta così il suo primo approccio con la litografia, che un tempo apparteneva al padre e dove oggi anche le sue figlie lavorano. Una tradizione di oltre duecento anni quella della Litografia Bulla, dove ogni angolo, dagli attrezzi, al torchio, alle pareti segnate dal tempo, sembrano avere un pezzo di storia da raccontare. Ricettari di tecniche antiche per accettare le innumerevoli sfide lanciate dagli artisti. Un luogo dove le forme della creatività da sempre hanno trovato un luogo sicuro, dove ciò che conta è capire gli artisti e arrivare a stringere con loro un rapporto intimo, che porti a interpretare al meglio il loro linguaggio più profondo. In tanti hanno varcato la soglia di questo luogo magico dove si respira arte, materia, sperimentazione: Carl Andre, Lucio Fontana, Cy Twombly, Jannis Kounellis, Cucchi, Dessì, Paladino, Nunzio, Accardi, Tirelli, Ontani, Bianchi, Ceccobelli, Jim Dine, Ana Mendieta, per dirne solo alcuni. Oggi Beatrice e Flaminia Bulla, appartenenti all’ultima generazione, continuano a seguire le tracce della tradizione inserendo proposte contemporanee. Così nasce la rassegna “Passaggi”, con la vetrina su strada della Litografia che si trasforma una piccola finestra magica su artisti appartenenti alla storia come al presente. Ciò che ne deriva è una bellissima narrazione, iniziata nel 2020 con Enzo Cucchi e tuttora aperta, con l’alternarsi di grandissimi maestri e artisti più giovani. Proprio Beatrice e Flaminia hanno aperto a ZERO le porte di questo piccolo mondo antico, raccogliendo l’invito per un’intervista.
Ci sembra d'obbligo iniziare questa intervista con un po' di storia, visto che la Litografia Bulla ne ha una addirittura bisecolare.
La famiglia Bulla è originaria del Canton Ticino. Da qui, nel 1818, Francesco Bulla parte per trasferirsi a Parigi, dove apre il primo stabilimento litografico. La litografia a quel tempo era ancora una tecnologia relativamente nuova (era stata inventata a fine Settecento) e comunque era quella che si era imposta sul mercato come metodo di riproduzione potenzialmente infinito, abbracciando tutti i campi: l’arte, la scienza, l’illustrazione. All’ingresso della nostra sede ci sono due grandi cartelloni dell’inizio del Novecento appartenenti a una casa di produzione cinematografia francese tuttora in attività: quel tipo di manifesti venivano fatti in cromolitografia. Francesco ha poi due figli che aprono altrettanti stabilimenti a Parigi e collaborano con diversi editori della città. Ci spostiamo a Roma nel 1840 circa, non sappiamo bene per quale motivo, ma immaginiamo per lavorare con il Vaticano.
Un ottimo committente....
Beh, sicuramente sì!
Dopo il trasferimento a Roma che succede?
La Litografia ha una sua prima sede in via del Bufalo, poi una in via del Corso per arrivare infine nel 1840 in via del Vantaggio, dov’è tuttora e dove hanno lavorato tutte le generazioni che si sono susseguite fino ai giorni nostri. Questo mestiere in famiglia è stato sempre tramandato di padre in figlio, non è mai passato nelle mani di un parente, vicino o lontano che fosse: ogni generazione lo ha portato avanti con grande passione. Nostro padre, Romolo, e nostra zia, Rosalba, lavorano qua da quando hanno 14 anni e nostra zia è stata la prima donna a tempo pieno: è sempre stato un lavoro prettamente maschile.
Come e quando avete deciso di raccogliere questa eredità?
La nostra casa è proprio sopra la litografia, per cui questo lavoro ci è entrato dentro strisciando, nel tempo. Dopo scuola ci mettevamo sempre qui a disegnare o fare qualche lavoretto. A dirla tutta però, nessuna di noi due aveva programmato di lavorarci. Abbiamo fatto entrambe l’università, studiando chi Pubbliche Relazioni e Marketing chi Storia dell’Arte (teorica). Poi, più o meno allo stesso momento, ci siamo dette che avremmo dovuto portare avanti anche noi l’attività, soprattutto dopo una mostra del 2018 per i 200 anni all’Istituto Nazionale per la Grafica, in cui abbiamo lavorato molto sui nostri archivi.
