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Africa Express: una cosa divertente che non succederà mai più

Due giorni di follia a Roma con Damon Albarn e soci: nessuna intelligenza artificiale può scrivere una sceneggiatura del genere

Scritto da Giulio Pecci il 9 luglio 2025

È accaduto tutto nell’arco di qualche giorno. Effetto farfalla: salta un concerto nel Nord Europa e ti ritrovi a Parco Brin, alla Garbatella, a mangiare il pollo alla senegalese con Damon Albarn e cinquanta tra i musicisti più incredibili di Africa e Sudamerica. Un altro battito di ali ed ecco che il giorno dopo sei al Teatro Romano di Ostia Antica, a saltare sopra al palco mescolato con il pubblico e i suddetti musicisti incredibili, abbracciando un ubriachissimo Damon Albarn.

Un passo indietro. Martedì 8 Luglio 2025, per la prima volta in quasi vent’anni di esistenza, è atterrato sul suolo italiano Africa Express, progetto co-fondato da Damon Albarn che, leggenda narra, “sia nato nel 2005 in un pub di Covent Garden, al cospetto di un Live 8 con un unico artista africano in line up”. Insomma, un progetto figlio della fame infinita di Albarn per la musica. Nello specifico, per i suoni del Sud del mondo, con lo scopo dichiarato di creare ponti tra continenti mettendo in primo piano – come sempre, viene da dire: i Gorillaz insegnano – non la sua immagine, ma la musica e chi la suona. E se originariamente Africa Express era incentrato in toto sulle sonorità africane, oggi si è aperto molto anche a tutto ciò che viene dal Sudamerica. Tra i primi collaboratori di questo collettivo aperto c’è stato il compianto padre spirituale di tutta la musica africana contemporanea: Tony Allen. Oggi la ciurma è composta da circa cinquanta musicisti e tra questi ci sono vere e proprie icone di ieri e di oggi come Babà Sissoko, Moonchild Sanelly, Bootie Brown (The Pharcyde), Abou Diarra, Hak Baker e troppi altri da nominare.

L’intero carrozzone trans-generazionale e trans-continentale è in tour per presentare il nuovo album – “Bahidorà”. Come dicevamo, è bastato che saltasse una data perché il caos di Roma attraesse come un magnete il caos di questa banda di pazzi: una serie di distorsioni spazio-temporali senza senso. Per iniziare, la data al Teatro Romano di Ostia Antica è stata annunciata senza tempi di promozione, appena una decina di giorni prima. La diffusione è stata limitata e per lo più è avvenuta grazie al passaparola degli affezionati. Un vociare che ha assunto dimensioni surreali quando domenica 6 giugno i profili Instagram di Parco Brin, Ostia Antica Festival e Osteria Grandma hanno pubblicato un post congiunto annunciando una “cena di comunità a supporto del progetto Africa Express, con jam”. La grafica, surreale e povera di informazioni, era quasi controproducente: nessuno scrollando velocemente avrebbe mai potuto capire di cosa si parlasse.

 

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Lunedì quindi, sulla tavola del Parco Brin è arrivato l’ottimo pollo alla senegalese preparato da Solly Fakeba, il cuoco del Grandma. Pochissime le persone presenti, ancora di meno quelle che erano lì per Africa Express, una quindicina per esagerare, tutte divertite dalla prospettiva impossibile di una comparsata di Damon Albarn. Ti immagini? Lì in mezzo ai bambini urlanti con i pattini, le giovani coppie e i pischelletti maranza in uscita libera per la fine della scuola. Poi, come fosse un sogno lucido, Damon è comparso davvero. Con lui la più peculiare e meravigliosa composizione di esseri umani possibile.

Nessuno si è scomposto. Un paio di persone gli hanno chiesto foto e autografi, poi nient’altro, tutti tornati alle proprie birrette. La banda si è seduta a un tavolaccio enorme e non si sono mai alzati, sfondandosi di cibo e portandosene un po’ anche a casa. È giunta voce che ci fosse malumore: il driver, invece di portarli fino a sopra la Garbatella, li aveva lasciati a San Paolo. Immaginare la scena di questa carovana impossibile che scala le vie del quartiere, imprecando contro la viabilità e gli autisti romani, è quanto di più delizioso un lunedì sera possa offrire. Per qualche altro casino nessuno ha strumenti, quindi la jam non si fa. Insomma, a tutti gli effetti Damon e compagnia sono venuti a mangiare il pollo con posate e piatti usa e getta alla Garbatella, per poi tornarsene a casa.

 

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La mente è andata subito alle scene di Cardiff di questi giorni. Centinaia di euro spesi per andare alla reunion della band più (per chi scrive) sopravvalutata dell’ondata Brit-Pop e poi bastava farsi un giro alla Garbatella per beccare il vero genio di quel movimento. Ma, frecciatine a parte dedicate ai fratelli più antipatici del mondo, arriviamo al concerto. Al Teatro Romano di Ostia Antica non ci sono più di mille persone, ovvero poche. La Bruja de Texcoco apre le danze con un’energia pazzesca e frusta alla mano, invocando l’inizio di un rituale che, si capisce quasi subito, porterà a una partecipazione sempre più attiva.

