Sulla carta amministrativa non esiste ed è difficile dire quali siano i suoi confini, eppure la Zona Universitaria di Bologna la riconosci subito: per l’età media di chi attraversa le sue strade, la puzza di piscio negli angoli bui, la musica e le urla alticce che escono da più finestre contemporaneamente a notte tarda, l’atmosfera sopita della mattina, i litigi dei punkabestia e le camionette della polizia.
La si ama o la si odia, o prima la si ama e poi la si odia: dipende da chi sei e cosa fai, dall’orario in cui punti la sveglia, dal numero di bici rubate.
Qui si confrontano la città usata e la città vissuta, la città a termine e la città secolare: nel mezzo uno scontro che va avanti da decenni tra commercianti, studenti, residenti, avventori dei locali, spacciatori e senzatetto; ognuno di questi percepito dall’altro come presenza illegittima, ognuno con la propria concezione di “degrado” rispetto a un passato dato quasi sempre per migliore.
Tangente a tutto questo, impassibile, c’è l’università di Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Guido Guinizelli, Pico della Mirandola e Leon Battista Alberti, Nicolò Copernico, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli ecc. ecc. L’università più antica del mondo che dai 16mila studenti su 500mila abitanti circa degli anni 60 è passata alle centomila unità su 380mila abitanti. Un boom che ha influito pesantemente sulla composizione abitativa della zona attraverso la cosiddetta studentification che con la gentrification ha in comune la distorsione del mercato immobiliare a scapito dei vecchi residenti.
Oggi basta guardare i campanelli dei palazzi per rendersi conto quanti sono gli appartamenti studenteschi e quelli familiari, nonostante anche da queste parti incomba lo spettro di Airbnb e già da qualche tempo sono gli studenti a lamentarsi della mancanza di stanze o dei prezzi troppo alti. Una legge del contrappasso che in epoca Covid si è abbattuta sui locatori.
È una zona in continuo ricambio, che per il suo carattere “transitorio” ad alcuni potrebbe sembrare priva di personalità, nonostante sia proprio vero il contrario. Perché, anche a sentire “i vecchi”, è sempre stata così, uguale a se stessa nella sua ciclicità, nei conflitti irrisolti che si ripetono come un rito che ne rinforza l’identità.
A partire da Piazza Verdi, luogo simbolo delle lotte del ’77 e teatro di battaglie sin dal 1507, quando la furia popolare ridusse in macerie il Palazzo dei Bentivoglio; macerie che divennero “il Guasto”, una discarica a cielo aperto di cui nessuno si occupò per secoli. Anche dopo la costruzione del Teatro Comunale nel 1763 via del Guasto rimase invasa dai detriti, fino al 1972 quando il Comune affidò la riqualificazione all’architetto Rino Filippini, che progettò il giardino surreale che tutti oggi conosciamo. E fino al 2017, quando il Guasto Village, una sorta di Boxpark londinese, ha dato il via a una nuova serie di progetti di rivitalizzazione – estiva – dell’area voluti dal Comune, poi cambiati in corso, poi sospesi. Rimangono, per fortuna, i murali a budget zero curati da Serendippo.
[…] a sentire “i vecchi”, è sempre stata così, uguale a se stessa nella sua ciclicità, nei conflitti irrisolti che si ripetono come un rito che ne rinforza l’identità
Piazza Verdi, dicevamo: rimane uno dei luoghi rappresentativi di quella bolognesità un po’ trasandata, un po’ caciarona e un po’ riottosa, biglietto da visita sul quale in molti ci hanno sbattuto la testa senza mai riuscire a rinnovarne l’aspetto se non a colpi di modernizzazioni architettoniche con arredi urbani di dubbio gusto (a proposito: quant’erano belli i tre totem di Arnaldo Pomodoro vandalizzati e poi spostati impunemente nel Cavaticcio?).
Piazza di eterne notti coi bonghi sulla quale sfocia l’affluente via Petroni, decenni di sbocchi e cicchetti stratificati sotto al portico che convivono con baracci, minimarket e alcune tenaci botteghe che ne conservano la memoria storica; o anche appartamenti affittati senza rimorso che hanno visto l’ultima ristrutturazione nel secolo scorso e pochi stoici residenti con le proprie battaglie per il “diritto al dormire”.
Ma cosa ci fa lì il Teatro Comunale? Se lo chiedono tutte le volte le signore e i signorotti impellicciati che per accedere alle prime devono farsi strada tra vigili e gente stravaccata sull’asfalto.
Il Teatro che d’estate “si apre alla città” proponendo gratuitamente l’accesso al suo terrazzo trasformato in lounge bar. Rimangono le differenze però, tra quelli che scelgono di consumare la dreher da 2 euro in piazza e quelli che optano per il gin tonic a 12 con vista Torri.
Il Teatro che in futuro avrà una nuova facciata “contemporanea ed elegante”, una nuova sala prove e auditorium” un caffè e una vetrata che permetterà di vedere gli artisti mentre provano e di spendere 3 milioni di euro finanziati dal Patto per Bologna metropolitana.
Poco più in là, via Mascarella: le massime esistenzialiste scarabocchiate sotto i portici, le bottiglie di birra nei vasi della Cambusa, la fila di anziani il pomeriggio davanti al Cinema Odeon, la targa dedicata a Francesco Lorusso e i buchi dei proiettili ancora sul muro; dal muro scrostato di Palazzo Bentivoglio al bar di Linda con le sue carte da parati tropicali, dall’eau de toilette delle clienti del Bravo Cafè all’olezzo del take away peruviano, un coacervo di locali, personaggi e storie che evolvono e si compenetrano, arrivano, partono, ritornano, invecchiano, muoiono; un mix che talvolta ha l’aspetto del vomito agli angoli delle colonne, talvolta quello delle girandole colorate sui balconi.
Bella al tramonto quando con uno spritz puoi spostarti dal bar alla libreria Modo Infoshop e chiacchierare con uno sconosciuto di filosofia dell’aperitivo mentre ingurgiti le loro tartine con nonsocheccosa; bella la sera quando puoi scegliere se andare a vedere un film o sbronzarti, cenare con la prima cosa che ti capita a tiro o col gelato della Cremeria Mascarella, magari pure di svuotare il portafoglio alla Cantina Bentivoglio e al Bravo e poi finire la nottata sniffando lo zucchero a velo dei cornetti di Dolce Irnerio; per un pubblico diverso da via Zamboni, dove il pub comanda ancora.
Ma via Zamboni non è solo studenti e ubriaconi molesti, è anche solidarietà: tutti i giorni sotto il portico dell’oratorio Santa Cecilia padre Domenico e alcuni volontari distribuiscono cibo a chi ne ha più bisogno, mentre i turisti indifferenti visitano i bellissimi affreschi di quella che chiamano la “cappella Sistina” di Bologna.
Nel frattempo nel Ghetto Ebraico qualcuno in bici sta bestemmiando contro il ciottolato, davanti all’Orsa c’è la solita fila e c’è Marco Bassani che urla al megafono nelle orecchie di due americani: “esperimenti farmaceutici sui bambini, psicofarmaci, morte! e a voi non ve ne frega un casso!”; le voci e i suoni del quartiere raccolti nel bellissimo documentario sonoro di Massimo Carozzi/Zimmerfrei, Zona U.
Nei secoli secolorum.