Quindi il passaggio di consegne generazionale ancora non si è completato...
No, esatto. Ora ci sono due generazioni di litografi che convivono, ognuna con la sua generazione di artisti. Nostro padre e nostra zia sono la sesta, noi siamo la settima. Tra queste due generazioni c’è stato un passaggio e c’è un’unione, loro per noi sono fondamentali, ma in qualche modo anche noi lo siamo per loro ed è bello quando ci si ritrova sulla stessa visione del rapporto che deve sussistere tra artisti e litografia. Ovviamente loro hanno un bagaglio culturale e tecnico differente dal nostro: sono cresciuti con gli artisti della Transavanguardia, del Gruppo Forma 1, dell’Arte Povera e avevano un’attitudine un po’ più carbonara. Per loro la Litografia doveva essere una caverna per gli artisti, il loro studio in tutto e per tutto, con una grande privacy, non gli importava la promozione. Non che ora la Litografia non sia un luogo sicuro: quando gli artisti sono qui le porte si chiudono e le mostre non sono visitabili. Stiamo però cercando di affiancare la tradizione a visioni più contemporanee.
Quanto dura mediamente il lavoro di un artista in litografia?
Dipende da quanto si hanno le idee chiare e da quanto un artista abbia conoscenza del lavoro in grafica, dei materiali, del segno che vuole e del modo in cui arrivare al risultato migliore. Detto questo, noi non diamo tempistiche, ci piace avere tutto il tempo necessario per far scoprire come funziona la grafica e accompagnare l’artista nel suo percorso. Nostro padre ci ha sempre detto che la prima cosa da fare quando si inizia a lavorare con una persona che non si conosce è andarci a prendere un bicchiere di vino insieme. E la cosa effettivamente funziona perché è fondamentale entrare in connessione chimica. In litografia si lavora gomito a gomito, se non c’è feeling le cose escono male.
Addentriamoci un po' nei meandri della tecnica. Come funziona la litografia?
Come dice la parola stessa, si tratta di scrittura su pietra. Ovviamente si tratta di una pietra particolare, calcarea, la cui particolarità è quella di assorbire in maniera eguale acqua e grasso. Ne esistono di tipi diversi, dalle più grigie alle più bianche a seconda dell’aridità, qualità che poi determina il modo in cui dovrà essere trattata in fase di preparazione e sviluppo. Il primo processo di preparazione della pietra è quello di pomiciatura e granitura, che è diverso a seconda del segno che l’artista vuole realizzare: se il suo segno deve essere pulito, come se stesse lavorando con una biro su un foglio di carta, allora la pietra sarà molto liscia, se il segno dovrà essere simile a un disegno su un muro, lo sarà molto meno. Le pietre litografiche vengono riutilizzare costantemente, per cui la prima fase è il più delle volte una fase di cancellatura. È un aspetto allo stesso tempo bello e triste: bello perché una pietra si può utilizzare più volte, in maniera quasi magica, riducendosi sempre di un po’; triste perché il disegno originale è destinato a scomparire e a vivere solo nelle stampe.
Quindi il detto "scritto sulla pietra" per voi non esiste.
Effettivamente no. Ci sono però alcune pietre che abbiamo conservato, ad esempio alcune che venivano incise e in cui rimaneva dentro l’inchiostro. Poi in archivio abbiamo dei virtuosismi incredibili, realizzati con una minuzia e una perizia assoluta: stemmi, carte geografiche, vedute di chiese.
Dopo la preparazione cosa accade?
