Il Puddhu Bar non era un locale qualsiasi, era una famiglia. Giovedì indie rock, Venerdì elettronica, Sabato drum’n’bass e alla porta sempre Francesco. Il locale era frequentato da creativi vari ed era normale routine trovarsi a parlare con il grafico del flyer che avevi in mano mentre l’amico dj ti presentava il fotografo di cui avevi visto la mostra nel pomeriggio. Piccolo ma estremamente accogliente col suo dehor, la console rialzata, i visuals e il calciobalilla al piano superiore per riprendere fiato.
Situato a metà della parte destra dei Murazzi, fra i tanti piccoli club ricavati all’interno delle vecchie arcate, era quello con la programmazione più coraggiosa: deep e dub quando imperava la minimal, Shackleton prima che esistesse il dubstep e il suono Uk quando il Berghain era conosciuto solo a Berlino. Il puddhu bar era vera cultura musicale. Un po’ come Sarabanda, ma senza il trash.
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