Il palco è enorme e regna il caos già dalle prime note. Entrano ed escono musicisti ogni tre minuti, si passano lo stesso microfono, il roadie lavora come un ossesso per tenere in piedi la baracca. Sono tutti bravissimi e brano dopo brano ci si immerge senza sosta in un meraviglioso caos – parola che ho già usato molto ma che è insostituibile per rendere l’idea. Si viaggia dal Messico al Sudafrica agli Stati Uniti nello spazio di pochi secondi: si balla come ossessi e si piange con la voce stupefacente di Luisa Almaguer. Moonchild Sanelly insegna al mondo come si sta su un palco, gli Onipa sono la spina dorsale della band e non perdono un colpo nonostante siano nell’occhio del ciclone. È una festa senza precedenti.

Poi c’è lui, Damon. È defilato sulla sinistra, accartocciato dietro pianoforte e tastiere. Quando inizia a parlare è chiarissimo che la sobrietà l’ha lasciata alla Garbatella. Esilaranti discorsi sconclusionati, note di troppo, occhi strabuzzati e passeggiate malferme. A un certo punto ci regala una sequenza incredibile: va da Moonchild Sanelly e la sfida a una gara di twerk, persa senza appello. Subito dopo torna verso le tastiere, inciampa e si sfracella a terra. Si rialza subito un po’ malconcio, va a ridere con i musicisti che in quel momento sono nell’angolo ad aspettare il loro turno. Passerà tutta la sera così, galleggiando sul palco come un leviatano ubriaco, con un bicchiere in mano, suonando qualche nota, ringraziando e abbracciando tutti, invocando applausi dal pubblico.

In platea – prima dello show la band ha preteso che fossero rimosse le sedie, grazie a Dio – si salta e si mangia polvere. Quando lasciano intendere che si è arrivati all’ultimo brano, si rompono collettivamente mille cuori. Neanche il tempo di invocare il bis che Damon Albarn, ormai meravigliosamente fuori controllo – benedetto pazz’uomo – invita tutto il pubblico a saltare sul palco. Nessuno se lo fa ripetere due volte ed ecco che all’improvviso nasce un abbraccio collettivo che coinvolge tutti e in cui si perdono i confini e i ruoli di ciascuno.

La musica continua incredibilmente a suonare, Moonchild Sanelly corre tra il pubblico sorridendo come un diavolo blu e piazzando il microfono davanti a chi le capita a tiro; Damon “suona” la sua iconica diamonica a bocca strattonato da una parte all’altra; la sezione fiati messicana Los Prem pesta come se fossimo sul Titanic che sta affondando: il livello di compressione è tale che sono costretto a schivare i movimenti del trombone come fossero i fendenti di una spada. Dopo alcuni lunghissimi minuti di delirio e orgasmo collettivo piano piano la musica si esaurisce, i musicisti iniziano ad abbandonare il palco rincorsi da abbracci, pacche sulla spalla e “thank you” commossi. Scende anche il pubblico, con il cuore a mille e le orecchie pulsanti. Che cazzo è successo?

È successo che siamo stati investiti da un’ondata di bellezza commovente. Bellezza che per definizione è e deve essere imperfetta: non era il live in cui cercare pulizia tecnica (che c’è comunque stata in virtuosismi sconvolgenti); non il live dove chiedere a Damon Albarn di suonare i pezzi per retromaniaci; né quello in cui aspettarsi di capire tutto ciò che si ascoltava o vedeva. È stato invece il live in cui quello che dovrebbe essere il suo direttore artistico, la superstar planetaria, era perso nella nebbia e in cui il collettivo lo ha sostenuto e tirato su ogni santa volta. C’era solo da abbracciare un tornado di suoni, emozioni, culture e movimento perpetuo. Non riesco a immaginare niente di più meravigliosamente politico di tutto ciò, soprattutto in questo momento storico. Un elogio alle imperfezioni e alle differenze, una lezione di musica e di collettività. Non accadrà mai più e forse è giusto così: si sono allineati troppi pianeti perché questo concerto avesse luogo, in queste modalità.

Chi c’è stato se lo porta nella testa, nel sorriso e nella polvere tra i capelli. Così come io mi porterò sempre nella testa l’aver scoperto a fine concerto che il giorno prima Damon si è fatto accompagnare al Todis per comprare prosciutto e dentifricio: l’elogio del caso, della musica, dell’imperfezione e dell’umanità. È stato tutto velocissimo, nessuno ci ha capito niente, né noi né loro. Era un concerto necessario, difficile da definire altrimenti e che andrà elaborato piano piano. Con buona pace dei festival a cui bisogna andare con l’outfit ricercato e spendendo uno stipendio, con i profili Instagram che hanno più contenuto delle line-up, con gli artisti che li ascolti e te ne vai con il vuoto dentro e la sensazione di essere scivolato sul nulla cosmico ma infiocchettato da Dio. Viene in mente l’iperbole sul sinistro di Roberto Baggio: se eri al Teatro Romano di Ostia Antica per gli Africa Express e non ti è piaciuto, allora hai dei problemi con i sentimenti.