Si passa al disegno, che può essere fatto a braccio o può essere trasportato con un lucido. Non tramite carta carbone però, perché è grassa e lascerebbe il segno sulla pietra, ma con una carta che prepariamo con il blu di Prussia che praticamente spolvera il disegno. Si può decidere di disegnare a matita (con una matita grassa), con l’inchiostro, con l’acquerello, o anche con la mani stesse. Di recente abbiamo fatto di un lavoro con Andrea Polichetti nel quale l’artista ha addirittura utilizzato del filo di ferro e delle molle intinte in un inchiostro grasso che hanno poi lasciato la loro impronta. Dopo che il disegno è finito si aspetta che il tratto si asciughi se particolarmente liquido (inchiostro o acquerello), si dà il talco e si sviluppa la pietra con una miscela di gomma arabica e acido nitrico. Dopo lo sviluppo si passa un rullo inchiostrato lungo tutto la larghezza della pietra, che così restituirà il colore solo nelle parti disegnate. Noi utilizziamo anche la colofonia, che si appiccica all’inchiostro e si trasforma in una sorta di calotta protettiva. Facciamo anche una seconda acidazione per fare in modo che siano restituiti tutti i dettagli del disegno. Per la stampa poi utilizziamo sempre fogli umidificati la sera prima e tenuti sotto pressione, perché così la fibra della carta si distende e riesce ad assorbire più inchiostro. Negli Stati Uniti stampano molto con il foglio asciutto, ma noi per tradizione utilizzammo questo metodo.
Quali sono le altre tecniche grafiche con cui lavorate?
Incisione su legno, su linoleum. È difficile però fare un elenco delle tecniche perché per lo più quello che facciamo è sperimentare, accettare le sfide degli artisti. Ad esempio, una volta Enzo Cucchi ha voluto fare dei lavori su mattone non cotto ed è stato molto difficile capire come mantenere vivido il colore del disegno – poi nel ricettario del nostro trisnonno siamo riusciti a trovare un modo per ridurre l’assorbimento. Con Pizzi Cannella abbiamo fatto un libro di xilografie su tessuto; con Delfina Scarpa abbiamo stampato delle litografie su seta; con Guglielmo Maggini siamo riusciti a fare delle riproduzioni anche su plexiglass; con Alessandro Giannì abbiamo fatto delle stampe su alluminio alle quali ha collaborato anche Lulù Nuti, abbracciandole con due sue parentesi di gesso. La tradizione della grafica deve essere rispettarla perché ci sono regole e procedimenti precisi, oggettivi, scientifici, però è possibile anche allargarne le maglie in base alle visioni degli artisti e cercare nuovi metodi. E per noi è proprio questa la parte più divertente.
Come si è avvicinato il mondo dell'arte alla litografia nel tempo?
In realtà, attraverso l’illustrazione, un rapporto c’è da sempre. Ci sono state le stampe di Maurin, Grandville, degli illustratori caricaturali. Poi, nel momento in cui è diventata una tecnica obsoleta, la litografia ha iniziato a legarsi sempre di più al mondo dell’arte contemporanea. Diciamo dalla generazione di nostro nonno, che stampava ancora biglietti da visita ma allo stesso tempo lavorava con artisti come Scialoja e Dorazio.
Qual è l'aspetto della litografia che più affascina un artista?
Sicuramente l’avvicinarsi alla pietra per quella che è: un materiale naturale talmente sensibile da ridare indietro il proprio segno in maniera fedele e dettagliata. Spesso un occhio esterno non riesce a riconoscere la differenza tra un disegno e una litografia. Poi c’è anche la libertà di poter fare quello che si vuole, di sperimentare. Basti pensare a Kounellis e ai multipli che ha realizzato qui unendo la grafica a oggetti come coltelli, scarpe o ferri da stiro.
E per voi invece qual è l'aspetto più emozionante?
È tutto il processo a essere emozionante: dall’adrenalina che si crea nel momento in cui si parla con un artista – magari anche sconosciuto – per il quale si vuole essere un appoggio sincero e una guida, fino alla sorpresa che si ha quando si vede per la prima volta una stampa; la maggior parte delle persone non si immagina che venga così bene. Leggere la meraviglia negli occhi di un artista è sempre un momento romantico. Anche il legame personale che si crea è molto bello, perché si arriva a conoscere un artista da un altro punto di vista, molto più intimo e sfaccettato.
Che rapporto avete con il digitale e le nuove tecnologie?
Ci stiamo lavorando, perché è giusto valorizzare la tradizione ma anche avere un piede in quello che stiamo vivendo. Ci sono delle tecniche molto valide come il giclée: una stampa inkjet che utilizza degli inchiostri particolari, che riescono ad avere una fedeltà molto alta negli anni su carte certificate e possono registrare anche il più minimo dettaglio. Con questa tecnica, per esempio, abbiamo stampato degli acquerelli. Ci sono poi artisti come Gianni Politi che hanno voluto fare convivere il nuovo e il vecchio combinando il giclée con la xilografia. Ogni tanto lavoriamo anche a distanza con file digitali, con la fotolito ad esempio.
Arriviamo alla rassegna "Passaggi", che è letteralmente una finestra della Litografia che si affaccia sull'arte contemporanea. Come e perché è nata?
Nasce dalla volontà di ricordare che la storia e la tradizione sono importanti, sono le mamme di tutto quello che facciamo e possono vivere anche oggi arricchendosi delle visioni e dei materiali contemporanei. Per noi non c’è cosa più bella di un artista che, dopo aver lavorato qui in grafica sperimentando con diverse tecniche e materiali, ci racconta di aver cambiato la sua idea di lavoro. Inoltre, volevamo far rivivere tante cose che sono state fatte e non sono mai uscite. Papà e zia si sono divertiti a realizzare tante edizioni che poi sono rimaste chiuse qui dentro. Ad esempio lavori fatti con Carla Accardi o Giacinto Cerone, di cui abbiamo fatto riuscire una litografia realizzata con l’applicazione delle sue carissime ceramiche.
Il nome "Passaggi" da dove arriva?
Ha diversi significati. È un ciclo nato durante il Covid, quindi c’era l’idea di far vedere una mostra da fuori, passando per strada, senza entrare in un ambiente a contatto con altre persone. Poi il passaggio generazionale; il passaggio come scambio di informazione che costantemente entrano ed escono da qui; il passaggio di nozioni tra artista e stampatore che diventa anche amicizia…
Protagonista attuale di "Paesaggi" è il collettivo Canemorto. Cosa ci dite di loro?
Si tratta di una collaborazione nata in maniera spontanea. Due/tre anni fa un gruppo di curatori ce li ha presentati e chiacchierandoci li abbiamo trovati molto interessanti: ironici, ma allo stesso tempo fermi. Un po’ come la loro arte, in bilico tra realtà e finzione, ma con una base culturale molto forte. Gli abbiamo proposto di fare qualcosa assieme e ci siamo organizzati nonostante il Covid, perché loro di base sono a Bologna. Sono arrivati con un progetto strutturato che poi è cresciuto molto durante le due settimane di lavorazione, che sono state intensissime. Infatti l’inaugurazione ce la siamo goduta alla grande, ma poi siamo andate subito a dormire!
Ci sono altri lavori che state portando avanti oltre a "Passaggi"?
Sì, in collaborazione con Alessandro Cucchi stiamo portando avanti un progetto incentrato sui libri d’artista. Per ora ne abbiamo completati quattro: quello di Mirco Marcacci lo abbiamo presentato da noi, quello di Guglielmo Maggini da pianobi al Quadraro, quello di Antonio Finelli lo presenteremo martedì 12 aprile alla Galleria Richter e poi sarà la volta di Delfina Scarpa. La sperimentazione può sfociare anche nella costruzione di un unico “oggetto” come un libro, dove vanno a confluire più tecniche. Spesso queste edizioni le presentiamo al di fuori delle mura della Litografia, per cercare un legame stretto e di maggior scambio con altre realtà romane. La condivisione e l’arricchimento reciproco per noi sono due elementi importantissimi.
Riuscireste a immaginare la Litografia Bulla in una città che non sia Roma o in un luogo che non sia via del Vantaggio?
Impossibile! Anche se in Italia l’artigianato è sempre in difficoltà e ci sono altri paesi come gli Stati Uniti dove la litografia è molto più conosciuta e sfruttata dagli artisti. C’è talmente tanta arte e storia che si è accumulata su queste pareti e in questi spazi che non può essere portata altrove.